Il clima, la sinistra, l’economia e la guerra

I disastri climatici che investono l’Europa in modo sempre più rilevante e con una forza distruttiva crescente dimostrano in modo che solo gli idioti non riescono a vedere l’urgenza dell’emergenza climatica e la necessità di una profonda revisione dei modelli produttivi e di sviluppo finalizzati a porre un argine al sempre maggiore deterioramento del clima. Parte della sinistra lo ha capito e ha posto l’emergenza climatica al centro del suo progetto politico; propone faticosamente una politica ambientalista volta a superare il modello di sviluppo e il sistema di produzione attuale basato principalmente sul ciclo del fossile.
Malgrado le evidenze, quanto sta avvenendo viene negato dalle destre che attribuiscono i fenomeni atmosferici al normale ed ordinario andamento del clima e si oppongono alle sinistre e all’adozione di politiche green per quanto riguarda la produzione come l’organizzazione della vita sociale. A tal fine utilizzano il negazionismo come strumento per contrastare le politiche ambientaliste, pur sapendo che esso non ha alcun fondamento scientifico e strumento di lettura dei fenomeni climatici, e tuttavia continua a riscuotere consenso, a causa del fatto che la realizzazione di una conversione green dell’economia e del modello occidentale ed europeo di sviluppo e di vita appare non realistica e difficilmente realizzabile, a meno di un non accettare il declino economico e la miseria, a causa della ristrutturazione produttiva necessaria a realizzarla e dei costi che questo comporta.
Quando la Commissione europea nel 2019 varò, come obiettivo strategico, la realizzazione di una trasformazione green dell’economia europea, sembravano esistere le condizioni economiche per realizzare le trasformazioni strutturali necessarie. perché i costi dei fattori economici e produttivi erano distribuiti in modo tale da permettere la trasformazione, mantenendo costanti profitti e benessere, ed anzi realizzando un ulteriore miglioramento degli investimenti, sviluppo tecnologico e una crescita degli stessi profitti. La trasformazione profonda del modello produttivo avrebbe dovuto
consentire di realizzare, senza ricorrere alla guerra, una fase di distruzione dell’apparato produttivo esistente e di una sua trasformazione che, tenendo conto delle nuove tecnologie. avrebbe consentito il mantenimento dell’accumulazione e del profitto ed anzi ne avrebbe accredito la portata consentendo ai detentori degli investimenti e dei capitali di conseguire i loro obiettivi applicando all’organizzazione della produzione il principio del “profitto da evoluzione dei fattori produttivi”.
Tuttavia questa condizione felice dell’economia dell’area dell’Unione europea era dovuta alla distribuzione dell’insieme dei costi di produzione lungo la filiera produttiva, che vedeva ridotto al minimo il fattore relativo al costo energetico necessario alla produzione grazie alle felici condizioni alle quali l’economia europea poteva disporre di
energia, in gas e petrolio, a costi bassissimi, fornita dalla Russia, ottenendone in cambio investimenti e coinvolgimento nel mercato dell’economia mondiale. Dopo la stabilizzazione politica avvenuta all’interno della Federazione russa, a seguito del crollo dell’URSS gli investimenti occidentali nel paese sono cresciuti al punto da creare le infrastrutture produttive per un’economia di mercato, che trasformava lo spazio economico russo in uno spazio economico promettente per le merci prodotte soprattutto nell’area dell’unione europea.
