I comunisti anarchici, la questione ebraica e quella palestinese

Ninna nanna della guerra

Ninna nanna, nanna ninna,
er pupetto vò la zinna:
dormi, dormi, cocco bello,
sennò chiamo Farfarello
Farfarello e Gujermone
che se mette a pecorone,
Gujermone e Ceccopeppe
che se regge co le zeppe,
co le zeppe d’un impero
mezzo giallo e mezzo nero.
ché se dormi nun vedrai
tante infamie e tanti guai
che succedeno ner monno
fra le spade e li fucili de li popoli civili…
Ninna nanna, tu nun senti
li sospiri e li lamenti
de la gente che se scanna
per un matto che commanna;
che se scanna e che s’ammazza
a vantaggio de la razza…
O a vantaggio d’una fede
per un Dio che nun se vede,
ma che serve da riparo
ar Sovrano macellaro.
Ché quer covo d’assassini
che c’insanguina la terra
sa benone che la guerra
è un gran giro de quatrini
che prepara le risorse
pe’ li ladri de le Borse.
Fa’ la ninna, cocco bello,
finché dura ’sto macello:
fa’ la ninna, ché domani
rivedremo li sovrani
che se scambieno la stima
boni amichi come prima.
So cuggini e fra parenti
nun se fanno comprimenti:
torneranno più cordiali
li rapporti personali.
E riuniti fra de loro
senza l’ombra d’un rimorso,
ce faranno un ber discorso
su la Pace e sul Lavoro
pe quer popolo cojone
risparmiato dar cannone!

Trilussa

https://www.youtube.com/watch?v=TUb37MlJw9A


Sommario:

Premessa. 1. L’affermarsi dei nazionalismi. 2. L’Europa delle patrie e la nascita del sionismo. 3. La componente ebraica del movimento socialista, comunista e anarchico internazionale. 4. La dichiarazione Balfour (novembre 1917). 5. Il ruolo del “pansindacalismo ebraico” nella costruzione dello Stato. La Schoah e la “migrazione necessaria”. 6. La trasformazione (necessitata): Israele guardiano del mondo arabo islamico per conto dell’occidente. 7. La natura istituzionale peculiare dello Stato d’Israele. 8. La degenerazione capitalista dello Stato ebraico.

Seconda sezione: 1. Il popolo di Palestina. 2. La resistenza all’occupazione e all’esproprio: le responsabilità dei paesi mandatari. 3. La strumentalizzazione del problema palestinese da parte dei paesi arabi. La questione della custodia dei luoghi santi. 4. La deriva nazionalista e statalista dell’OLP. 5. La degenerazione islamista come strumento di difesa del diritto ad esistere. 6. Hamas a Gaza e in Cisgiordania.

Il trasferimento delle esperienze libertarie al popolo del Rojava

Premessa:
Quando nel 1807 gli ebrei d’Europa, convocati da Napoleone Bonaparte si riunirono a Parigi in occasione dei lavori del Gran Sinedrio con il quale Napoleone intendeva contrattare l’emanazione degli articoli organici per il culto ebraico, similmente a quanto aveva fatto con la Chiesa cattolica e il culto protestante, gli ebrei d’Europa accorsi in gran numero, anche dai territori esterni a quelli dell’Impero, si resero conto del loro gran numero e del fatto che in questi secoli di diaspora tante cose erano cambiate all’interno dell’ebraismo errante.
Gli ebrei sefarditi constatarono di essersi ben inseriti nei processi di accumulazione capitalistica dell’occidente e si resero conto delle potenzialità economiche che le comunità possedevano grazie alla presenza al loro interno di personaggi rilevanti della finanza che avevano fatto tesoro del divieto di svolgere molte professioni e si erano dedicati alle attività economiche, alla tenuta dei banchi di pegno, alle attività bancarie, ai commerci, alla medicina.
Gli ebrei ashkenaziti, che si erano stanziati prevalentemente nei territori tedeschi e slavi del centro e dell’Est Europa, si resero conto del loro numero, della loro diffusione sui territori, delle numerose e consistenti comunità alle quali avevano dato vita, spesso osteggiate dalle altre componenti della popolazione. All’interno di rapporti sociali e produttivi legati all’agricoltura, molti di loro si trovavano ancora nelle condizioni di servi della gleba, anche se cominciava a formarsi un proletariato urbano e operaio, soprattutto nei territori gestiti dall’impero asburgico. Non pochi di loro cercavano di inserirsi nella classe borghese in ascesa e, rivendicando il loro nuovo status, ambivano ad intraprendere la carriera militare e a svolgere professioni un tempo ad essi precluse.
A partire dall’incontro parigino che coinvolse i maggiorenti delle comunità cominciò ad affacciarsi l’idea, a fronte del diffondersi dei nazionalismi e dell’aspirazione delle classi borghesi a veder riconosciute le proprie tradizioni e i propri costumi, sintetizzati nel concetto di patria, di dar vita ad una possibile “patria ebraica”, ricostruendo la nazione ebraica in quei territori dai quali gli ebrei erano stati scacciati, in Palestina, concretizzando la profezia del ritorno e della ricostruzione del tempio.
La realizzazione di questo progetto è stata tuttavia quando mai lenta ed accidentata, ricca di battute d’arresto, prova ne sia che ai provvedimenti conseguenti all’adozione degli articoli organici per la confessione ebraica, seguì nel 1808 un decreto napoleonico restrittivo delle libertà accordate ai cittadini di fede ebraica. Tuttavia, il processo di
liberalizzazione delle condizioni sociali e di vita degli ebrei era stato avviato e lo si vide con l’abolizione progressiva di molti ghetti che via via scomparvero dal panorama delle città europee per ricomparire con il nazismo come luogo di concentrazione temporanea delle popolazioni ebraiche da avviare allo sterminio nei campi.
L’inclusione delle componenti ebraiche delle popolazioni nella vita civile conobbe nella prima metà del XVIII secolo soluzioni e situazioni differenziate a seconda degli Stati; si passa da una legislazione liberale adottata in Olanda, al mantenimento di restrizioni legislative in molti Stati nati dalla restaurazione post napoleonica nell’Europa occidentale, mentre le restrizioni all’inserimento sociale delle popolazioni ebraiche rimasero immutate in gran parte nei paesi dell’est, soprattutto nell’Europa centrale e negli immensi territori russi dove l’integrazione di fatto non avvenne. In occidente il
Ghetto di Roma fu l’ultimo a venire abolito in Europa occidentale nel 1870.
In Occidente gli anni che vanno dalla caduta di Napoleone alla metà del secolo vide l’inserimento degli ebrei emancipati nella vita sociale e politica dei diversi Stati. Le attività economiche e mestieri svolti da molti di loro consentirono l’inserimento con successo nella borghesia dei diversi paesi; alcuni di loro si distinsero ancora di più nelle
attività commerciali e bancarie, divenendo sostenitori dei rispettivi governi, anche al fine di guadagnarsi la rispettabilità sociale. Sovente il ruolo di questi esponenti della finanza venne utilizzato per alimentare l’antisemitismo anche se, considerata nel complesso degli appartenenti alla finanza internazionale, la componente ebraica della finanza è
equivalente a quella avente altre origini o tradizioni.
Questa identificazione con le classi borghesi comunque alimentò in alcuni ambienti, soprattutto in quelli della sinistra sociale, diffidenza verso persone che desideravano e ambivano alle cariche pubbliche civili e militari, e ad entrare a far parte e ad integrarsi nelle nuove classi dominanti, che menavano vanto della loro appartenenza alla nascente imprenditoria industriale, commerciale e finanziaria. Si acuirono perciò le diffidenze verso una parte della popolazione, quella ebraica, vista sempre più come una fazione separata della popolazione, che ambiva al riconoscimento della propria superiorità, derivata dal fatto di appartenere ad un gruppo etnico-cultural-religioso eletto, al quale la religione professata attribuiva una superiorità derivante da un riconoscimento divino, in ragione dell’appartenenza “di sangue”.
In questa situazione l’avversione verso gli ebrei non poté che continuare a crescere e negli anni successivi non mancarono sia nell’Europa occidentale che in quella dell’Est progrom che ebbero come bersaglio la popolazione ebraica: diverse sommosse antiebraiche scoppiarono in Germania negli anni 1830, 1834, 1844, 1848, e nei contigui territori ex polacchi annessi al dominio russo dopo la prima spartizione della Polonia. Venne creata la cosiddetta “zona di residenza” al di fuori della quale gli ebrei avevano il divieto di risiedere e su questo territorio si ebbero progrom sia nel 1821 che negli anni successivi. Nel resto del territorio dell’impero russo si ebbero ondate successive di progrom nel periodo che va dal 1821 al 1871 che coinvolsero anche la città Odessa e le comunità ebraiche disseminate nelle pianure e lungo i grandi fiumi dove si sviluppavano i commerci.
Queste ondate repressive, spesso realizzate con il sostegno delle forze di polizia dei diversi Stati, in realtà divise profondamente le comunità sulla base della collocazione economica di classe. La violenza dello Stato venne indirizzata verso le fasce più povere della popolazione, in modo che a subirne le conseguenze fosse anche il nascente movimento operaio e contadino. Tra le vittime della comune repressione nacque quella solidarietà di classe che vedrà molti ebrei parte attiva delle nascenti organizzazioni operaie e impegnate a dare il loro contributo alla formazione delle idee socialiste, comuniste e anarchiche. Carlo Marx non fu che uno dei tanti ebrei che dettero il loro contributo determinante alla formazione delle organizzazioni socialiste, comuniste e anarchiche dopo la diffusione del famoso Manifesto dei comunisti del 1848.
Delle conseguenze della collocazione di classe di una fascia relativamente ampia e soprattutto socialmente “visibile” degli appartenenti alle comunità ebraiche troviamo traccia in un discusso e controverso articolo di Michele Bakunin dal titolo Ai compagni della Federazione delle sessioni internazionali del Giura del febbraio-marzo del 1872 [1]
che per essere letto e compreso va contestualizzato e collocato nel quadro della polemica tra la componente anarchica e quella marxista all’interno dell’Associazione internazionale dei lavoratori per orientarne la politica.
Commentando le posizioni espresse nell’ambito dell’Internazionale a proposito della guerra franco-prussiana Bakunin critica con forza le posizioni di quegli esponenti dell’ala autoritaria dell’Internazionale che avevano espresso il loro sostegno allo statalismo bismarchiano, sposando le ragioni della Prussia: costoro erano apostrofati come appartenenti a una lobby, in prevalenza formata da appartenenti all’ebraismo, desiderosi di ottenere in tal modo l’inclusione sociale, l’accettazione nei salotti della borghesia tedesca.
Da difensore dei popoli slavi Bakunin indicava nel nazionalismo tedesco il principale nemico degli operai e dei contadini poveri dell’Est Europa e vedeva nell’ambizione di una parte non irrilevante degli ebrei ashkenaziti di cultura tedesca di essere riconosciuti ed integrati nella borghesia della nuova Germania degli appartenenti al nemico di classe di queste masse diseredate. Nell’argomentare le sue ragioni, Bakunin non mancava di ricorrere agli stereotipi dell’antisemitismo slavo (e in questo senso egli è figlio del suo tempo e della cultura russa) e si soffermava con particolare insistenza sulle sue forti pregiudiziali antireligiose, sulle quali poggiava tutta la sua concezione filosofico-politica (sintetizzabili nella celebre frase: Se Dio esiste, l’uomo è schiavo; ma Dio non esiste, dunque l’uomo è libero). Negli Ebrei egli vedeva i depositari di una tradizione religiosa, connotata dal fanatismo e dall’intolleranza nei confronti degli altri
popoli e degli altri culti, poiché essi affermavano la superiorità del loro unico Dio su tutti gli altri. Per Bakunin gli ebrei erano stati perseguitati, ma erano anche stati persecutori e intolleranti. Da ateo, quale era, non poteva vedere nel giudaismo che una forma acuta di aberrazione religiosa, sfociante nella dottrina del “popolo eletto”, titolare esso solo ed
esclusivamente dei suoi egoistici diritti, destinato per disposizione divina a prevalere sopra tutti gli altri e a dispetto di tutti. Abituato ad un’attenta analisi delle classi a Bakunin non sfuggiva che soprattutto nei paesi dell’est e dell’Europa centrale, laddove la presenza ebraica era molto numerosa, in società rigidamente strutturate per classi e stratificate per ceti e ruoli sociali, molti ebrei si collocavano in una posizione piccolo-borghese, quella propria di coloro che amministravano la povertà dei contadini e dei senza terra, dei piccoli artigiani, elargendo piccoli prestiti, e spesso sfruttando le miserie
altrui, vivendo di commercio e alimentandosi con i profitti delle loro attività.
È principalmente contro questa stratificazione di classe e di ruoli sociali che Bakunin si scaglia, per denunciarne le aspirazioni di molti ebrei a farsi classe borghese, a identificarsi col potere, con lo Stato, refrattari a ribellarsi allo sfruttamento. È perciò che dirige la propria critica contro questa mentalità, utilizzando gli strumenti dell’epoca, infarciti di antisemitismo: la sua critica prende atto con realismo che le comunità ebraiche erano malviste perché detenevano il monopolio del piccolo commercio, e spesso del prestito a usura, erano percorse da fremiti di aspettativa messianica a breve scadenza, di un’escatologia che faceva coincidere il loro riscatto con la loro affermazione religiosa, in quanto popolo “eletto”, e li collocava tra la classe dominante, inducendoli a rinunciare a ribellarsi e a fare causa comune con gli altri sfruttati.
Una ulteriore ragione di fondo, non espressa in questa lettera, ma spesso richiamata da Bakunin nei suoi scritti, lo divideva poi dall’ebraismo, anche da quelli di loro che avevano abbracciato la causa del proletariato: la convinzione degli ebrei che l’avvento dell’emancipazione dalla schiavitù sarebbe avvenuto attraverso il ritorno del messia e che era ineluttabile, non poteva che avvenire, posizione in fondo condivisa da quelli di loro – come Marx – che sposavano la causa del socialismo e del comunismo, i quali ritenevano che il mondo nuovo non avrebbe potuto che trionfare ed infine affermarsi sulla terra, grazie allo sviluppo stesso delle forze produttive.
Bakunin, da ateo sincero, giudicava fuorviante e diseducativa questa convinzione escatologica poiché egli vedeva nella volontà e nella ragione, nell’azione diretta, nell’organizzazione rivoluzionaria, lo strumento di emancipazione dei lavoratori, ritenendo che l’emancipazione delle classi sfruttate, aveva una componente volontaristica individuale, dove il ruolo della persona, del singolo era di estrema importanza e che quindi la rivoluzione sociale avrebbe dovuto essere opera
delle classi sfruttate stesse e dei singoli individui e non poteva venire dall’alto o da un disegno profetico o anche grazie alla guida illuminata di un partito. Bakunin, infatti, poneva al centro dell’azione l’individuo con tutte le sue potenzialità razionali, confidando negli esseri umani come i soli artefici del loro futuro, nell’assenza di Dio.