L’esistenza di queste condizioni non è sfuggita al capitalismo localizzato nel mondo anglosassone che vedeva contrarsi sempre più la sua presenza nel mercato globale anche a causa della crescita produttiva e commerciale della Cina e di numerosi altri attori economici e politici , i quali si dotavano di un proprio strumento di coordinamento delle loro relazioni economiche, costituito dai BRICS che aveva fra i suoi principali obiettivi quello di realizzare un’area di scambio alternativa a quella del dollaro. Da parte sua il capitalismo anglosassone concentrato negli Stati Uniti, Gran Bretagna, Australia e Canada non era convinto né capace di realizzare un’analoga trasformazione e, comunque, riteneva tale mutamento strutturale non conveniente ed accettabile.
Ciò dipendeva e dipende in parte dal ruolo centrale svolto dai gruppi che controllano la produzione di petrolio e gas non solo all’interno dell’apparato produttivo e anche di quello finanziario, ma ancor più dal fatto che il modello di produzione anglosassone, soprattutto di quella parte di esso localizzata sul territorio statunitense e britannico, era investito dagli effetti di una ristrutturazione produttiva appena subita, caratterizzata da delocalizzazione verso aree a basso costo energetico e altrettanto basso costo della forza lavoro, (Cina ad esempio, ma non solo) che aveva prodotto nelle loro economie e nella struttura sociale delle società in cui operano, devastanti mutamenti sociali nella distribuzione del reddito. In altre parole, lo smantellamento delle attività produttive, soprattutto manifatturiere in queste aree di antica industrializzazione e sviluppo, il loro spostamento e la loro delocalizzazione, l’incidenza profonda dell’informatica, dell’automazione, della telematica e in genere dello sviluppo tecnologico avevano e hanno prodotto, soprattutto in USA, e in Gran Bretagna un impoverimento della classe media operaia e impiegatizia che un tempo beneficiava di condizioni di lavoro e di redditi medio alti. Decentrare e delocalizzare ha certamente contribuito a far crescere i profitti per un certo periodo di tempo, ma ha consentito al tempo stesso il diffondersi della globalizzazione dell’economia e con essa la crescita sia pur graduale di sistemi produttivi in altri paesi, diversi da quelli delle aree tradizionali di sviluppo, caratterizzati dalla presenza di un alto tasso di crescita demografica e al tempo stesso dalla disponibilità di materie prime e di un facile accesso ad esse. [1]
Peraltro ciò avveniva mentre nelle aree di localizzazione delle attività produttive del capitalismo anglosassone assumeva sempre più rilevanza la decrescita demografica, bilanciata dal fenomeno immigratorio che se da una parte consente la disponibilità di un immenso esercito industriale di riserva di che consente di tenere bassa basso il costo della forza lavoro, dall’altro produce problemi di integrazione sociale e di convivenza sempre più gravi che mettono in crisi la tenuta sociale.
Questo insieme di fenomeni ha finito per mettere in crisi il modello sociale di distribuzione del reddito nelle aree leader nella produzione e ciò ha profondamente mutato il tessuto sociale, compromettendone la tenuta democratica, come dimostra la spaccatura profonda della società negli Stati Uniti, più che evidente in occasione delle elezioni per il nuovo Presidente, dove un ruolo politico essenziale nella crescita del populismo è svolto dalla classe operaia impoverita.