L’Europa delle patrie e la nascita del sionismo

Le rivoluzioni del 1848 segnano in Europa l’affermarsi dei nazionalismi per dar vita all’Europa delle nazioni e delle patrie. I conflitti degli inizi della seconda metà del secolo XVIII sono caratterizzati dalle lotte per l’indipendenza e l’unità nazionale dell’Italia, della Prussia, del Belgio, della Grecia e per il ridimensionamento degli imperi multietnici
come quello asburgico che nel 1867 si trasforma in austro-ungarico. Quest’ultimo cerca inutilmente di contrastare i nascenti nazionalismi attraverso una riforma delle proprie istituzioni, inaugurando una politica legislativa multietnica e multireligiosa che porterà alla crescita delle autonomie regionali nei diversi territori dell’impero e all’emanazione di leggi che permettono ai diversi culti di organizzarsi e di operare liberamente: non è un caso che la Costituzione del 1867 riconosca la libertà di culto a tutte le minoranze religiose. Questo processo raggiungerà il suo culmine con la prima legge europea sulla libertà del culto musulmano nel 1912 per i territori della Bosnia Erzegovina appartenenti all’impero.
Negli altri paesi, tuttavia, le persecuzioni anche ebraiche continuarono con feroce determinazione, in Polonia come in Russia, in Romania come in Ucraina, nei Paesi Baltici come Bulgaria e nel resto dei Balcani. Di fatto l’integrazione nelle diverse compagini statali della componente ebraica delle popolazioni non avvenne e i progrom
continuano ad avvenire in molti Stati dell’Europa occidentale ed orientale.
Sul finire del secolo l’antisemitismo latente assume anche in Austria-Ungheria forme più moderne: nel 1891 Karl Lueger fonda il Partito cristiano sociale austriaco che fa dell’antisemitismo uno dei tratti caratteristici del suo Statuto dando il via a una politica strisciante di emarginazione della componente ebraica della popolazione, pur rilevante.
Ma ancor più testimonia della crescita delle ostilità contro gli ebrei l’esplosione in Francia nel 1894 dell’affare Dreyfus che fa emergere il profondo antisemitismo della società francese e divide il paese e l’opinione pubblica nazionale e internazionale: Afred Dreyfus ufficiale francese di religione ebraica venne accusato di spionaggio e tradimento per aver trasmesso ai Tedeschi documenti segreti relativi all’ esercito francese, sulla base di prove false, artatamente costruite negli ambienti dei servizi segreti francesi. Il processo divise la società francese e lo scontro tra le diverse fazioni, anche se si chiuse con sentenza definitiva nel 1906, continuò a dividere l’opinione pubblica mondiale.[2]
Il clima avvelenato, pervaso di paure e pregiudizi verso l’ebraismo, creato dall’affare Dreyfus, costituì l’humus ideale per una studiata provocazione ad opera della polizia segreta zarista, la quale costruì il falso “Libro dei 7 Savi di Sion” che ipotizza l’esistenza di una congiura giudaico massonica messa a punto per controllare il mondo ed insidiare
l’ordine mondiale, mettendo in crisi gli Stati e le Nazioni; il libello diventa lo spauracchio agitato dall’antisemitismo per terrorizzare l’opinione pubblica borghese.
La provocazione, abilmente costruita, avrà successo soprattutto in Russia, e diffonderà in Europa e nel mondo la paura e il timore per tutto ciò che l’ebraismo, supposto controllore della finanza internazionale, potrà fare, per sconvolgere l’ordine mondiale e condizionare la vita delle nazioni e dell’intera umanità. L’esistenza di un piano diabolico di sovversione viene presentata come il frutto di oscure trame e diviene il manifesto propagandistico dei partiti della destra in ogni paese, alimenta il clima di odio verso gli ebrei, soprattutto verso quelli di loro che cercano di inserirsi a pieno titolo nella società civile e ambiscono a far parte della borghesia.
Se le vittime della campagna di discredito sono gli ebrei emancipati, quelli che cercano di omologarsi ai borghesi mostrandosi più realisti del re, all’interno della società borghese, l’odio sollecitato e coltivato contro di loro, si scarica sulla massa di ebrei poveri che costituiscono parte non irrilevante del proletariato contadino ed industriale. I progrom coinvolgono intere comunità, villaggi di contadini, sindacati operai, seminando il terrore.                                                                                                                              Così, buon ultimo sulla scena dei nazionalismi, arriva il movimento sionista, che prende le mosse da un’iniziativa dal giornalista ungherese Theodor Herzl il quale organizza tra il 29 e il 31 agosto 1897 a Basilea il Congresso Mondiale Sionista. Vi partecipano circa duecento delegati – tra cui 17 donne, di 17 nazioni diverse – in rappresentanza di una
settantina di organizzazioni. All’ordine del giorno la messa a punto di un progetto sionista per la creazione di uno Stato che dia una patria a tutti gli ebrei.
Alla convocazione del Congresso si giunse solo dopo che il progetto di Herzl venne bocciato da banchieri e filantropi ebrei, come il barone de Hirsch e la famiglia Rothschild, alla quale era stata fatta richiesta di finanziare una sorta di Commonwealth ebraico, da politici e governi: tutti non presero in seria considerazione l’appoggio verso la causa ebraica. La riluttanza con cui la finanza e la politica guardò al Congresso conferì all’iniziativa un carattere popolare, liberale e democratico che influenzò in una prima fase le attività del movimento sionista. Al Congresso parteciparono esponenti di tutte le correnti dell’ebraismo: quello conservatore, quello ortodosso e quello riformato.
Dal dibattito emersero tre tendenze:

  • la prima – pratica – vedeva nella colonizzazione agricola della Palestina il mezzo per restituire agli Ebrei la loro dignità umana e per far valere in futuro effettivi diritti sul territorio, e trovò il suo strumento nel Qeren qayyemeth le Yiśrā’ĕl («Fondo permanente per Israele», noto come Fondo nazionale ebraico), creato nel 1901 allo scopo di acquistare terreni in Palestina;
  • la seconda tendenza, etico-religiosa, che si batteva per un ritorno alla tradizione e la rinascita di uno spirito nazionale e dei valori culturali e religiosi dell’ebraismo;
  • la terza tendenza, quella politica, mirava a ottenere la concessione di una ‘carta’ internazionale che autorizzasse e tutelasse l’immigrazione ebraica in Palestina

Il congresso ebraico terminò con la fondazione dell’Organizzazione sionista mondiale e l’adozione del Programma di Basilea che nei suoi principi, stabiliva che “Lo scopo del sionismo è quello di creare una casa in Eretz Yisrael (letteralmente la Terra di Israele, ovvero la regione che secondo il Tanakh e la Bibbia, venne promessa da Dio ai discendenti del popolo ebraico), per gli ebrei sotto tutela della legge e riconosciuto a livello internazionale”. Pertanto, si decise di favorire l’insediamento in Eretz Yisrael di agricoltori, artigiani e produttori ebrei; di dar vita a organizzazioni unitarie di ebrei a sostegno del progetto, nel rispetto delle leggi dei paesi di residenza; di rafforzare e sviluppare la promozione del sentimento nazionale e della coscienza nazionale ebraica; di svolgere opera di convincimento presso i governi dei rispettivi Stati per raggiungere gli obiettivi del sionismo.
Il dibattito che ebbe luogo nel Convegno, peraltro svoltosi alla luce del sole e con la partecipazione anche di osservatori estranei all’ebraismo, venne presentato come un’ulteriore conferma dell’esistenza di un piano volto ad incidere sull’ordine mondiale, condizionandolo con il peso del denaro e della finanza, mediante un’alleanza plutocratico-massonica volta a realizzare il progetto a danno di tutte le nazioni, sottraendo ad esse risorse e mezzi necessari al proprio sviluppo.
Come è noto, il seme dell’odio razziale, seminato, gestito e coltivato con attenzione e perizia finirà per produrre i suoi orribili frutti con il nazismo che potette operare proprio perché queste opinioni e sentimenti erano condivisi a livello sociale ed erano tutt’altro che isolati, sfruttavano le paure e i bisogni insoddisfatti delle masse, offrendo un comodo capro espiatorio per giustificare l’esistenza del perpetuarsi dello sfruttamento capitalistico dell’uomo sull’uomo coltivato da tutti gli Stati.

La componente ebraica del movimento socialista, comunista e anarchico internazionale

Nelle desolate lande dell’est e del centro Europa, alimentato dallo sviluppo delle forze produttive il proletariato agricolo si trasformava lentamente in proletariato industriale, mentre la crescita demografica della popolazione complessiva vede ridursi le risorse economiche e alimentari disponibili. Perciò un flusso crescente di proletari, operai e
contadini senza terra, sceglieva la strada dell’emigrazione verso le Americhe. Questo sterminato esercito di diseredati si dotava di catene di solidarietà, alimentate da medici scalzi, itineranti, che prestavano le loro cure agli ammalati, da maestri volontari che insegnavano clandestinamente a leggere e scrivere, per fornire quei minimi elementi di difesa ai poveri, alla ricerca di un futuro migliore, influenzati dalle idee nichiliste che si diffondevano in modo crescente nella cultura russa e in quella tedesca. Ben presto nel solco di queste idee si fecero strada quella del socialismo e dell’anarchismo divenendo egemoni, alimentate dallo sviluppo delle forze produttive e dalle sue leggi e disvelando i
meccanismi di dominio sociale ed evidenziando la funzione di rapina del capitalismo. La presa di coscienza sempre più diffusa del proletariato contadino e del sempre più numeroso proletariato industriale spinsero l’impero austroungarico e la stessa Prussia a adottare una più moderna legislazione del lavoro, che permise la nascita dell’associazionismo operaio e contadino, la formazione di sindacati, fenomeni sui quali incisero non poco i partiti socialisti riformisti, permettendo lo sviluppo di queste organizzazioni. L’associazionismo operaio nato in Francia con le Bourses du travail, volute e costituite dagli anarchici come Fernan Pelloutier, si diffuse ben presto e con una rapidità inattesa in tutta Europa, conferendo una forza sempre maggiore alle organizzazioni operaie. Strutture simili si diffusero in tutto il mondo portando alla nascita dei sindacati anarcosindacalisti e sindacalisti rivoluzionari che accrebbero la loro importanza nel primo ventennio del XX secolo e dettero vita successivamente all’AIT (Associazione Internazionale dei sindacati anarchici e rivoluzionari).
Poco conosciuta alla pubblicistica storica occidentale è la storia e le tappe dello sviluppo delle organizzazioni operaie del centro Europa e soprattutto negli sterminati territori ricompresi all’interno dell’impero austro ungarico che comprendeva gran parte delle popolazioni slave del centro e del sud Europa, oltre naturalmente ai territori di tradizione e cultura tedesca, in quelli polacchi e nei territori anch’essi sterminati dell’impero russo.[3] Quel che è certo che anche nei territori del Centro e dell’Est Europa era fortissima e significativa la presenza di popolazioni di tradizione cultura e
religione ebraica, prova ne sia il fatto che in molte di queste aree l’yiddish era una lingua molto diffusa e parlata e in alcune aree addirittura egemone come, ad esempio, nei territori dell’attuale Bielorussia dove le lingue ufficiali nel ventennio precedente alla Seconda guerra mondiale erano tre: il russo, il polacco, l’yiddish. In tutti i territori tedeschi, polacchi e russi moltissimi erano i giornali e fiorente era la stampa in lingua yiddish a cura delle organizzazioni operaie e contadine.
Le forze organizzate del movimento operaio e contadino potettero così sviluppare e far crescere una cultura propria, che nella lotta per l’emancipazione e contro lo sfruttamento elaborava valori propri anche in campo educativo e pedagogico, come è il caso dei metodi di educazione libertaria propagandati da Francisco Ferrer y Guardia e dalla sua Scuola moderna. Così il proletariato, lottando andava costruendo passo passo la società futura, i suoi istituti, le strutture di organizzazione di gestione sociale.
L’ultimo trentennio del XIX secolo e il primo ventennio del XX sono caratterizzati da una forte migrazione dall’Europa verso le Americhe. All’interno di questo gigantesco fenomeno migratorio la componente ebraica è particolarmente numerosa poiché spinta ad emigrare non solo dalla ricerca di migliori condizioni di vita e di lavoro, come avveniva per i tanti proletari, ma anche dalle persecuzioni religiose, dai progrom alimentati dal crescente razzismo e antisemitismo delle popolazioni, artatamente alimentato dai poteri forti che utilizzavano la presenza ebraica per additarla come il pericolo da sventolare e sul quale scaricare le tensioni sociali e l’odio di classe.
Le attività di molti ebrei, dediti al piccolo commercio, alla gestione dei piccoli prestiti, all’esercizio delle professioni liberali li consegnavano all’odio delle classi meno abbienti che vedevano i loro gli esattori diretti dei piccoli prestiti ottenuti, i gestori delle loro miserie, non rendendosi conto che essi costituivano il primo anello immediatamente
visibile (il più basso) di una società strutturata in classi nella quale le ricchezze si concentravano nelle mani di pochi.
L’odio religioso, seminato per secoli dai cattolici contro quel popolo che era additato come l’assassino del Cristo fece il resto e costituì l’alimento a improvvise rivolte, a massacri di ebrei che avevano l’effetto di spingere molti di loro alla fuga e all’emigrazione.
In questo peregrinare per il mondo gli ebrei, come gli altri proletari, portarono con sé le loro esperienze, il loro vissuto, le loro abitudini, le catene di solidarietà familiari, di lingua, di cultura, di religione, ma anche di credo politico.
Queste ultime furono particolarmente forti e solide, rafforzate da un’attenzione costante delle popolazioni di lingua yiddish per le loro tradizioni, propense a coltivare e mantenere la loro lingua e la loro cultura, veicolando attraverso di essa idee, sogni, progetti politici e la visione di una possibile società futura, dove i bisogni elementari dell’uomo e della donna venivano soddisfatti, nella quale regnava l’eguaglianza sociale e la solidarietà, dove prevaleva il senso di comunità di appartenenza, la ricerca della realizzazione di un’ideale comune, la fiducia in una società futura possibile, di liberi ed
eguali, dove il comunismo e la sua ultima istanza l’anarchia, potevano trovare realizzazione.
La propensione a coltivare questo sogno veniva anche dalla tradizione religiosa. Molti di loro, abbandonate le credenze religiose, sposate quelle del materialismo e della rivoluzione sociale, trasportavano nelle nuove convinzioni l’aspirazione all’utopia, la convinzione di una apocalisse possibile, che avrebbe trasformato il mondo, reso l’umanità migliore e più felice, segnando la realizzazione del ritorno alle origini della specie, il ritorno a quel paradiso terrestre il cui sogno era stato tramandato dalla religione e che, nella nuova visione di classe, diveniva la realizzazione del comunismo e dell’anarchia, il ritorno allo stato di natura originario, felice, a quando il dominio dell’uomo sull’uomo e la sete di potere non avevano ancora pervertito la natura umana. L’attesa del ritorno del messia e la certezza della sua venuta si trasfiguravano e trasformavano nella ineluttabile vittoria del comunismo facendo emergere un determinismo scientista non condiviso dalla componente anarchica del movimento operaio e contadino ma certamente diffuso.
A scorrere le biografie delle migliaia di militanti anarchici – e particolarmente di comunisti anarchici – che portarono le loro esperienze per il mondo e si distinsero nella lotta di classe, la presenza di uomini e donne di cultura, lingua e tradizione yiddish è dunque particolarmente numerosa, importante e significativa sia per il ruolo di direzione da esse assunto nelle lotte operaie contadine, sia per il contributo di pensiero. di elaborazione teorica, di progettualità politica, manifestati nella direzione di sindacati, di partiti e di organizzazioni di classe che potenziarono e orientarono lo sviluppo della lotta di classe.[4]                                                                                                                        Non stupisce perciò che quando la scure della repressione si abbatté sul movimento operaio americano nel 1917, con l’inizio delle grandi persecuzioni ed espulsioni dagli Stati Uniti, quando la Prima guerra mondiale scompaginò le organizzazioni operaie, portando la morte tra i proletari chiamati a combattersi nelle trincee della guerra europea in nome dei nazionalismi e delle patrie, quando la disillusione della rivoluzione russa, combattuta e sconfitta nelle sue istanze egualitarie e libertarie dai bolscevichi, fece sentire i suoi effetti, quando la sconfitta del movimento socialista, anarchico e
comunista in tutta Europa dopo la fine della Prima guerra mondiale e nel tragico ventennio fra le due guerre sconvolse i militanti della lotta di classe; quando negli anni ’30 i movimenti sindacali e politici in America Latina vennero sconfitti, non pochi militanti della lotta di classe di lingua e cultura yiddish. spinti dalle persecuzioni razziste e antisemite, si ritrovarono ad imboccare la strada della Palestina.
I massacri di popolazione conseguenti alla guerra, la morte di milioni di uomini spopolò le contrade d’Europa e indusse la destra razzista e xenofoba e l’antisemitismo ad allargare il suo raggio d’azione e a formulare la “teoria del piano Kalegi” della sostituzione etnica allargando la sfera d’azione dell’odio di classe.
Nell’insieme si trattò di un processo graduale e lento che vale la pena di ricostruire nelle sue tappe per poterne cogliere sia le motivazioni, che i caratteri distintivi e comprenderne infine i limiti e le ragioni finali della presa di distanza e dalla definitiva separazione, quando apparve palesemente inconciliabile il rapporto tra mezzi e fini del progetto di costruzione dello Stato ideale, della società nuova in Palestina.