La funzione strategica della guerra d’Ucraina

Come in tutte le sue fasi di crisi di crescita dell’accumulazione del profitto il capitalismo ricorre spregiudicatamente all’uso della guerra per affrontare i problemi e cercare di risolverli a proprio vantaggio. La gestione della fase rendeva necessario, per il capitalismo anglosassone, recidere il cordone ombelicale che legava l’economia europea a quella russa e prevenire l’ulteriore rafforzamento dell’asse collaborativo tra le due aree economiche, quella russa e quella dell’Unione europea. Ciò avrebbe consentito all’area economica europea di realizzare la trasformazione green della sua economia e, in prospettiva, avrebbe potuto avvantaggiare ambedue le parti, consentendo loro di raggiungere una posizione egemone nel mercato e quindi di condizionare pesantemente l’equilibrio geostrategico dell’intero pianeta in un mondo che si avvia a divenire sempre più multipolare. Per questi motivi è stata programmata
un’operazione finalizzata a recidere questo rapporto, usando come utili idioti i nazionalisti ucraini e gli oligarchi di quel paese, vogliosi di affrancarsi dal vincolo economico e culturale verso il mondo russo.
Avendo come obiettivo strategico la frantumazione dell’unità della Federazione russa, considerata un’entità economica produttiva e strategica di dimensioni troppo grandi, tali da mettere in discussione l’egemonia del capitalismo collocato nell’area anglosassone del mondo, si è utilizzata la NATO e la sua espansione, come minaccia potenziale agli
equilibri strategici tra le diverse aree. Così, nel mentre l’impero americano esalava l’ultimo respiro, aprendo la strada ad un mondo multipolare, iniziava l’operazione di destabilizzazione della fascia di Stati neutrali, istituita dopo il dissolvimento dell’URSS, che veniva condotta con successo soprattutto in Ucraina, a partire dal 2014, quando con i fatti di piazza Maidan si spostavano in modo irreversibile gli equilibri politici del paese.[2]
Prendeva sempre più corpo il separatismo da parte degli oblast orientali del paese, seguiti dall’occupazione della Crimea da parte russa. mentre assumeva sempre più consistenza l’azione di destabilizzazione svolta in Ucraina dal Patriarcato ecumenico di Costantinopoli di concerto con il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti. Veniva così creata la Chiesa ortodossa autocefala Ucraina, facendo convergere componenti scismatiche dell’ortodossia in un’unica struttura ecclesiastica che si vedeva riconosciuta l’autocefalia dal Patriarcato ecumenico. Questa formazione assumeva, benedetta dalle autorità politiche, il ruolo di Chiesa di Stato e ad essa venivano progressivamente attribuiti con azioni di forza, espropri e procedure sostenute da apposite leggi e provvedimenti amministrativi, i beni e le strutture della Chiesa ortodossa canonica, legata al Patriarcato di Mosca, confessione religiosa storica del paese, accusata di connivenza con lo Stato russo.[3]
Fino a quando l’Europa ha potuto disporre di una guida forte e strategicamente consapevole, garantita dalla presenza di Angela Merkel sullo scenario politico del continente questa operazione è stata tenuta a freno, anche utilizzando gli accordi di Minsk uno e Minsk due. Tuttavia si è trattato soltanto di un rinvio, perché le condizioni si sono realizzate quando si è installata una leadership dell’Unione europea e della Germania deboli, nella persona dell’ostetrica inetta Ursula von der Leyen, riconfermata nel suo ruolo, proprio a causa della sua condizionabilità ad opera dei poteri forti statunitensi e grazie all’incolore e catatonico Cancelliere Scholz, alla guida della Germania.
Complice consapevole un saltimbanco istrionico e compiacente, nella persona di Zelensky, e i calcoli improvvidi e criminali dell’autocrate Vladimir Putin. il conflitto ucraino, di fatto già in essere dal 2014, poteva deflagrare in tutta la sua drammaticità, con l’inizio della cosiddetta operazione speciale, assumendo le dimensioni di una guerra devastante che sta seminando milioni di morti e distruggendo l’Ucraina: una guerra per procura dell’Ucraina per conto della NATO alla Russia con l’obiettivo di fiaccarne l’economia e di metterne in crisi l’unità, confidando che l’impegno nello sforzo bellico avrebbe finito per indebolire il regime producendo l’implosione della Federazione russa.
A dimostrazione di quanto affermiamo valga ricordare che uno degli obiettivi principali della guerra è stato costituito, come ha messo dagli stessi attori del conflitto, dalla distruzione del Nord stream due lungamente perseguita con pervicacia dall’amministrazione Biden fin dalla sua costruzione.