La dichiarazione Balfour (novembre 1917)

Possiamo individuare nella dichiarazione di Balfour del novembre del 1917, con la quale il governo britannico, titolare del mandato sulla Palestina affidatole dalle Nazioni unite, si impegnò a facilitare la creazione in Palestina di una sede nazionale per il popolo ebraico, incorporando tale impegno nello statuto del mandato, la data di inizio di quel processo – molto lento e graduale – che indusse non pochi militanti della lotta di classe, in maggioranza di lingua e cultura yiddish a individuare, nella possibile soluzione della questione ebraica, il contesto nel quale realizzare al tempo stesso
l’aspirazione a costruire una società più giusta e i loro ideali di realizzazione del socialismo e di una società senza classi.
Bisogna considerare che il progetto di costruzione di uno Stato ebraico, sostenuto dal sionismo internazionale è un progetto di tipo capitalistico che va collocato nel quadro del nazionalismo e dell’equazione tra popolo e Stato. Esso parte dalla condivisione dell’idea che una comunità che ha in comune cultura, lingua, tradizioni, debba poter disporre di un proprio territorio esclusivo e abbia diritto a darsi proprie istituzioni, costituendo una Nazione. Si suole così individuare come patria l’ambito territoriale, tradizionale e culturale, nel quale si sviluppano le esperienze affettive, morali, politiche
dell’individuo, in quanto appartenente a un popolo a una comunità. Considerando che il popolo ebraico era stato scacciato della propria terra per decisione dei romani e si era diluito nel mondo attraverso una migrazione forzata, una diaspora che non ha avuto pari nelle esperienze di altri popoli, la ricerca di un territorio nel quale stabilirsi è – come abbiamo visto – oggetto di discussione a partire dalla metà del XIX secolo, tanto che vengono individuate e percorse, per iniziativa di attori diversi, più soluzioni possibili al problema.
Una delle soluzioni ipotizzata nel periodo fra le due guerre mondiali venne individuata nell’Albania. Si chiede a Zoug, re d’Albania, di accogliere nel proprio paese la diaspora ebraica; il paese aveva allora una popolazione relativamente poco numerosa. L’arrivo degli ebrei – si disse – avrebbe portato ricchezza e sviluppo al paese. Benché sembrò che il progetto non dispiacesse al sovrano, ben presto quest’idea abortì e venne paradossalmente ripresa in altro luogo per iniziativa della Repubblica di Vichy e con il sostegno dei nazisti. La colonia francese del Madagascar venne individuata come il luogo nel quale deportare gli ebrei affinché vi costituissero un proprio Stato, convidando che vi avrebbero trovato la morte a caysa selle malattie e del clima; questo nel mentre si provvedeva in realtà alla loro eliminazione fisica, attraverso la cosiddetta soluzione finale del problema ebraico, adottata fin dal 1938 dal nazismo.[5]
Più realisticamente l’insediamento ebraico in Palestina ebbe un proprio percorso che divenne più consistente dopo la seconda Aliya (emigrazione a scopi religiosi nei luoghi santi dell’ebraismo) proveniente principalmente dalla Russia. Si trattava prevalentemente di popolazioni fortemente influenzate dai movimenti socialisti, comunisti e anarchici che si erano sviluppati negli odierni territori della Polonia, della Bielorussia, del nord dell’Ucraina e della attuale Russia.
Sia pure in tempi diversi analoghi progetti vennero ipotizzati individuando nel Congo Belga, Libia italiana, Argentina i luoghi nei quali gli ebrei avrebbero potuto ricostruire la loro nazione, emigrando con il solo risultato di dar vita a brandelli di comunità che poi sono sopravvissute nel tempo.                                                                                        Più concretamente, condividendo gli ideali socialisti di uguaglianza nel lavoro a favore della comunità, nel 1909 alcuni di costoro fondarono a Degania, a sud del Monte Ehilam, nei pressi del lago di Tiberiade il primo kibbutz, [6] dando vita ad una struttura all’interno della quale ogni singolo individuo si impegnava a lavorare per tutti gli altri,
ricevendo in cambio, al posto del denaro, solo i frutti del lavoro comune, evitando così alla collettività di cadere nelle mani di una società consumistica e mercantile. Non è secondario che questa struttura venisse costituita in un’area in cui l’agricoltura era a puri livelli di sussistenza e che, grazie alle tecnologie e ai saperi adottati ed introdotti dai promotori dell’iniziativa, producesse una struttura aziendale caratterizzata da alta produttività, ottenendo un buon risultato economico, facendo così da vetrina e dimostrando che l’esperimento poteva avere successo.
L’influenza ideologica nella costruzione di questo modello di organizzazione sociale e produttiva è evidente ed ha le proprie radici nelle realizzazioni comuniste e anarchiche di comuni libertarie che erano sorte negli anni precedenti un po’ ovunque nel mondo, ma soprattutto in America Latina, in territori considerati ai margini del controllo capitalistico, come tentativi di costruzione di un tessuto produttivo e sociale alternativo a quello capitalistico. Queste esperienze erano state ripetutamente e ampiamente riportate e pubblicizzate nei giornali e negli opuscoli di propaganda in lingua yiddish al
punto da divenire patrimonio comune di intere popolazioni, ma dopo alcuni anni erano fallite.
Analizzando le precedenti esperienze vi fu chi giunse alla conclusione che una delle cause che avevano portato al deperimento delle comunità costituite in passato era stata l’estrema eterogeneità culturale e politica di coloro che partecipavano all’esperimento. Anche se la struttura comunitaria ipotizzata prevedeva come elemento nodale e
caratterizzate dell’organizzazione politica la struttura assembleare e l’assunzione di decisioni collettive dopo un ampio dibattito che avrebbe dovuto coinvolgere tutti i membri della comunità e quindi era strutturale la presenza di una continua tensione dialettica tra coloro che prendevano parte a questa esperienza si ritenne, tuttavia, che l’elemento della comune appartenenza all’ebraismo forse l’elemento culturale necessario di coesione per fare da indispensabile cemento della nascente comunità e si decise di escludere l’elemento costituito dalle popolazioni indigene dal partecipare all’esperienza.
In tal modo la comunità ipotizzata divenne esclusiva ed escludente, certamente non dialogante con i diversi da sé, ma soprattutto introdusse la contraddizione costituita dalla necessità di ricorrere ben presto a manodopera salariata per sopperire alle necessità economiche dell’insediamento, e così facendo reintrodusse le leggi di mercato che dichiarava all’origine di voler espellere Veniva così rotto il criterio dell’uguaglianza come carattere distintivo in tutti coloro che facevano parte della comunità la quale, per sopravvivere entrava in relazione con il mondo esterno attraverso un rapporto di subordinazione, costituito dall’esistenza del lavoro salariato.
Ciò malgrado i progrom e la crescita dell’antisemitismo, la repressione dei movimenti di classe di operai e contadini, duramente repressi a causa delle loro lotte, indussero non pochi militanti della lotta di classe a decidere individualmente di dare il loro contributo alla causa ebraica con la prospettiva di portare al progetto di costruzione di una società nuova e solidale il loro contributo, orientandolo verso una visione laica e comunitaria della società futura, nella quale gli elementi dell’appartenenza religiosa ed etnica venissero superati e amalgamati, grazie alla superiore condivisione di una visione di classe egualitaria che, attraverso la costruzione di strutture economiche e partecipate, gestite collettivamente, consentisse a tutti coloro che ne erano parte, di godere di eguali diritti e di dover sottostare ai medesimi doveri di solidarietà e di amicizia, nella condivisione di una vita comune.
Ma nel 1917, nel pieno della Prima guerra mondiale, ebbe inizio la terza Aliya [7]: sotto il Mandato britannico l’immigrazione ebraica in Palestina subì un’accelerazione: solo negli anni Venti immigrarono nella zona quasi 100.000 ebrei, contro poco più di 5.000 non ebrei. Il risultato fu quello di portare la popolazione ebraica in Palestina dalle 83 000 unità del 1915: La guerra mondiale attenuò il flusso portandoloa 84.000 unità del 1922 (a fronte dei 590.000 arabi e 71.000 cristiani) Ma già nel 1931 gli ebrei erano 175.138 (contro i 761.922 arabi e i quasi 90.000 cristiani), e divennero 360.000 unità della fine degli anni Trenta. [8]
Il movimento sionista per dare concretezza alla realizzazione del progetto di costruzione delle nuove strutture produttive, decise di riservarne alla sola componente ebraica della popolazione la partecipazione con pieni diritti.                                            La scelta, combattuta da non pochi militanti della lotta di classe divenne definitiva quando nel 1920 venne costituito in Palestina il Qeren ha-yesōd («Fondo della base», noto come Fondo per l’edificazione della Palestina), che iniziò la sua attività, alimentando un flusso migratorio organizzato dalla Jewish Agency dal 1919 al 1929, con capitali e investimenti di provenienza USA. Questa iniziativa portò – come si è detto – al trasferimento di 100.000 ebrei in Palestina, che volsero la loro attività all’acquisto e alla coltivazione di quanta più terra possibile, cominciando ad escludere dal lavoro agricolo le popolazioni palestinesi autoctone fino ad allora ampiamente utilizzate come manodopera.
La crescente acquisizione di terre da parte degli ebrei immigrati potette verificarsi non sono perché essi, disponevano di capitali messi a disposizione dal movimento sionista internazionale. ma perché favoriti dai vigenti sistemi giuridici di proprietà, possesso e assegnazione del terreno. Bisogna considerare che secondo il diritto britannico applicato nei territori palestinesi dopo il conferimento del mandato gran parte della popolazione locale non possedeva il terreno, ma in base al diritto consuetudinario possedeva solo le piante che vi venivano coltivate e di conseguenza molti terreni usati
dai contadini arabi erano per la legge britannica senza proprietario. Potevano quindi essere acquistati dai coloni ebrei, da loro prestanomi o dall’Agenzia Ebraica. Questo elemento, squisitamente giuridico, unito alle regole con cui venivano effettuate le assegnazioni, il fatto poi che per decisione dei proprietari ebrei la terra doveva essere lavorata solo da contadini ebrei e non poteva essere ceduta o subaffittata a non ebrei, toglieva l’unica fonte di sostentamento e lavoro a moltissimi insediamenti arabi preesistenti, favorendo gli insediamenti ebraici e producendo l’espulsione progressiva degli abitanti autoctoni o li riduceva comunque a lavoratori salariati.
Ben presto l’insediamento sul territorio dei coloni ebrei divenne così intenso e pervasivo che nel 1925 si inaugurò a Gerusalemme l’Università ebraica, a conferma di una sempre maggiore presenza culturale; al tempo stesso si decise di costituire un’assemblea elettiva e un esecutivo con il compito di dirigere la politica dell’Ishuv, cioè della comunità ebraica della Palestina.
Ma la vera chiave di volta per predisporre la nascita di uno Stato ebraico in Palestina fu la costituzione ad Haifa nel 1920, a tutela del lavoro ebraico, di un’organizzazione sindacale, la Histadrut, (la confederazione dei sindacati ebraici). A darle vita, intellettuali e giovani lavoratori provenienti dall’Europa orientale, ashkenaziti, sfuggiti ai pogrom
antisemiti, scatenati a più riprese nei territori polacchi e occidentali del vecchio impero zarista. Costoro, erano animati da ideali socialisti, finanziati dall’Organizzazione Sionista Mondiale, guidata dal liberale Chaim Weizmann, e dall’Agenzia Ebraica per la Palestina: in altre parole la componente proletaria dell’ebraismo offriva la massa degli emigrati che portavano istanze popolari, mentre i capitali provenivano dai ceti borghesi a forte caratterizzazione ideologica nazionalista. Questo fece sì che all’interno della popolazione migrante e delle sue organizzazioni si consumasse uno scontro tra la componente di sinistra che intendeva mantenere aperto agli abitanti autoctoni della Palestina, ovvero alle popolazioni non ebraiche l’ingresso nell’organizzazione sia pure come lavoratori salariati e la componente liberale e di destra che invece riservava l’iscrizione al sindacato e le sue tutele esclusivamente agli ebrei.
A prevalere fu la componente di destra del sionismo operaio: il maggiore teorico di questa linea fu David Gordon (1856-1922), la cui dottrina venne condivisa e resa operante da due pragmatici leader dell’ala destra del sionismo operaio Berl Katznelson (1887-1944) e, soprattutto, Ben Gurion (1886-1973), primo segretario dell’Histadrut, che conquistano la maggioranza dell’organizzazione sindacale all’insegna dello slogan “Dalla classe alla nazione”.
Ciò fece sì che l’Histadrut assolvesse a funzioni che potremmo definire pre-statuali, organizzando proprie strutture produttive, cooperative agricole, costruendo e gestendo abitazioni, scuole e ospedali, servizi assistenziali, istituti di credito, aprendo le sue fila soltanto ai coloni ebrei che immigravano in Palestina, nella convinzione che la solidarietà di classe andasse accompagnata e sostenuta dalla comune appartenenza etnica e religiosa. L’attività sindacale di difesa salariale degli associati e soprattutto dei lavoratori non ebrei alle dipendenze di ebrei, in quella fase, costituì una preoccupazione del tutto secondaria per l’organizzazione sindacale come per le unità produttive che essa promuoveva sotto forma di kibbuz e che avrebbero – paradossalmente – dovuto costituire la parte datoriale.
Da allora le componenti di sinistra all’interno del sindacato continueranno ad essere presenti, ma saranno sempre minoritarie e sempre più residuali, e anche all’interno dei kibbutz cominceranno a mutare gli orientamenti gestionali ed esistenziali dei coloni, la filosofia stessa che ne guidava e organizzava la vita. La componente libertaria che in un primo momento era stata parte non secondaria di questa esperienza, ispirandone e condizionandone le caratteristiche, l’abbandonò e ritornò a una visione internazionalista della lotta di classe, spostando la propria militanza nei movimenti sindacali e politici dei singoli paesi nei quali i militanti risiedevano, abbandonando la Palestina e dando un fattivo contributo, che peraltro non si era mai interrotto, ai singoli movimenti sindacali e politici di tutto il mondo. Ritenendo che una opzione nazionale propriamente ebraica costituisse una scelta a favore di interessi e principi meramente borghesi, si schierò a favore dell’internazionalismo proletario e di un integrazionismo sociopolitico su basi esclusivamente di classe.
Naturalmente, a mano a mano che queste scelte di gestione della destra sionista e religiosa si rafforzarono nell’Histadrut, crebbero e si inasprirono i contrasti con la popolazione arabo-palestinese, fino alla grave crisi del 1936-39.