Gli obiettivi della guerra russo Ucraina

Agli occhi di ogni osservatore minimamente onesto, già all’inizio delle ostilità appariva in modo chiaro che tra i due belligeranti correva un rapporto di forze impari per uomini e mezzi, ai quali l’occidente prometteva di sopperire fornendo all’Ucraina armi e risorse economiche necessarie a sostenere la guerra. a condizione che il popolo ucraino mettesse a disposizione gli uomini sul campo. Come è sempre più evidente. con il passare del tempo, mentre le capacità belliche russe crescono quelle dell’Ucraina deperiscono.
Dall’inizio dell’ostilità circa 10 milioni di ucraini hanno lasciato il paese, ospitati e sostenuti dai paesi occidentali, mentre si calcola nell’ordine di 8 milioni il numero di ucraini residenti nei territori della Federazione russa sommando quelli che già vi risiedevano prima dell’inizio delle ostilità, quelli che hanno scelto di trovarvi rifugio per sfuggire alla guerra, ai quali vanno aggiunti gli abitanti rimasti nel 20% nel territorio ucraino attualmente occupato e annesso dalla Federazione russa.
Non è quindi errato valutare in non più di 22 milioni gli ucraini attualmente presenti sul territorio dello Stato, e sotto il controllo del governo di Kiev, ai quali il governo può attingere per la mobilitazione dell’esercito, con il risultato di ricorrere alla coscrizione obbligatoria eseguita in modo coatto da reclutatori che si incaricano di costringere i cittadini riottosi a prendere le armi, ottenendo scarsa professionalità e mancanza di motivazione dei soldati, diserzioni, abbandoni.
Malgrado siano stati forniti agli ucraini armamenti di ogni tipo, mentre ci si avvia ai tre anni di guerra, la situazione sui campi di battaglia è sempre più rovinosa per l’Ucraina. L’operazione propagandistica dell’attacco ucraino nell’oblast di Kurk si avvia al fallimento, dopo aver trascinato nell’avventura più di 20.000 uomini, la metà dei quali
costituiti da truppe “volontarie” di ogni provenienza. I fronti di guerra nel Donbass vedono le piazze forti ucraine cadere uno a una, a seguito delle manovre avvolgenti condotte dall’esercito russo che. dopo avere condotto una guerra di posizione, sta sviluppando un’iniziativa strategica volta alla sistematica distruzione dell’esercito ucraino.
Attualmente non vi è analista militare che non riconosca le crescenti difficoltà ucraine e la possibilità di una sconfitta. La situazione demografica del paese, già grave prima dell’inizio delle ostilità, si presenta oggi come catastrofica considerato che il tasso di natalità è ridotto ad 1%, e che la gran parte della popolazione ancora presente nel territorio controllato da Kiev è costituita da donne vecchie e bambini. In ogni caso già oggi l’Ucraina ha perso quella parte di territorio del paese più ricca di risorse minerarie e nella quale erano concentrate la gran parte delle attività industriali e produttive e questo processo sarà ancora più profondo se, come è probabile, l’esercito russo arriverà a prendere possesso di Zaporižžja e Dnipro ed anche solo parte dei territori dei rispettivi oblast. Se ciò avvenisse gli investimenti degli investitori occidentali che hanno acquistato i beni e le attività produttive collocate in questi territori sono da considerarsi
come perdite secche, poiché non saranno mai restituite. Non solo un’Ucraina ridimensionata presenterà un alto costo per la ricostruzione del paese e delle sue infrastrutture, con l’aggravante che l’eventuale sconfitta ne impedirà la sua militarizzazione e quindi l’ingresso nella NATO, imponendo al paese una neutralità che sarebbe da ostacolo anche ad un completo ingresso del paese nell’Unione europea, ingresso che peraltro sarebbe impossibile se si rispettassero i parametri anche minimi richiesti ad un paese aderente, in quanto l’Ucraina si caratterizza per un regime illiberale confliggente con l’aequis comunitario.

Per un rilancio della politica della sinistra Il ripristino

I partiti della sinistra devono prendere atto che i fatti appena descritti costituiscono la causa della situazione di crisi profonda nella quale essa versa e che vede la crescita sempre maggiore della destra negazionista della situazione climatica. Sfruttando le contraddizioni costituite dalla crescita dalla crisi economica conseguente alla ristrutturazione produttiva, improvvidamente iniziata dopo aver reciso le fonti di finanziamento che avrebbero dovuto accompagnarla, dalla crescita incontrollata e incontrollabile dell’emigrazione, che vede convergere i profughi della crisi climatica,
alimentare, di coloro che cercano di sfuggire alla guerra, siano essi profughi dai paesi mediorientali che dall’Ucraina, verso il territorio europeo destabilizzandolo e creando le condizioni affinché la destra populista possa promuovere la trasformazione degli Stati liberali in democrature, attuando il suo progetto politico e di gestione sociale.
Per contrastare questo disegno i partiti di sinistra, sedicenti tali o anche solo democratico-borghesi, devono decidersi a togliere ogni sostegno alla guerra, adoperandosi per l’apertura di trattative di pace tra Ucraina e Russia, anche se ciò dovesse comportare un drastico ridimensionamento del territorio controllato dal governo di Kiev, cercando di garantire i diritti di libertà delle popolazioni attraverso il prioritario ripristino della pace e lo svolgimento, sotto controllo internazionale, di referendum della popolazione ucraina, si ai quella fuggita dal paese che di quella che ancora vi risiede
perché scelga liberamente le proprie istituzioni.
Un’azione di ripristino delle della pace non può prescindere dal fornire garanzie alla Federazione russa come ai paesi dell’occidente di una pacifica convivenza che può essere garantita solamente da nuovi accordi di deterrenza che forniscano ogni garanzia alle parti evitando ricatti strategici da qualunque parte vengano.
Il ripristino della cooperazione economica e politica tra Unione europea e la Russia, che appare oggi impossibile, ed è tuttavia l’unica opzione che permetterebbe all’Unione europea di disporre delle condizioni economiche e strutturali per la trasformazione green della sua economia, il che contribuirebbe in modo rilevante ad affrontare la crisi climatica almeno con la speranza di contenerne i disastrosi affetti a livello globale, per la salvezza dell’intero pianeta.