Il ruolo del “pansindacalismo ebraico” nella costruzione dello Stato

Le peculiarità del sindacalismo ebraico che si sviluppa in Palestina a partire dal 1910, come antesignano dell’inesistente Stato di Israele, sono dunque identificabili in una sorta di pansindacalismo a base etnico-confessionale e identitario, frutto dell’autorganizzazione della classe degli operai e dei contadini, basato sui principi di solidarietà, sulla cultura antagonistica, sulla capacità politica delle classi subalterne. Questa formazione sociale costituì la base fondativa di una compagine sociale, il nucleo fondante delle infrastrutture di governo che si evolvette gradualmente, fondendosi con la visione liberale e borghese della società, dominata dallo sfruttamento e dal mercato, facendo gradualmente venir meno il tentativo di costruire una società nuova nella quale lo Stato potesse essere gestito attraverso forme di democrazia partecipativa a carattere assembleare.
In questo peculiare contesto fu il sindacato a surrogare lo Stato, assumendosene i compiti, mettendo in comune e distribuendo i beni prodotti, non rifiutando totalmente gli istituti della democrazia rappresentativa e della delega, sostituiti e in parte affiancati da forme di autogoverno dei produttori che attraverso organismi partecipativi costituiti sul luogo di lavoro assumevano le decisioni e trasmettevano le scelte ad organismi costituiti da delegati revocabili delle strutture di base. Si trattò di una forma ibrida di gestione della società in transizione, in attesa che si creassero le condizioni di una
maggiore stabilità e della piena giurisdizione dell’insieme dei consociati sui territori che occupavano.
L’intensificarsi delle persecuzioni contro l’ebraismo, l’antisemitismo crescente non solo in Germania, ma in tutta Europa, la Schoah, alimentando l’esodo verso la Palestina in modo crescente, condizioneranno ulteriormente i processi politici che abbiamo appena descritto, accentuandone la caratterizzazione etnico-confessionale, consolidandone la
struttura e sfociando nella costruzione di un nuovo Stato.
Questa singolare situazione istituzionale e organizzativa, che caratterizzò la presenza ebraica in Palestina nel secondo ventennio del secolo scorso, lasciò comunque tracce profonde anche quando subì una ulteriore e definitiva trasformazione con la vittoria delle forze sioniste nel conflitto militare contro quelle arabe, condotto principalmente nella prima fase attraverso azioni terroristiche che portò alla costituzione dello Stato d’Israele nel maggio 1948.
Questa modalità di sviluppo della forma di Stato e di governo che, a conclusione del suo percorso rifondò l’identità di una nazione, lascerà le sue tracce nella struttura istituzionale del nuovo Stato che, non a caso, non si darà una Costituzione secondo la tradizione continentale europea, ma preferirà adottare una forma di governo che, assegnando un ruolo peculiare alla Corte costituzionale, affiderà ai giudici di svolgere attraverso una sorta di vigilanza collettiva e popolare delegata il controllo degli equilibri democratici della società e delle sue istituzioni, forse anche ispirandosi al ruolo dei saggi e dei profeti nella tradizione ebraica.
La gradualità del processo appena descritto, il suo sviluppo in un arco temporale abbastanza ampio, seminarono non poche perplessità ed incertezze nel giudizio che gli stessi attori di questo processo dettero di quanto avveniva di sé stessi e altrettanto fecero i contemporanei, soprattutto di coloro che parteciparono a questa esperienza, con entusiasmo e speranza.
Infatti nella prima fase di costruzione delle strutture di base del movimento sindacale e cioè di costituzione dei kibbuz, l’entusiasmo fu molto forte perché a chi vi partecipò sembrò di veder realizzati i propri ideali di uguaglianza e fratellanza, di equa distribuzione delle risorse, anche perché non furono poche le esperienze di vita collettiva: si guardi – ad esempio – alla messa in pratica della più avanzata esperienza pedagogica libertaria, rappresentata dall’educazione dei bambini all’interno del kibbuz, dove essi venivano e in parte vengono ancora oggi indotti a vivere in comune, accuditi da educatori ed educatrici, svincolati sul piano educativo dalle famiglie e dal rapporto familiare, costituendo una piccola comunità autonoma che sperimentava nelle proprie abitudini di vita il rapporto comunitario nella costruzione delle scelte e delle decisioni, formando una propria personalità solidale, accumulando esperienze di relazioni interpersonali che superavano l’individualismo e promuovevano rapporti collettivi al massimo livello di interazione affettiva emozionale ed esperienziale.
Gli aspetti positivi di vita materiale ed economica, di partecipazione collettiva alle decisioni, di sperimentazione di nuove relazioni interpersonali, costituirono per lungo tempo un antidoto formidabile ai dubbi e alle perplessità che il restringere all’ambito etnico e confessionale l’esperienza alla quale si dava vita, tuttavia diffondevano tra chi era parte della sperimentazione, ed aiutarono a superare i dubbi sull’esclusione della componente araba dall’esperienza, considerando positivamente i limiti suddetti, reinterpretati come una condizione aggiuntiva di fattibilità e realizzabilità all’esperimento. D’altra parte, sotto un profilo meramente teorico una struttura istituzionale di tipo pansindacalista era all’epoca all’ordine del giorno e vederla realizzata, sia pure in una versione particolare, (etnico religiosa) costituiva certamente una sfida accettata e vinta, che induceva a sperare che fosse possibile trovare e realizzare nuovi modelli di gestione sociale più rispettosi dei principi di libertà, di uguaglianza e di giustizia sociale.[9]
Indubbiamente agli inizi degli anni ‘20 del secolo scorso, dovette apparire a molti un fatto positivo che fosse possibile, nell’assenza di uno Stato che provvedeva all’uopo, trovare il modo di gestire l’istruzione, la sanità, la scuola, regolamentare i salari, organizzare i servizi pubblici, dar vita a momenti istituzionali e di partecipazione collettiva attraverso i quali condividere scelte e decisioni. Benché già da allora fosse sempre più chiaro a molti che la direzione dell’esperimento era passata in mano alla componente di destra del sionismo, che le strutture create rispondessero ai centri
economici di gestione dell’esperimento controllati dai detentori della ricchezza all’interno dell’ebraismo, la presa di distanza da questa esperienza avvenne molto lentamente, come succede per la fine di un amore, per il deperire di un’esperienza amata, per il trascorrere stesso del tempo di un’umana esistenza.
Il movimento dei kibbutz, nato con grande slancio, d’altra parte, si trasformò al suo interno: ai kibbutz agricoli si aggiunsero quelli operai che gestivano piccole o medie aziende ed ogni tipo di attività. L’ostilità crescente degli arabi palestinesi introdusse nel kibbutz la funzione di difesa fino ad influenzarne la stessa configurazione urbanistica. Nacquero kibbutz con la torre al centro che controllava militarmente i dintorni per prevenire gli attacchi di ogni genere contro le sue infrastrutture; all’interno del kibbutz si formarono le milizie a difesa dell’insediamento, si posero le premesse per abolire la differenza tra civili e militari, si dette vita a kibbutz esclusivamente dediti all’attività militare. A causa del contesto territoriale nel quale operavano gli insediamenti ebraici dovevano estendere l’attività di difese/offesa, a uomini e donne perennemente armati e mobilitati, costituendo un esercito di popolo in armi. Le graduali trasformazioni dall’esperimento ne mutarono la natura, al punto che lo Stato nato dalle ceneri di un esperimento con forti caratteristiche libertarie di organizzazione sociale assunse. anche a causa della situazione internazionale, quelle dello Stato imperialista e di netta
impronta capitalistica, legato agli interessi del capitale nazionale e internazionale.

La Schoah e la “migrazione necessaria”

A partire dal cosiddetto decreto Arierparagraph del 7 aprile 1933 e ancor più dopo l’emanazione delle leggi di Norimberga (“legge per la protezione del sangue e dell’onore tedeschi” e “legge sulla cittadinanza del Reich”), promulgate il 14 settembre 1935, la politica di emigrazione forzata degli ebrei tedeschi verso la Palestina subì crescenti difficoltà a causa della resistenza degli inglesi, titolari del mandato sulla Palestina, a consentire l’accesso ai perseguitati in fuga.
Questo avveniva mentre la popolazione ebrea all’interno dell’area di influenza tedesca continuava a crescere a causa della politica espansionistica di Hitler. È un dato di fatto che dal 1933 al 1938 sono emigrati circa 150.000 ebrei dai territori controllati dai tedeschi e nel 1939 l’ufficio di Eichmann, esercitando forti pressioni riuscì a far emigrare 78.000 persone grazie ai contatti fra agenti sionisti e agenti segreti tedeschi del SD. Quando avveniva sollevò tuttavia le preoccupazioni Hitler per la possibile rinascita di una nazione ebraica in Palestina, ma grazie al rifiuto britannico di accogliere altri ebrei
a causa delle tensioni con gli arabi, il programma venne interrotto. Questo avveniva mentre altre nazioni tradizionalmente ospitali verso gli ebrei come Svizzera e Svezia riducevano l’accoglienza degli ebrei in fuga dalla Polonia, dalla Romania, dall’Ungheria dove crescevano le manifestazioni antisemite, come del resto in Francia, negli Stati Uniti e in Inghilterra dove vennero inasprite le leggi sull’immigrazione. Agli ebrei del centro Europa non rimase che la fuga verso l’est passando per la Lituania e Unione Sovietica e perfino da Shanghai e dal Giappone, mentre altri per trovare ospitalità
dovettero recarsi in Spagna e Portogallo. Il flusso di migranti dai territori sotto il controllo tedesco divenne così ridotto che nel 1941 appena 13.000 ebrei riuscirono a raggiungere la Palestina, attraverso i porti rumeni del Danubio. Dei 400.000 profughi fuggiti dalla Germania e dai territori dominati dai tedeschi la metà circa si stabilì nei paesi europei e quando questi divennero soggetti all’occupazione tedesca finirono per ricadere nelle persecuzioni ad opera dei tedeschi in guerra. Intanto in Palestina i coloni avevano dato vita, all’indomani della dichiarazione Balfour, a un’Organizzazione
militare ebraica, come sviluppo dei gruppi armati già esistenti per la “difesa” (ebraico Haganah) degli Ebrei dal terrorismo arabo che si opponeva alla sottrazione delle terre. Secondo la relazione del comitato angloamericano d’inchiesta dell’aprile 1946, essa poteva contare su oltre 60.000 unità, ben armate e disciplinate e una propria radio. Le
sue squadre mobili (Palmach) erano costituite, in pace, di circa 2000 uomini ed in guerra di circa 6.000. L’azione della Haganah tese a difendere militarmente le colonie ebraiche in Palestina; a sostenere l’immigrazione. Accanto all’Haganah che costituì la base del futuro esercito di Israele operò del 1931 al 1948 l’Irgun Tzvai Leumi ( ארגון צבאי לאומי ), in ebraico “Organizzazione Militare Nazionale”, un gruppo paramilitare sionista conosciuto come Etzel e ritenuto terroristico dalla Gran Bretagna. L’organizzazione fondata da Avraham Tehomi sosteneva che «ogni ebreo aveva il diritto di entrare in
Palestina, che solo un’attiva rappresaglia avrebbe intimorito gli arabi e che solo una forza armata ebraica avrebbe assicurato lo Stato d’Israele», il gruppo attuò attacchi terroristici e ritorsioni come parte centrale dei suoi sforzi iniziali.
L’Irgun si differenziò dall’Haganah, dissociandosi dall’ideologia socialista e dalla strategia prevalente dell’Havlagah, e fece ricorso all’uso del terrorismo in difesa degli Ebrei nella Palestina e il progetto di formazione di uno Stato ebraico. I suoi obiettivi prioritari erano offrire un’alternativa non-socialista e spiccatamente nazionalista alla guida delle organizzazioni sioniste; eliminare o ridurre il pericolo di attacchi arabi contro obiettivi ebraici, assicurando una dura rappresaglia in risposta ad ogni attacco; metter fine al governo mandatario britannico.
Ben presto il terrorismo ebraico ingaggiò una lotta senza esclusione di colpi contro gli occupanti inglesi che conobbe un’interruzione con lo scoppio del conflitto mondiale per riprendere nel febbraio del 1944, sotto la nuova leadership di Menachem Begin, futuro primo ministro di Israele), l’organizzazione riprese le ostilità contro le autorità britanniche mettendo a segno l’attentato al King David Hotel di Gerusalemme, (91 morti, tra i quali 17 civili ebrei) e l’assalto alla prigione britannica ad Acri (16 aprile 1947). A seguito di tali attacchi, numerosi attivisti dell’Irgun furono catturati, imprigionati e, alcuni, condannati a morte, furono impiccati.[10]                                                            Ma il clima era ormai cambiato; con l’arrivo delle truppe alleate nei territori occupati dalla Germania il mondo venne a conoscenza dell’orribile massacro attuato nei campi di sterminio che avrebbero dovuto consentire al Terzo Reich di dare il via alla soluzione finale al problema ebraico. Quando le foto e i filmati che ritraevano i superstiti della Schoah vennero rese pubbliche e fecero inorridire la coscienza in tutti coloro che erano stati quiescenti verso la campagna d’odio scatenata contro gli ebrei, accadde che molti di coloro che avevano taciuto o semplicemente si erano voltati dall’altra parte pensando che non toccasse loro un destino così terribile, decisero di lavarsi la coscienza lasciando che gli ebrei che lo desideravano e avevano i mezzi per farlo potessero affluire in Palestina.
Così la cattiva coscienza dell’Europa e del mondo consenti che un popolo costruisse la propria identità a spese di un altro, espropriando la terra nella quale era nato e viveva da secoli, rivendicata come propria ed esclusiva. Così, dopo la decisione britannica (febbraio 1947) di deferire il problema palestinese alle Nazioni Unite e l’insuccesso della soluzione prospettata della creazione di un unico Stato aconfessionale e pluralista per come era previsto nel Libro Bianco sulla Palestina del 1939 predisposto dallo Stato titolare del Mandato, la vittoria delle forze sioniste nel conflitto militare con quelle arabe portò alla costituzione dello Stato d’Israele nel maggio 1948.

La trasformazione (necessitata): Israele guardiano del mondo arabo islamico per conto dell’occidente

Ma vediamo i fatti: con la fine della II guerra mondiale entra in una fase di definitiva liquidazione il dominio coloniale; in particolare cessa il protettorato svolto dalla Gran Bretagna e dalla Francia sui paesi abitati da popolazioni arabe e su quelli del Medio Oriente, anche se il fenomeno è più generale e investe anche l’Asia, mentre per l’Africa
bisognerà attendere gli anni ’60. Tuttavia, il processo è lento e si concluderà faticosamente.
Le azioni terroristiche messe in atto dalle organizzazioni terroristiche sioniste, la situazione di guerra civile e i crescenti scontri tra arabi e migranti ebraici inducono l’Inghilterra ad annunciare la rinuncia al mandato e così il 15 maggio 1947 venne costituito dall’ONU, l’UNSCOP (United Nations Special Committee on Palestine), comprendente 11 nazioni con il compito di trovare una soluzione della questione. Il gruppo conclude i suoi lavori, constatando che arabi e ebrei rivendicano gli stessi territori e, ritenendo che non è possibile dar ragione all’uno o all’altro dei contendenti viene approvata la Risoluzione 181, che raccomandava la spartizione del territorio conteso tra uno Stato palestinese, uno ebraico e una terza zona, che comprendeva Gerusalemme, amministrata direttamente dall’ONU. Il 29 novembre 1947 venne votata la risoluzione; a favore votarono 33 nazioni, 13 contro e 10 astenuti. Venne altresì deciso, per evitare possibili rappresaglie da parte della popolazione araba, di radunare tutte le zone dove i coloni ebraici erano presenti in numero significativo e costituire così il futuro territorio ebraico, a cui venivano aggiunte diverse zone disabitate, per la
maggior parte desertiche, in previsione di una massiccia immigrazione dall’Europa, una volta abolite le limitazioni imposte dal governo britannico nel 1939, e ciò riguardava il 56% del territorio soggetto al mandato.
Al momento della spartizione del territorio il rapporto fa la popolazione araba e quella ebraica della Palestina era di uno a tre a favore degli arabi. Ma poiché la popolazione ebraica possedeva una minima parte del territorio – circa il 7%, contro il 50% della popolazione araba, mentre il restante era in mano al governo britannico della Palestina – le organizzazioni combattenti israeliane cercarono di conquistare il maggior territorio possibile per il proprio Stato.
Costringendo alla fuga con la violenza e il terrore, distruggendo molti villaggi arabi, espulsero i residenti, mentre le forze arabe che, miravano a conquistare la totalità del territorio assegnato all’etnia ebraica per – a loro volta – espellerla e bloccare ogni futura immigrazione, persero la partita. Si sviluppò così la violenza e l’odio reciproco, ai danni dell’indifesa popolazione rurale e urbana palestinese di entrambe le etnie, tracciando un fossato incolmabile che perdura anche oggi.
La nascita ufficiale dei due Stati in Palestina era stata fissata dall’ONU nel 1948, ma essa non ebbe mai luogo.
Infatti, non appena i britannici ebbero lasciato il territorio la Lega Araba, nel frattempo costituitasi, che non aveva accettato la risoluzione dell’ONU, scatenò una guerra “di liberazione” contro Israele. Gli israeliani, violando l’embargo imposto alle parti, acquistarono le armi dalla Cecoslovacchia e furono così in grado di volgere a loro favore il conflitto, rinforzati nel frattempo da molti immigrati sfuggiti allo sterminio e che avevano combattuto durante la Seconda guerra mondiale, maturando così una notevole esperienza militare. Il risultato fu che, dopo la sconfitta militare degli eserciti
arabi e il cessate il fuoco con i singoli Stati, firmati nel 1949 l’unico Stato, quello israeliano, era effettivamente costituito in Palestina, in grado di difendere i propri confini provvisoriamente costituiti dalla cosiddetta linea verde che disegnava le posizioni raggiunte sul campo di battaglia.
La popolazione araba palestinese fu duramente colpita dai massacri e le distruzioni operate dalle milizie sioniste prima e dall’esercito israeliano poi, tanto che si assistette ad un esodo della popolazione palestinese da molti villaggi verso gli Stati limitrofi dove si crearono cambi di profughi che dettero vita alla diaspora palestinese, posto che alla fine della guerra, lo Stato israeliano, impedì agli sfollati palestinesi di ritornare, mentre veniva incentivata l’immigrazione ebraica, espropriando le loro terre e dichiarandole di proprietà dello Stato.
Ebbe luogo così quella che i palestinesi chiamano la nakba (“catastrofe” in arabo): solo 150.000 palestinesi rimasero nel territorio controllato da Israele, mentre circa 750,000 fuggirono e trovarono rifugio in Cisgiordania (280.000), nella Striscia di Gaza (200.000), in Giordania (70.000), in Libano (97.000), in Siria (75.000) e in Iraq (4.000).
Viene così resa definitiva la diaspora palestinese che li porterà ad essere ospiti indesiderati e mal sopportati negli Stati arabi, a costituire la gran parte dei lavoratori immigrati nei paesi del Golfo e utilizzati per il loro più alto livello di istruzione, ad essere parte del proletariato attivo in molti paesi che in quegli anni si avviavano a un futuro sviluppo con il crescere delle estrazioni di petrolio e di gas e la nascita dell’attività edilizia.
In questo lasso di tempo – dopo il ritiro degli Inglesi – il posto di potenza dominante in queste aree venne assunto dagli Stati Uniti, che subentrando alle potenze ex coloniali, assunsero il controllo dei paesi estrattori e produttori di petrolio. Nel nuovo equilibrio di potere Israele si offri e diviene sub agente per l’area degli Stati Uniti e in questo ruolo
venne equipaggiato, armato e sostenuto, finanziariamente e politicamente dagli ambienti ebraici statunitensi dove molti ebrei sfuggiti alle persecuzioni e all’olocausto avevano trovato rifugio. L’avvicinamento tra le potenze coloniali occidentali fu graduale e progressivo, mentre parallelamente la Russia, per ragioni geopolitiche e impegnata nella “guerra fredda” prendeva le distanze politicamente da Israele e diventava il principale fornitore di armamenti dei paesi arabi.
Il 26 luglio 1956, Gamāl ʿAbd al-Nāṣer nazionalizza la Compagnia del Canale di Suez di proprietà anglofrancese: Francia e Regno Unito intervengono militarmente a tutela dei loro interessi economici e strategici. Israele approfitta della situazione ed entra in guerra al fianco delle due potenze occidentali, dichiarando di sentirsi minacciato dell’alleanza militare interaraba, dell’Egitto con la Siria e la Giordania e dal divieto alle sue navi di attraversare il canale di Suez.
Francia e Regno Unito devono rinunciare al conflitto per la minaccia di un intervento sia sovietico che statunitense, ma l’esercito israeliano, guidato da Moshe Dayan, riuscì a conquistare il Sinai che restituirà all’Egitto solo dopo l’intermediazione dell’ONU. Francia e Inghilterra interrompono il loro intervento e viene ripristinata la circolazione
marittima sul canale, ma si tratta di una tregua armata, perché la frontiera fra i due paesi è vigilata da una forza di interposizione dell’ONU che verrà ritirata il 21 maggio 67, all’approssimarsi di una nuova guerra, che prende il nome di guerra dei sei giorni
Il 5 giugno 1967, precedute da un attacco preventivo delle forze aeree israeliane che distruggono al suolo della quasi totalità dell’aviazione di Egitto, Siria e Giordania che sono di conseguenza prive di copertura aerea, in pochi giorni, le forze corazzate e di terra dei paesi arabi vengono sconfitte e Israele occupa la penisola del Sinai e la Striscia di Gaza, che fino allora era rimasta sotto l’amministrazione militare egiziana, ingloba la Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est, sottraendola all’amministrazione giordana e si annette le alture del Golan, sottraendole alla Siria. Mentre il Sinai viene
restituito all’Egitto in seguito agli accordi di Camp David rimangono sotto la giurisdizione israeliana i territori siropalestinesi occupati, rispetto ai quali Israele inizia una politica di colonizzazione, presidiando in modo sempre più massiccio il territorio, nella prospettiva di annetterlo e di cancellare così ogni possibilità di creazione dello Stato palestinese secondo i deliberati dell’ONU.
A svolgere il “lavoro sporco“ sono coloni armati, molti dei quali vicini alle posizioni della destra nazionalista israeliana, fra cui il movimento del Gush Emunim (La gente comune), che provvedono a scacciare le popolazioni arabe, sottraendo loro la terra e creando insediamenti che sono insieme civili e militari, posto che i coloni provvedono
all’autodifesa e accrescono la loro presenza. A fronte di questa situazione le Nazioni Unite sono costrette ad intervenire e viene approvata la soluzione 242 del 22.11.1967 che, prospettando il ritiro di Israele dai territori occupati, offriva in cambio il riconoscimento dello Stato ebraico da parte degli Stati arabi confinanti, iniziando quella politica di “pace in cambio di territori” che ha caratterizzato la questione palestinese.
A fronte della scelta di Israele di non applicare la risoluzione 242 nasceva OLP Organizzazione per la Liberazione della Palestina, organizzazione laica, che si proponeva attraverso la guerriglia contro Israele di difendere e promuovere la
causa palestinese, anche ricorrendo in una prima fase ad azioni terroristiche per poi gradualmente trasformarsi in movimento prevalentemente politico.
Intanto le attività belliche non cessano, prova ne sia che lo stato di guerra a “bassa intensità”, continua con azioni militari in Libano e poi nel 1969 contro l’Egitto, nel 1970 verso la Giordania. In quel periodo l’organizzazione di guerriglia più attiva per parte palestinese fu il Fronte Nazionale per la Liberazione Palestinese (FLP), che in quei paesi aveva insediato le proprie basi operative.
Nel 1973 la guerra esplode su tutto il fronte lungo i confini di Israele (quarta guerra), conosciuta come guerra del Kippur; sono gli eserciti dell’Egitto e della Siria ad attaccare a sorpresa Israele che, pur perdendo il controllo del Canale di Suez, riesce ad organizzare una controffensiva delle sue unità corazzate che attraversano il canale di Suez e assediano il III Corpo d’armata egiziano, armato con moderne armi fornite dall’URSS. Devono intervenire i “caschi blu” dell’ONU per separare i belligeranti: si apre una nuova fase politica, l’Egitto e la Giordania riconoscono lo Stato di Israele e nel 1974 l’OLP viene ammessa come “osservatore” all’Assemblea dell’ONU come rappresentante del popolo palestinese.
Nel 1978 Israele invade il sud del Libano e nella zona cuscinetto fra i due paesi si insedia una missione dell’ONU con compiti d’interposizione, l’UNIFIL, ancora oggi presente sul posto. L’anno successivo gli accordi di Camp David portano alla firma della pace con l’Egitto che ottiene – come si è detto – la restituzione del Sinai e riconosce lo Stato di Israele. Come reazione la Lega araba sospende l’Egitto dalla partecipazione all’organizzazione. Forte di questo accordo, nel 1980, Israele annette unilateralmente Gerusalemme Est e la città unificata viene proclamata capitale unica dello Stato
ebraico; l’anno successivo annette le alture di Golan. La risposta dell’estremismo islamico dei Fratelli Musulmani nel frattempo cresciuti in Egitto è l’omicidio Anwar al-Sādāt.
Le “attenzioni” di Israele si rivolgono verso il Libano; nel 1982 viene varata l’operazione “Pace in Galilea”, che prevedeva la creazione di una zona priva di insediamenti palestinesi attorno ai confini settentrionali israeliani, con l’obiettivo della distruzione definitiva dell’OLP. Israele invade il Libano e vengono utilizzate le truppe cristiane falangiste, alleate di Israele, che entrarono nei campi palestinesi di Sabra e Shatila, uccidendo circa 3.500 persone, con l’assenso tacito dell’esercito israeliano che assedia i campi profughi. La presenza palestinese è scomoda e sgradita a tutti gli Stati perché destabilizza il governo del territorio e crea di fatto un’area di potere antagonista, potenzialmente rivoluzionaria, anche sotto il profilo dei rapporti di classe, considerato che l’OLP è un movimento di orientamento socialista.
Il massacro di palestinesi è grande e provoca le proteste dell’opinione pubblica internazionale e interna a Israele: dopo un’inchiesta della Corte Suprema d’Israele Ariel Sharon, ministro della guerra, il capo di Stato maggiore israeliano e il responsabile militare israeliano delle operazioni in Libano si dimettono. Inizia tuttavia un’opera sistematica di allontanamento degli arabi dalle loro terre in Cisgiordania, Israele acquisisce il pieno controllo della gestione delle risorse idriche della regione, l’esercito israeliano inizia un’operazione di sistematiche bonifiche del territorio, distruggere le case degli arabi, ritenuti ostili, anche al fine di facilitare la colonizzazione dei territori e l’acquisizione delle loro terre da parte dei coloni appartenenti ai movimenti religiosi integralisti. L’obiettivo è strategico: rendere impossibile la nascita dei due Stati. Nell’intento di far fronte alla crescita della presenza dei coloni israeliani in Cisgiordania, calcolabile nell’ordine dei 70.000, a fronte di 2.000 coloni a Gaza l’OLP, muta la propria strategia e tenta di combattere l’occupazione israeliana dei Territori Occupati per mezzo degli scioperi e della disobbedienza civile, oltre a ricorrere a strumenti di lotta quali il lancio di pietre contro l’esercito occupante, suscitando grande impressione nel mondo occidentale: viene indetta la prima Intifada (“brivido, scossa, lotta”, in arabo).
Proseguendo nel ricorrere a forme di lotta sempre meno radicali il Consiglio Nazionale Palestinese, riunitosi ad Algeri proclama l’indipendenza virtuale dello Stato di Palestina, accettando e citando le risoluzioni 181 e 242 dell’ONU, e questo dopo che re Hussein di Giordania ebbene rinunciato ad ogni pretesa sulla Cisgiordania; così territorio del nuovo
Stato erano appunto la Cisgiordania e Gaza. Entro la metà del 1989 oltre 90 Stati riconoscono la Palestina come Stato.
I gruppi estremistici di matrice islamica tradizionalista e religiosa che non si riconoscevano nell’OLP si organizzarono a loro volta, individuando come punto di riferimento il movimento Hamas, legato al movimento dei Fratelli Musulmani, nato a Gaza nel 1987, adottando come metodo di lotta il terrorismo.
Nel 1992, i coloni ebrei che nei territori occupati erano 97.000 in Cisgiordania, 3.600 a Gaza, 14.000 sulle alture del Golan e 129.000 a Gerusalemme Est, rendevano già allora sempre meno possibile la prospettiva di costituire un insediamento esclusivo dei palestinesi su quei territori. Quanto avveniva lanciava un messaggio estremamente chiaro alle popolazioni palestinesi sul loro futuro e apriva la strada ad una crescita di Hamas che presentava sé stessa come la sola organizzazione capace di rivendicare una patria per i palestinesi, continuando a negare il diritto per Stato israeliano di
esistere.
Il crollo dell’URSS che aveva storicamente sostenuto la causa palestinese, conservando al tempo stesso legami di vicinanza con lo Stato ebraico a causa delle origini russe di una parte non rilevante della sua popolazione, inducevano l’OLP ai negoziati di pace che sfociavano negli accordi di Oslo, firmati a Washington il 13 settembre nel 1993 da Yassir Arafat e Isaac Rabin: Israele si sarebbe ritirato dalla striscia di Gaza e dall’area di Gerico in Cisgiordania e le avrebbe lasciate amministrare da un’autorità di auto-governo palestinese per cinque anni, l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP).
Nel 1995 la Cisgiordania venne suddivisa in zona A, comprendente il 18% del territorio della Cisgiordania, incluse la maggior parte delle città e della popolazione palestinese, sotto il controllo palestinese; la zona B, comprendente il 22% del territorio, posta sotto il controllo civile palestinese e militare israeliano; e la zona C, l’unica territorialmente contigua, comprendente il 60% del territorio e tutti gli insediamenti israeliani, sotto il controllo israeliano.
Il progetto di progressiva di espansione nello Stato ebraico rischiava di interrompersi ed è perciò che un’esponente dell’estrema destra religiosa israeliana, contraria al processo di pace, il 4 novembre 1995, uccide Rabin, primo ministro israeliano, uno degli artefici dell’accordo.
Nelle elezioni dell’anno successivo vince le elezioni il Likud presieduto da Netanyahu e da allora inizia l’era della crescita parallela degli insediamenti di estremisti ebraici in Cisgiordania alla quale fa da pendant la crescita di Hamas a Gaza, che culmina con la sua vittoria elettorale del 2006, quando le possibilità e le speranze di realizzazione di uno Stato palestinese sono ormai evaporate. Netanyahu riprende a favorire gli insediamenti di coloni in Cisgiordania.
A rinforzare la crescita di Hamas contribuiscono negli anni ’90 numerosi episodi di violenza, come il massacro di Hebron del 1994 quando un ebreo israeliano uccide 29 palestinesi musulmani in una moschea, i ripetuti attentati suicidi palestinesi, rivendicati soprattutto da Hamas: i più sanguinosi a Tel Aviv nel 1994 (22 morti), nei pressi di Natanya nel 1995 (21 morti), e ad Ashkelon, Gerusalemme, e Tel Aviv tra 25 febbraio e 4 marzo 1996 (complessivamente 59 morti).
La vittoria alle elezioni nel 1999 del laburista Ehud Barak segna una battuta d’arresto nell’attuazione della strategia di Netanyahu contro la nascita di due Stati per i due popoli. Barak, nel settembre del 1999, stipula un nuovo accordo per stabilire confini definitivi di Israele e decidere lo status di Gerusalemme entro un anno. Nel 2000 offre ad Arafat uno Stato palestinese sul 90% della Cisgiordania e il ritorno dei rifugiati palestinesi nello Stato palestinese, ma non in Israele: le sue proposte non vengono accettate da Arafat e le trattative fallirono. Malgrado ciò nel settembre 2005, il
premier israeliano Ariel Sharon porta a compimento un piano, annunciato nel 2003, di ritiro unilaterale dei soldati e dei coloni israeliani dalla Striscia di Gaza, consegnata all’ANP, ma Israele conserva il controllo dei confini e dello spazio aereo, facendo di Gaza un’enclave che dipende dallo Stato ebraico per forniture di energia elettrica, carburanti, acqua, cibo.