[1] Il vecchio schema produttivo era organizzato sulla presenza di aree produttive differenziate la cui composizione e struttura era finalizzata al controllo della forza lavoro e della conflittualità operaia. Da un lato il capitale si era dotato di aree di produzione controllate e sicure, privilegiate, localizzate soprattutto negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, che garantivano non solo i livelli più avanzati di produzione dal punto di vista tecnologico, lo sviluppo dell’innovazione, ma anche fungevano da polmone strategico, volto a mantenere costante la produzione e il rifornimento del mercato.
Accanto a quest’area produttiva esisteva e prendeva sempre più piede la produzione a livello decentrato che, aiutata dalla globalizzazione, permetteva attraverso la delocalizzazione, che la produzione avvenisse nelle aree più deboli anche se politicamente instabili a minori costi, svolgendo quindi una funzione di riequilibrio verso le capacità contrattuali degli addetti alla primaria produttiva.
L’esistenza di una tale strutturazione consentiva di bilanciare la distribuzione della produzione e utilizzava il rapporto fra le aree produttive come strumento di controllo del mercato del lavoro e della e della conflittualità complessiva del sistema produttivo.      [2] G. Cimbalo, L’evoluzione dei rapporti tra Stato e Chiese nella Nuova Ucraina. Alla ricerca dell’Autocefalia , in “Diritto e religioni” 2-2020, pp. 252-304; ID., La guerra Ucraina e la destabilizzazione dei rapporti ecumenici, Coscienza e libertà, 2021, n° 61/62, pp. 135-144; ID.; Il ruolo sottaciuto delle Chiese nel conflitto russo-ucraino, in “Diritto e religioni” n. 2 del 2021, pp. 487-512; UCADI, I comunisti anarchici, la questione ebraica e quella palestinese, Newsletter Crescita Politica, n. 178, novembre 2023 – numero speciale: G. L., Putin e Zelensky per noi pari sono, Newsletter Crescita Politica, n. 184, 2024; Il crollo del fronte interno in Ucraina, Newsletter Crescita Politica, n. 180, 2023; Due considerazioni sull’Ucraina, Newsletter Crescita Politica, n. 176, 2023; I guasti della guerra ucraina, Newsletter Crescita Politica, n. 170, 2023; Le cause economiche della guerra ucraina, Newsletter Crescita Politica, n. 160, 2023; Guerra in Ucraina: la pista britannica, Newsletter Crescita Politica, n. 158, 2022; L’Ucraina di Zelensky prima di Putin, Newsletter Crescita Politica, n. 158, 2022; Il questuante e il dittatore, Newsletter Crescita Politica, n. 183, 2024; Guerre parallele, Newsletter Crescita Politica, n. 190, 2024.                                                                                        [3] La convergenza di interessi tra il Patriarcato di Costantinopoli e l’occidente e lo sviluppo della loro collaborazione comune nella azione in territorio ucraino è dettata dal fatto che il Patriarcato di Mosca è ritenuto strumento essenziale della politica geostrategica del Cremlino e strumento di influenza e controllo sul mondo slavo. L’intervento del Patriarcato ecumenico a sostegno di questa strategia è anche dettato dal conseguimento di obiettivi propri che consistono nel tentativo di assumere la rappresentanza riconosciuta dell’ortodossia nell’area europea.

G. C.