La natura istituzionale peculiare dello Stato d’Israele

Per comprendere le dinamiche politiche interne di Israele è di estrema importanza tenere conto dei riflessi dell’immigrazione sulla crescita demografica. Al 31 marzo 2019 (data dell’ultimo censimento) la popolazione israeliana era composta di 9 milioni di persone; dal 1948 è cresciuta del 1700%. Ciò è dovuto non solo al tasso di fertilità che è nella media mondiale, ma ad una costante e regolata immigrazione che è passata dalle 28.600 del 2021 ai 70 mila del 2022 per l’afflusso dall’Ucraina, a causa della guerra e da altri paesi dell’est.[11]
Tuttavia nel ventennio precedente la maggior parte degli olim (così si chiamano i nuovi immigrati) proveniva dai paesi del Nord Africa, dall’Iraq, dall’Iran, dai paesi dell’America Latina; questa grande mutazione della composizione sociale di classe della popolazione israeliana ha influito non poco sugli equilibri politici, facendo crescere il peso dei partiti religiosi che devono il loro aumento di consensi anche alle necessità di insediamento sul territorio dei nuovi venuti, disponibili ad insediarsi su terre strappate ai palestinesi.
Ciò ha fatto sì che trovasse sempre maggior consenso la politica di Netanyahu, iniziata organicamente nel 2009 di fare di Israele un paese “normale”, modificandone l’assetto istituzionale e gestionale, riducendo le autonomie, verticalizzando i processi decisionali, con il risultato di far perdere al paese quella caratteristica di continua sperimentazione sociale che lo ha contraddistinto a causa delle sue origini atipiche come forma di Stato e di governo che, come abbiamo visto, si forma su un progetto istituzionale di forte impronta pansindacalista.
Ciò ha fatto sì che il paese non si dotasse, come quelli dell’Europa continentale, di una struttura centralistica caratterizzata dalla presenza di garanzia di una Corte costituzionale, ma che procedesse alla costruzione del paese dotandosi progressivamente di una sedimentazione di leggi fondamentali, frutto dell’assoluta prevalenza del Parlamento la Knesset, che assunse il ruolo anomalo di un’assemblea costituente permanente e al tempo stesso quello di un normale Parlamento che perciò non ha bisogno di stabilire regole contenute in un testo scritto unitario, una volta per tutte, ma rinvia questo compito al futuro, accontentandosi di procedere per gradi, di fare nel tempo una “costituzione a tappe” che possa essere plasmata per adattarsi ad una società dinamica, un continuo mutamento. Come il Regno Unito, Israele ha scelto di avere regole costituzionali che si trovano sparpagliate in tante “leggi fondamentali” (Basic Law), che si occupano di aspetti diversi. In tal modo Israele vuole mantenere aperta la dialettica tra le sue diverse componenti laiche e religiose, realizzando una sintesi funzionale tra gli apporti culturali delle differenti origini culturali della sua popolazione sia pure nel quadro della comune scelta di appartenere a Israele.
Ne consegue che Israele ha adottato oltre 10 leggi fondamentali, anche se questo  orpus non è racchiuso in un unico testo; dispone di una “Costituzione in progress” che dipende dall’evoluzione degli equilibri politici interni e non ha valore prescrittivo. La Knesset, e i partiti in essa rappresentati, hanno la sovranità politica del Paese ma il patto sociale prevede che le regole fissate nelle leggi fondamentali possono sempre essere rimesse in discussione dalla politica parlamentare. e procedure aggravate di modifica di norme fondamentali, anche se previste, sono superabili facilmente dalla Knesset. La democrazia israeliana è in questo simile a quella inglese, dove la supremazia parlamentare resta un dogma indiscutibile, che il potere giudiziario rispetta, pur esercitando la sua funzione di vigilanza.
Oggi alcune leggi fondamentali, sia sulla forma di governo come quella sull’elezione diretta del premier, per rafforzare il governo, limitando il potere dei piccoli partiti, si sono dimostrate fallimentari. Nessuna norma garantisce al premier eletto una sicura maggioranza alla Knesset che resta arbitra delle coalizioni di governo e sovrana nei confronti anche del premier scelto dal popolo che l’elezione diretta avrebbe dovuto rafforzare.
Analizzando sia pur sommariamente in questa sede il sistema istituzionale e di governo di Israele rileviamo che relativamente al rapporto tra Stato e cittadini due leggi fondamentali hanno introdotto il Bill of Rights: un catalogo di diritti individuali verso lo Stato. La conseguenza notevole consiste nell’aver reso possibile un sistema giudiziario di controllo della costituzionalità delle leggi. La prima sentenza della Corte suprema che lo ha reso effettivo nel 1996 ha fatto nascere una democrazia liberale in senso costituzionale, con il risultato che la Knesset è stata sottoposta al controllodi giudici indipendenti, garanti delle libertà individuali e delle minoranze, anche non ebraiche, limitando gli arbitri del potere.
Credendosi eterno Netanyahu ha voluto forzare la mano e operare una torsione costituzionale, proponendo una legge fondamentale che consente all’esecutivo di controllare il potere giudiziario, limitando i poteri della Corte Suprema.
Ciò equivarrebbe a ripristinare la pienezza del principio di supremazia parlamentare della Knesset di fronte a giudici non elettivi, privi, dunque, di legittimazione democratica. E tuttavia una volta stabilito il primato dei diritti nei confronti del potere, la loro difesa è compito del processo democratico e, in seconda battuta, del potere giudiziario della Corte costituzionale. In Israele la legge fondamentale del 2018, sullo “stato nazionale del popolo ebraico”, voluta da Netanyahu per “assicurare che Israele” rimanesse “uno stato ebraico per le generazioni future”, ha dilatato la frattura tra religiosi e laici, e acuito la questione sulla protezione delle minoranze che rimane aperta. Su questo scontro si gioca la possibilità futura di trasformare, sia pur lentamente, Israele in uno Stato non confessionale, aperto e pluralista, come prevedevano le aspettative di alcuni alle sue origini. Un’evoluzione in questo senso potrebbe essere facilitata dall’assenza di un compromesso sui valori fondanti del paese, codificato in una Costituzione scritta, che costituirebbe un catalogo chiuso, a fronte della presenza di leggi comunque di rango costituzionale, ma agevolmente modificabili ed integrabili nel tempo, frutto di una costante dialettica tra le diverse componenti della società: si tratta in realtà il disegnare uno spazio istituzionale per le minoranze, nel quadro di una società aperta e consociativa che fa della mediazione un elemento di forza e stabilità.

La degenerazione capitalista dello Stato ebraico

Lo Stato ebraico, proiettato verso un futuro di paese tecnologicamente avanzato, inserito organicamente nello sviluppo tecnologico e produttivo come parte dell’occidente capitalistico non conserva più nulla o ben poco di quella sperimentazione istituzionale che, se opportunamente gestita attraverso istituti di partecipazione aconfessionale e laica, a prescinde dall’appartenenza etnica, avrebbe potuto e dovuto svolgere una funzione di pace e di civiltà, integrando sul territorio comune i due popoli.
La storia che abbiamo cercato di ricostruire induce molti di noi comunisti anarchici – e le ragioni di ciò ben si comprende alla luce della storia – all’attenzione verso il generoso tentativo del proletariato d’Europa di costruire una società egualitaria, ma per onestà intellettuale non possiamo non rilevare le degenerazioni di quest’idea, contaminata
attraverso i finanziamenti dell’ebraismo internazionale per convertire l’esperimento nella costruzione di uno Stato capitalistico divenuto il guardiano di quell’area del pianeta per conto di ben individuati interessi economici rispetto a un intero scacchiere geopolitico del mondo, oggi gestito il nome per conto di una visione imperialistica nei rapporti fra i
popoli, della quale lo Stato d’Israele è oggettivamente l’agente.
Quanto avviene è ancor più grave se si considera che a farne le spese è il popolo autoctono di quella terra che, per far spazio al progetto viene scacciato, emarginato, represso e si vede privato nella sua libertà e del diritto all’autogoverno, viene ricacciato in un baratro d’odio e di risentimento, che chiede soltanto vendetta a causa delle violenze quotidiane, delle morti ingiuste, creando una cappa di diffidenza, ponendo le condizioni per un rifiuto radicale di confronto, che impedisce la rivisitazione critica dei propri valori e quindi, attraverso il confronto e il dialogo, l’emancipazione.
Non si può avere simpatia e dare solidarietà quando due estremismi fondamentalisti e fanatici si confrontano e si scontrano rivendicando ognuno l’egemonia, per quanto efferati possono essere i crimini commessi dall’una o dall’altra parte. A questi comportamenti la ragione oppone l’umanità, la solidarietà e la pietà, perché leniscano le sofferenze reciprocamente arrecate. È perciò che la nostra non è equidistanza, né neutralità, ma il richiamo al ritorno della razionalità, della ragione, nella convinzione che solo l’analisi dell’origine e la conseguenza dei fenomeni possono suggerire le modalità con le quali ricomporre il conflitto.

Seconda sezione

Il popolo di Palestina
Come è noto, la Prima guerra mondiale, segno la fine dei grandi imperi multietnici e vide la definitiva affermazione degli Stati nazionali. A scomparire furono l’impero austro-ungarico e quello ottomano. Benché questi Stati fossero definiti i malati d’Europa, in realtà era quello ottomano ad essere particolarmente debole e caratterizzato da uno
sviluppo economico in forte ritardo rispetto a quello dei paesi del continente europeo: il collasso divenne evidente a fronte delle sconfitte dell’esercito turco, subite ad opera dei greci, che arrivarono ad occupare parte dell’Anatolia e che furono respinti solo grazie all’iniziativa di Mustafà Kemal Pascià. divenuto successivamente Ataturk. Le sue capacità militari e politiche non furono sufficienti a mantenere sotto il controllo turco la gran parte del territorio dell’immenso impero che pertanto divenne preda delle potenze vincitrici della guerra che provvidero a spartirsene le spoglie divenendo potenze
mandatarie.
Alla Francia venne assegnato quello sul Libano e la Siria, mentre la Gran Bretagna optò per la Giordania, la Palestina e Iraq. La Palestina venne opzionata dagli inglesi perché il suo territorio era contiguo all’Egitto, paese sul quale l’Inghilterra esercitava il protettorato e che cercava liberarsi della sua tutela, per divenire totalmente indipendente. Da tempo era iniziata all’interno del governo inglese una riflessione sulla possibile fine del protettorato e perciò la Gran Bretagna aveva la necessità di acquisire una nuova base di operazioni per esercitare il proprio controllo sul Canale di Suez, di grande valore strategico per il controllo del commercio e dei mari, possedendo la maggioranza delle azioni della compagnia del Canale che ne era proprietaria. Il territorio palestinese, per la sua contiguità al canale, avrebbe costituito una valida base nella quale dislocare le proprie forze per presidiare l’intera area.
Già nel 1916 il governo francese e quello britannico stipularono l’accordo di Sykes-Picot[12] per dividersi le sfere

[12] Intesa segreta (1916) fra l’Inghilterra, rappresentata da M. Sykes (1879-1918), e la Francia, rappresentata da F. Georges-Picot (1870-1951), con l’assenso della Russia zarista, per decidere le rispettive sfere d’influenza e di controllo in Medio Oriente, dopo il crollo ritenuto imminente dell’impero ottomano.

di influenza in Medio Oriente. In effetti la spartizione avvenne nel 1920, in occasione della conferenza di Sanremo e con la stipula del trattato di Sévres; in quelle sedi vennero decisi i mandati e la Palestina ricadde sotto il controllo dell’Impero britannico che aveva a suo tempo già espresso il proprio interesse al riguardo. La Gran Bretagna considerava irrinunciabile il controllo del canale di Suez; il mandato di Palestina faceva bene il gioco degli interessi britannici, poiché questo coincideva con le aspirazioni del movimento sionista a trasferirsi in Palestina e pertanto venne redatta una manifestazione di interesse sotto forma di lettera.
Questa presa di posizione venne resa pubblica il 2 di novembre del 1917 Arthur James Balfour, segretario agli Esteri del governo di Sua Maestà del Regno Unito. Il documento ufficiale, a nome dell’esecutivo inglese, venne poi consegnato a Lord Lionel Walter Rothschild, secondo barone del casato e, soprattutto, maggiore esponente della
leadership della comunità ebraica inglese, affinché a sua volta lo trasmettesse alla Federazione sionista di Gran Bretagna e Irlanda:
«Egregio Lord Rothschild, è con grande piacere consegnarle, a nome del governo di Sua Maestà, la seguente dichiarazione di simpatia verso le aspirazioni del sionismo ebraico, che è stata presentata, e quindi approvata, dal governo». «Il governo di Sua Maestà guarda con favore allo stabilirsi in Palestina di un focolare nazionale per il popolo ebraico, e si adopererà attivamente per facilitare il raggiungimento di questo scopo».
In altri termini gli inglesi considerando precaria la propria presenza in Egitto, ritennero opportuno insediarsi in Palestina e, per rendere più agevole il controllo del territorio, si preoccupavano degli alleati, preparando un ambiente a loro favorevole; in cambio il movimento nazionalista ebraico otteneva un riconoscimento politico essenziale per la
realizzazione del suo progetto, consolidando le prime emigrazioni già avvenute nella Palestina ottomana.
Questo territorio faceva parte dell’impero ottomano fin dal 1516 ed è sempre stata abitata da uno crogiolo di popolazioni, appartenenti alle tre fedi del libro, ebrei, cristiani e musulmani. Dopo l’occupazione ottomana la regione era stata divisa in più unità amministrative e una parte del suo territorio storico era stata annessa all’Eyalet di Damasco fino al 1660, e poi a quello di Sidone, mentre il resto faceva parte del Sangiaccato di Gerusalemme, che, in quanto sede dei Luoghi Santi, divenne un mutasarriflik indipendente il cui mitasarrif era responsabile direttamente nei confronti del
governo centrale di Costantinopoli, dei suoi ministeri e dipartimenti di Stato.
Questa situazione di fatto spinge i sostenitori della legittimità del reinsediamento ebraico in Palestina a sostenere che all’epoca non esisteva su quei territori un popolo, in grado di autodeterminarsi con istituzioni proprie cosciente di sé, unito da vincoli culturali e politici e che perciò gli ebrei avevano tutto il diritto a reinsediarvisi.
Certamente la Palestina era all’epoca una terra senza Stato dove la coesione tra le diverse componenti della popolazione era garantita dall’esistenza della capitolazioni – concessioni unilaterali che il Sultano accordava a una potenza straniera, ottenendone benefici di carattere economico e commerciale. L’esistenza di questi contratti giuridici veri e propri che riconoscevano diritti e privilegi in favore dei sudditi degli Stati contraenti presenti a diverso titolo sul territorio ottomano, erano garantiti dal Sultano. Su Gerusalemme in quanto città destinataria di pellegrinaggi insistevano le capitolazioni con la Francia per la protezione dei cattolici, l’Inghilterra per quella dei protestanti e della Russia quale protettrice dei pellegrini ortodossi.
Per ciò che riguarda la gran parte della popolazione autoctona “…quasi l’80% degli abitanti viveva in zone rurali, dedicandosi all’agricoltura e risiedendo, perlopiù, in piccoli villaggi, di preferenza raccolti nelle ampie zone collinari dell’entroterra. Sistemarsi nella piana costiera o nei bassopiani orientali avrebbe invece messo i contadini alla mercé dei beduini predatori. Peraltro, il tasso di mortalità era elevato, a causa soprattutto delle precarie condizioni igieniche e abitative. Già dall’inizio dell’Ottocento l’intera area era stata interessata da flussi migratori di considerevole rilevanza, motivati dall’obiettivo di farne la sede nella quale realizzare progetti variamente ispirati a ragioni religiose o politiche, molto spesso le une coniugate alle altre.” (Claudio Vercelli, Storie e controstorie).
Ora, è pur vero che ciò che fa di una comunità una nazione, è la consapevolezza dell’esistenza di una reciprocità di legami, ma ciò non si verifica solo a fronte dell’esistenza dell’elemento istituzionale e quindi con l’esercizio di una sovranità unica, esercitata da uno Stato, a nome e per conto di ogni individuo che ne fa parte. C’è da considerare l’elemento unificante della lingua, dei costumi e delle tradizioni, l’appartenenza religiosa, che nel caso specifico ha nel tempo subito dei mutamenti condizionati dagli eventi politici che quel territorio ha attraversato che era si composita e
segmentata ma garantita dagli statuti personali delle singole componenti della popolazione.
Per le particolari caratteristiche del territorio in Palestina l’insorgere della coscienza di essere nazione è maturato con tempi propri, come è avvenuto in molte parti del pianeta e questo perché i processi storici non hanno ovunque i tempi dell’occidente che fornisce l’orologio della storia, ma l’acquisizione di questa consapevolezza è avvenuta in un tempo differito e parallelamente per la componente israeliana e per le popolazioni autoctone. La popolazione dei territori palestinesi conduceva un’esistenza autonoma, estranea all’attività politica ufficiale del Sangiaccato, che costituiva esclusivamente una soprastruttura amministrativa dell’Impero ottomano che non consentiva la partecipazione e il coinvolgimento politico della popolazione.

La resistenza all’occupazione e all’esproprio: le responsabilità dei paesi mandatari

La riprova di quanto affermiamo è offerta dalle modalità con le quale le popolazioni immigrate hanno acquisito la proprietà della terra, stabilendo una propria giurisdizione sul territorio. All’epoca per effetto combinato dell’applicazione del diritto dell’impero ottomano e segnatamente dal codice civile, la Mejelle, entrato in vigore verso la metà del XIX secolo, basato sulla shari’a, e la coesistenza di questo con le capitolazioni che garantivano a chi vi era soggetto l’integrità della persona e della proprietà, i musulmani e gli appartenenti alle altre fedi erano soggetti a norme di diritto diverse. Ai musulmani si applicava il suddetto codice composto da 16 volumi e 1.851 articoli, redatti tra il 1869 e il 1876, entrati in vigore nel 1877. Frutto delle elaborazioni della scuola giuridica Hanafita, integrati da elementi di diritto da madhāhib sunniti, la sua struttura e il suo impianto era stato influenzato dalle più recenti e coeve esperienze europee nel campo della codificazione e si occupava anche della proprietà, escludendo ovviamente il diritto di famiglia riservato alla giurisdizione della legge religiosa. Questa legislazione venne integrata da singole leggi emanate dall’autorità titolare del mandato e rimase in vigore in Israele formalmente fino al 1984.
Premesso che per la legge islamica tutti i beni sono donati agli uomini da Allah, per cui l’uso della proprietà deve rispettare sempre la natura e il prossimo, nessuno può essere privato dei beni necessari per poter vivere. Vi sono perciò beni in comune come l’acqua, che appartiene a Dio, e quindi alla comunità, così i minerali ed il fuoco e ciò che lo produce. Non solo ma è la famiglia nella persona del suo capo a gestire la proprietà attraverso la regolamentazione delle successioni e l’uso del waqf, istituto che contribuisce ad accrescere le proprietà della comunità gestite per fini caritatevoli
a vantaggio della religione e della comunità. Ciò faceva sì che la componente araba godesse di una tutela della proprietà complessivamente più debole della protezione offerta dagli ordinamenti dell’occidente.
Da questa struttura complessa dell’assetto proprietario discende una propensione all’ampliamento della proprietà pubblica che occorreva smobilitare e immettere sul mercato per facilitare lo sviluppo di un’economia capitalistica. Venne perciò varata anche in Palestina, come negli altri paesi soggetti a mandato o ad amministrazione coloniale, lo smantellamento dei waqf per immettere sul mercato immobiliare la terra e ciò che era pubblico venne messo in vendita a disposizione dei privati. Di questa situazione approfittarono i migranti che, disponendo di capitali, acquistarono la terra
non solo dai privati, ma dall’amministrazione pubblica che possedeva più del 45% della superfice totale, sottraendola così all’uso comunitario. L’esproprio per motivi di pubblica utilità fece il resto.
La popolazione tentò invano di opporsi a questa politica ma i coloni furono in grado di acquisire sempre nuove terre, anche perché disponevano di conoscenze più avanzate sulla strumentazione tecnologica, di capitali e conoscenze per mettere a coltura terre aride, privatizzando l’uso dell’acqua e utilizzandola con razionalità e più avanzate tecnologie e di proporre l’implementazione di nuove colture.
Non va poi sottovalutato il ruolo propulsivo, dal punto di vista economico, svolto dalla struttura comunitaria dell’organizzazione sociale dei coloni, improntata alla solidarietà e potenziata dalla comunità di intenti derivante dalla condivisione di un progetto politico e ideale, rafforzato dalla comune appartenenza religiosa. L’utilizzazione dei kibbutz
per procedere a una pianificazione dello sfruttamento del territorio è stata preziosa ed ha consentito la realizzazione di un’economia avanzata che ha enormemente aumentato il tenore di vita dei coloni rispetto a quello della popolazione autoctona che peraltro venne esclusa dall’esperienza dei kibbutzim perché di religione non è ebraica. E tuttavia le nuove culture impiantate sui terreni recuperati all’agricoltura richiedevano manodopera in aggiunta a quella che la comunità dei migranti poteva mettere a disposizione e fu quindi giocoforza assumere come lavoratori salariati un gran numero di non ebrei, con il risultato di reintrodurre nella struttura del kibbutz proprio quel rapporto salariale tipico del lavoro subordinato che si voleva escludere.
Così la popolazione arabo palestinese si trovò esclusa dal processo di crescita economica generato dall’innesto dei coloni nel tessuto sociale e si posero le premesse per quella frattura tra due società contrapposte che col tempo sarebbero divenute l’un contro le altre armate, non solo perché divisi da una diversità religiosa, da valori etici, da tradizioni e costumi differenti, ma anche e soprattutto dalle loro condizioni economiche e di classe. Col passare del tempo, e anche ancor più, in ragione della progressiva diminuzione della terra posseduta e utilizzata dalla comunità araba di Palestina crebbe l’aggressività di questa parte della popolazione verso i coloni e si strutturò la difesa armata da parte dei coloni che optarono per una difesa diffusa dei loro insediamenti, attraverso la costruzione di milizie volontarie, in assenza di una
autorità statale capace di dirimere le controversie, mentre le autorità mandatarie si limitavano ad osservare quando non a sostenere i coloni sui quali facevano agio per mantenere il controllo militare dell’area.
Gli scontri anche armati e le reciproche rappresaglie cominciarono a seminare fin da allora risentimento e odio che si stratificò nel tempo fino a portare alla guerra dei coloni ebrei contro le autorità mandatarie prima e contro le popolazioni arabe poi, per dar vita alla formazione dello Stato di Israele.

La strumentalizzazione del problema palestinese da parte dei paesi arabi

La formazione dello Stato d’Israele venne vista nei paesi arabi dell’area, impegnati nel tentativo di raggiungere l’indipendenza affrancandosi dal rapporto mandatario e coloniale con le grandi potenze, come l’intromissione di un elemento estraneo in un’area di loro pertinenza, come un modo con il quale le potenze occidentali volevano mantenere la loro presenza con un piede nello scacchiere mediorientale, al fine di controllarlo e condizionarlo, per continuare a sfruttarne le sue risorse. Lo Stato israeliano, nato nel 1948 era considerato da questi un’escrescenza che bisognava
estirpare se si volevano conservare in vita i regimi politici che governavano quei paesi e le strutture di governo legate alla tradizione, ai costumi e alle politiche istituzionali dell’islam.
Israele si introduceva come un cuneo tra il mondo sciita e quello sunnita; la politica adottata per contrastarne l’esistenza diveniva la cartina di tornasole attraverso la quale sciiti e sunniti misuravano la loro capacità di difendere l’integrità e valori dell’islam, facendo di questo discrimine la misura dell’egemonia del mondo arabo-islamico.
Volendo dar vita nell’area a un paese a democrazia partecipata, Israele costituiva inoltre un pericoloso esempio per i governi oligarchici del mondo arabo-islamico, poiché dimostrava che era possibile costruire strutture a democrazia partecipata che mettevano in discussione quella parte della teoria politica del messaggio islamico relativa alla legittimità del solo potere basato sulla religione e tollerato dal Corano, mettendo in discussione la fraternità creata dalla comune religione, l’alleanza tra i credenti, la legge di Dio, che spinge a credere al potere della maggioranza, ritiene legittimo consultare il popolo sulla base della forza legale e dell’ordinamento giuridico secondo i principi dell’Islam.
Inoltre, la presenza nell’area di uno Stato la cui esistenza dipendeva da attori esterni all’area geopolitica alla quale gli altri Stati islamici dell’area appartengono, introduceva un elemento di turbativa nella sicurezza reciproca di questi paesi, imponendosi come gestore del territorio nel quale sorgono i luoghi santi simbolici delle religioni del libro.
Il crollo dell’impero ottomano aveva lasciato indubbiamente un vuoto di potere all’interno del quale cercavano di inserirsi la Repubblica turca come erede diretta dell’impero, nostalgicamente impegnata a ricostruirlo, al punto da procedere al genocidio di armeni e curdi pur di dare continuità territoriale alla propria sfera di azione; l’Arabia Saudita come paese custode dei luoghi santi dell’Islam, la Repubblica islamica dell’Iran che aspirava alla leadership morale del mondo islamico in quanto depositaria della lettura sciita del Corano e non da ultimo l’Egitto che. attraverso l’assunzione
della leadership dell’opposizione ad Israele, aspirava ad assumere la guida della Lega araba. Non vanno poi sottovalutate l’aspirazione della Giordania a vedere riconosciute le proprie pretese sulla Palestina e della Siria a svolgere nell’area un ruolo di potenza dominante in un rapporto simpatico con l’Iran in ragione dei rapporti privilegiati sciiti e alauiti.
Sono questi – sinteticamente – i motivi che portarono i paesi arabi che circondano Israele a schierarsi, uniti nella Lega araba contro l’esistenza stessa dello Stato di Israele. Per resistere a questo assalto a Israele non restava altra strada che assumere il ruolo di vessillifero dei valori occidentali ed imporre con la forza la propria presenza. Questa strategia si rivelò vincente nel 1948 e consentì la costituzione dello Stato, ma al tempo stesso pose il quesito irrisolto su che cosa fare della popolazione non ebraica, posto che lo Stato appena costituito si presentava come laico, ma confessionalmente ed etnicamente caratterizzato.
Perché questo schema di relazioni potesse funzionare Israele scelse di puntare sulla deterrenza, costituita da quella che Mosche Dayan definiva “la strategia del cane rabbioso”: mantenere una costante superiorità militare e far pagare duramente ai nemici di Israele ogni attentato alla sua sicurezza e ai suoi interessi, mai cercando il dialogo paritario. Fu così in occasione della guerra dei sei giorni e poi lo schema si ripetette con la guerra dello Yom Kippur, in occasione delle tante intifade, degli scontri con le milizie libanesi di Hezbollah.
Ma i principali nemici di Israele rimasero senza dubbio i palestinesi che divennero “nemici interni” con la guerra del Kippur (1973) che permise l’estensione della giurisdizione di Israele su Gaza e la Cisgiordania oltre che su Gerusalemme Est.
Da allora Israele sottopose questi territori al suo controllo facendo di Gaza una prigione a cielo aperto e della Cisgiordania un territorio formalmente governato dall’Autorità Nazionale Palestinese, ma che di fatto è occupato e del quale i coloni israeliani portano via ogni giorno fette crescenti di territorio, per insediarvisi e procedere ad una lenta,
costante ed inarrestabile occupazione, al fine abbastanza chiaro di rendere impossibile l’esistenza di un territorio palestinese omogeneo sul quale costruire uno Stato. Non è un caso che la politica delle espropriazioni proceda in modo “scientifico”, provvedendo ad impadronirsi delle terre più fertili, individuando i siti dei nuovi insediamenti in modo da farne un reticolo di fortificazioni che si difendono vicendevolmente, spianando case e insediamenti degli abitanti autoctoni con le più diverse motivazioni, presidiando con l’esercito i nuovi insediamenti, creando specifici percorsi e collegamenti stradali fra tali insediamenti, che taglino fuori il territorio oggi occupato dai palestinesi, in modo da
disegnare un regime territoriale di apartheid. Studiando la disposizione topografica degli insediamenti, risulta evidente che queste scelte vengono fatte per consentire che si proceda in una fase successiva, una volta circondate le enclave, a bonificare anch’esse dalla presenza di palestinesi e ad annetterle, fino a quando tutto il territorio non sarà occupato da cittadini di Israele.
A cinquant’anni da quando Israele ha assunto il controllo di questi territori la situazione si è evoluta al peggio: Israele nel 2005 si è ritirato unilateralmente da Gaza, lasciando che la situazione degenerasse e confidando anzi che la mancata soluzione del problema avrebbe alimentato gli estremismi, facendo crescere la rabbia e il risentimento, in modo da delegittimare l’Autorità Nazionale Palestinese, alimentando il nascente fondamentalismo islamico e di fatto stimolando la crescita del potere di Hamas, organizzazione speculare dei fondamentalisti israeliani, ambedue interessati a rendere impossibile la realizzazione della formula, due popoli due Stati prevista dagli accordi di Camp David. Gli accordi di Abramo, che numerosi paesi arabi moderati si stavano preparando a firmare, in nome dei comuni interessi con Israele, avrebbero dovuto costituire il suggello di questa politica, dimostrando che la convivenza era possibile, a prescindere dai palestinesi. Contro questa cancellazione del problema ha agito Hamas, ispirandosi alla politica dei progrom e facendo rivivere al mondo una storia che sembrava ormai cancellata dall’orrore vissuto con la Shoah.

La questione della custodia dei luoghi santi

Nella sua attività, in violazione di ogni accordo, Israele ha provveduto ad annettersi unilateralmente, nel totale silenzio del mondo, Gerusalemme, mettendo così il proprio sigillo al problema della tutela dell’internazionalità dei Luoghi santi, ovvero di quella parte di territorio di Gerusalemme che è punto di riferimento di tutte e tre le religioni del
libro. Sotto il profilo del diritto internazionale, sulla carta, custode dei Luoghi santi sarebbe il re di Giordania, ma la sua giurisdizione su questi siti è stata completamente esautorata dalle autorità israeliane. Israele, infatti, ha unilateralmente annesso Gerusalemme est alla sua esclusiva giurisdizione, proclamandola capitale storica dello Stato ebraico. Con la medesima tecnica applicata nella Cisgiordania procede alla graduale, ma costante acquisizione e requisizione, con ogni mezzo, di abitazioni e brandelli di territorio di Gerusalemme Est e, dopo aver limitato a quartieri ben definiti la presenza araba, provvede a riempire con propri cittadini i vuoti creatisi. La sola deroga a questo regime di annessione è costituita dal consentire nei giorni di preghiera e quando l’autorità israeliana lo ritiene opportuno, o almeno non controproducente ai
fini della tutela dell’ordine pubblico, l’accesso alla spianata delle moschee per procedere alla preghiera del venerdì, nonché concedere i permessi tradizionalmente accordati alle confessioni cristiane, cattoliche e ortodosse, di accedere secondo un calendario e orari ben definiti alle basiliche cristiane per la celebrazione dei riti.
Con tutti i suoi limiti, il regime particolare al quale è sottoposta a Gerusalemme, fornisce un indizio sul fatto che la convivenza sarebbe possibile a condizione che ad amministrare il territorio fosse un’autorità neutrale, equidistante dalle diverse appartenenze concessionarie tecniche. La comune origine della gente del libro suggerisce che la convivenza è possibile e necessaria, tanto più oggi che i processi di globalizzazione, le migrazioni, hanno mescolato e mescolano i popoli e le genti obbligando alla coesistenza tra diversi sullo stesso territorio, con i rapporti regolati da una legge comune condivisa, da un da un ordinamento frutto della partecipazione paritaria di tutti coloro che nella comunità fanno parte per diritto di nascita e perché su quel territorio risiedono.

La deriva nazionalista e statalista dell’OLP

L’Organizzazione per la liberazione della Palestina venne fondata a Gerusalemme in una riunione tenutasi nel maggio del 1964. Vi parteciparono 422 personalità in rappresentanza della nazione palestinese Ehi. Nell’originario statuto dell’OLP del 28 maggio 1964 si dichiarava che la Palestina era all’interno del mandato britannico una singola unità regionale: si affermava il diritto al ritorno dei profughi e quello all’autodeterminazione per i palestinesi, diritti messi in discussione dal sionismo. Solo nel 1988 l’OLP ha adottato ufficialmente la soluzione dei due Stati, Israele e Palestina, con Gerusalemme Est capitale.
Nel 1993, il presidente dell’OLP Yasser Arafat, in ottemperanza agli accordi di Oslo, in una lettera ufficiale inviata al primo ministro di Israele Yitzak Rabin ha riconosciuto lo Stato d’Israele, permettendo così la nascita dell’Autorità Nazionale Palestinese. Oggi, ad anni di distanza, il reciproco riconoscimento non si può dire che abbia giovato all’OLP che, assunto il governo della Cisgiordania sollevando Israele dal regime formale di occupazione, ma, in realtà, consentendo alla politica israeliana di impossessarsi progressivamente del territorio e di trasferire la terra a coloni israeliani, senza che ad essi fosse posto un freno anche minimo. Ciò ha screditato sia l’OLP che l’Autorità Nazionale Palestinese, oggi ridotta ad un simulacro di sé stessa, gravata dal sospetto fondato di malgoverno, ruberie, appropriazione, da parte della sua dirigenza dei fondi dell’organizzazione, frutto delle donazioni e delle attività non sempre lecite
dell’OLP. Eppure, c’è da dire che all’origine questa era un’organizzazione ad orientamento socialista, o quanto meno progressista, e che di essa facevano parte diversi movimenti palestinesi con un’impostazione ideologica sostanzialmente laica, impegnata nella lotta per il conseguimento dell’indipendenza palestinese e per la liberazione dei territori palestinesi occupati! Dopo che con la guerra dei sei giorni la credibilità di Egitto e Giordania come paesi che avrebbero dovuto farsi interpreti degli interessi dei palestinesi e liberare la loro terra era definitivamente naufragata la maggioranza dell’OLP passò sotto il controllo di Al Fath con a capo Yasser Arafat, creando di fatto uno Stato nello Stato in Giordania. Vedendo insidiato il proprio potere nel 1970 la monarchia hashcemita che governava il paese. ritenne di doversi liberare di questa presenza ingombrante organizzando la repressione armata dei palestinesi. Questa azione, passata alla storia come “settembre nero”, portò al massacro nei campi dei rifugiati palestinesi e al trasferimento di molti palestinesi già profughi in Libano e in Siria; tutto questo benché la Lega araba riconoscesse l’OLP come la sola legittima rappresentanza del popolo palestinese, Contestualmente la Giordania dichiarò di non rappresentare i palestinesi nella lotta per la loro terra, rinunciando a ogni pretesa sulla Cisgiordania che divenne res nullius sulla quale Israele poneva una pesante ipoteca,
colonizzandola.
Nel tentativo di giungere a una risoluzione pacifica della questione, nel 1974, il Consiglio Nazionale Palestinese approvò il “Programma dei 10 Punti”, formulato dai leader di al-Fath, nel quale si ipotizzava di giungere a una risoluzione pacifica della questione, di dar vita a uno Stato binazionale palestinese/israeliano, democratico e secolare, nel quale tutti i cittadini avrebbero goduto di identici diritti, senza discriminazioni di razza, sesso o religione. Dal progetto si dissociò il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP) che abbandonò l’OLP. Questa suggestione venne raccolta dall’ONU nel 1976, ma avversata sia dai Paesi Arabi del cosiddetto Fronte del Rifiuto che dagli Stati Unti che opposero il loro veto.
Questa politica mise momentaneamente in crisi i progetti nazionalisti dello Stato ebraico, aiutato nel discredito di Arafat da Abū Niḍāl, leader del FPLP con attentati verso i sostenitori del progetto. Intanto la presenza dei palestinesi nei paesi confinanti con Israele divenne la causa dell’indebolimento della loro tenuta istituzionale, in quanto la loro organizzazione militare costituiva uno Stato nello Stato, destabilizzando i poteri legittimi. Successe così che, scoppiata la guerra civile libanese, l’OLP dapprima combatté contro i Maroniti, poi contro Israele e infine, contro le milizie di Amal sostenute dalla Siria. Dal 1985 al 1988 Amal assediò i campi profughi palestinesi in Libano per sradicarvi i sostenitori di Arafat. Molte migliaia di Palestinesi morirono per colpi d’arma da fuoco e per inedia. Dopo che finirono gli assedi di Amal si ebbe l’esplosione del conflitto tra le diverse fazioni palestinesi presenti nei campi e il vicendevole massacro di
molti di loro.
Era del tutto prevedibile che la popolazione palestinese, stremata dall’esilio, disorientata dai tanti suoi supposti sostenitori, finisse per essere utilizzata come carne da macello, come milizie per dirimere le tante controversie all’interno dei paesi arabi tra le componenti sunnite e sciite, le milizie che facevano capo a questo o a quel governo, a questa o a quella etnia o gruppo religioso, con il risultato di scatenare la lotta fratricida.
Stretta tra il rifiuto di Israele di accettare qualsiasi negoziato, la posizione contradditoria degli USA che, mentre operavano a sostegno dello Stato ebraico, dichiaravano che avrebbero negoziato con l’OLP qualora questa avesse accettato la risoluzione n. 242 dell’ONU e avesse riconosciuto Israele, preso atto del massacro del suo popolo e dei suoi militanti, trasferiva la sua sede in Tunisia, come a volersi sottrarre dal conflitto.
La prima Intifada, esplosa nei Territori Occupati. colse di sorpresa l’OLP e la sua dirigenza, dimostrando come la questione palestinese restasse comunque aperta; il popolo aveva reagito dandosi una nuova leadership con la costituzione del Comando Unificato dell’Intifada, che riuniva numerose importanti fazioni palestinesi.
Per riprendere il controllo politico della situazione con la Dichiarazione d’indipendenza palestinese di Algeri venne proclamato lo Stato indipendente della Palestina e, pur senza menzionare esplicitamente le dichiarazioni numero 242 e 338 del Consiglio di sicurezza dell’ONU, emerse l’intenzione di appoggiare una soluzione al conflitto su quelle basi, confermata un mese più tardi a Ginevra dallo stesso Arafat. Vennero così poste le premesse per gli accordi di Oslo, conclusi il 23 agosto 1993 e firmati a Washington il 13 settembre dello stesso anno in base ai quali Gaza e la Cisgiordania
sarebbero stati autogovernati dall’ANP.
Netanyahu nel 1993 divenne il leader del partito conservatore Likud, dopo che Yitzhak Rabin, venne assassinato da un fanatico ebreo dell’estrema destra israeliana, e il 3 ed il 4 marzo 1996, terroristi palestinesi organizzarono due attendati suicidi in cui 32 cittadini israeliani vennero uccisi e si andò al voto. Questi due attentati provocarono la caduta di
Peres da primo ministro.
Ne approfittò Netanyahu per portare il suo partito alla vittoria alle elezioni del 1996 e diventare primo ministro.
Per la prima volta, gli Israeliani elessero in maniera diretta il loro capo del governo, il che dimostra, se ce ne fosse bisogno, quale sia l’importanza della struttura delle istituzioni nel consentire una soluzione dei problemi rispondente ai reali interessi delle popolazioni. Netanyahu fece campagna elettorale contro gli accordi stretti dal governo laburista: pose come condizione per ogni progresso nelle trattative di pace che, l’ANP rispettasse i suoi obblighi, principalmente al riguardo della lotta al terrorismo, ma è evidente che al di là delle intenzioni, nessuno dei leader palestinesi avrebbe potuto
garantire il controllo della galassia di gruppi nei quali il fronte palestinese era ormai frammentato.
Seguirono quattro anni di governo di Netanyahu durante i quali la penetrazione israeliana sia a Gaza che nella Cisgiordania si caratterizzò per la fondazione di numerosissime colonie, ma il conflitto aperto covava nelle viscere della società palestinese e esplose il 28 settembre 2000 in occasione della visita, ritenuta dai palestinesi provocatoria, dell’allora capo del Likud Ariel Sharon accompagnato da una delegazione del suo partito e da centinaia di poliziotti israeliani in tenuta antisommossa al Monte del Tempio, luogo sacro per i musulmani situato nella Città Vecchia. L’Intifada fu una successione di fatti violenti che aumentarono rapidamente di intensità e proseguirono per anni.
La crescita di questi insediamenti venne interrotta dal successivo governo Barack che sul finire del suo mandato decise lo smantellamento di molti di questi insediamenti e soprattutto nel 2005 di quelli di Gaza e all’abbandono della Striscia da parte degli israeliani. Si produsse così un clima di scontento e perdita di fiducia nell’opinione pubblica israeliana che fece sì le elezioni successive fossero vinte dalla destra guidata da Benjamin Netanyahu.
Così la costruzione di insediamenti in Cisgiordania riprese in modo massiccio; si procedette alla confisca di terreni e alla demolizione di case palestinesi. In particolare, intorno a Gerusalemme venne costruito il nuovo quartiere denominato di Har Homa, malgrado le condanne internazionali. Da parte di Netanyahu vi fu il rifiuto di consentire la costituzione di uno Stato indipendente, di consentire il ritorno dei profughi, di procedere allo smantellamento degli insediamenti costruiti, abbandonando i territori occupati, con il ritorno così ai confini del 1967. La politica di Netanyahu era invece orientata a prolungare i negoziati il più possibile approfittando della posizione di forza israeliana, confidando sui fatti compiuti.
Questa politica provocò il definitivo discredito dell’autorità nazionale palestinese e fece crescere il consenso verso i gruppi estremisti di orientamento e caratterizzazione religiosa islamica come Hamas e la jihad islamica in Palestina. Con la seconda intifada vi fu una forte ripresa degli attentati suicidi palestinesi nelle principali città israeliane, in particolare contro luoghi di aggregazione civili come autobus e locali notturni. Questi atti terroristici erano stati già presenti negli anni precedenti, ma non avevano ottenuto un significativo consenso politico da parte dell’opinione pubblica palestinese, tuttavia erano il frutto più evidente e immediatamente visibile della crisi di rappresentanza per gli interessi palestinesi, indice della disperazione della popolazione che viveva il dramma dell’occupazione, e questo anche perché gli israeliani, da parte loro, procedettero a varie operazioni contro la popolazione civile come la demolizione di edifici e quartieri, sia nella striscia di Gaza sia in Cisgiordania, ad una politica di “omicidi mirati” a sfondo politico e ingaggiarono battaglie sanguinose come l’assedio di Jenin.
Nella striscia la seconda intifada. di fatto si concluse con la vittoria elettorale degli estremisti palestinesi di Hamas che sconfissero i moderati di Fatah, mentre i rapporti fra il nuovo governo israeliano e l’ANP tornavano a farsi tesi.
Finalmente il governo di Netanyahu aveva una controparte che le era speculare e che perseguiva il suo stesso scopo: rendere impossibile il progetto di dare vita a due Stati per risolvere così la questione palestinese. Da ora in poi da un lato Hamas lanciava un’opzione sulla Cisgiordania, alimentata da Netanyahu che pensava, così facendo, di guadagnare quel tempo necessario per volgere a suo favore, con la progressiva occupazione dei territori, la situazione.
Le cifre della seconda intifada, aggiornate al 15 febbraio 2006, parlano di un totale di 4.995 morti di cui 3.858 di parte palestinese e 1022 di parte israeliana. Al 28 settembre 2006, a sei anni esatti dall’inizio della Seconda Intifada, molti mezzi di comunicazione riportarono la cifra di 4312 morti palestinesi e di 1084 morti israeliani. A sette anni dall’inizio i morti palestinesi sono saliti, secondo il Centro Palestinese di Statistica, a 5000 unità.

La degenerazione islamista delle organizzazioni palestinesi come strumento di difesa del diritto ad esistere

La delegittimazione sistematica dell’OLP da parte dei governi israeliani ha favorito l’emergere nella società palestinese sia di Gaza che di Cisgiordania delle componenti islamiche e terroristiche presenti nel mondo musulmano, come filiazioni di partiti e movimenti politici ispirati da ideologie che ricorrono al terrorismo come strumento di lotta per raggiungere i loro scopi.
Tra queste teorie politiche va incluso certamente il wahabismo, una corrente del salafismo che costituisce, a sua volta. una interpretazione particolarmente rigida del Corano delle origini. Il wahabismo è un movimento di riforma religiosa e politica, che nacque alla metà del XVIII secolo nel Najd, un’area desertica posta al centro della penisola arabica, socialmente, culturalmente ed economicamente poco sviluppata rispetto ai principali centri del mondo islamico dell’epoca, la quale si proponeva il ritorno a quanto afferma il testo coranico letteralmente. Il suo fondatore Muḥammad
ibn ʿAbd al-Wahhāb (al-ʿUyayna, Najd, 1703 – Dir ‘iyya, presso Riyāḍ, 1792), era figlio di ʿAbd al-Wahhāb, un qadi di scuola hanbalita che esercitava al-Uyayna.
Diffuso soprattutto nel territorio dell’Arabia Saudita il wahabismo si propone la palingenesi islamica e ritiene che tutti coloro che non praticano l’Islam rispettandone letteralmente le prescrizioni siano pagani; si è sviluppato nelle madrase e nelle moschee wahhabite sparse in tutto il mondo islamico, ma territorialmente si è radicato principalmente nel Qatar, negli Emirati Arabi Uniti e in Arabia Saudita: complessivamente si parla di circa 5 milioni di wahabiti nel Golfo Persico; in Qatar costituiscono il 46,87 % dei fedeli islamici, ma quel che è più importante sono i rapporti che il movimento ha stabilito con la casa reale saudita, alla quale è storicamente legato e che ne condivide l’ideologia: La monarchia saudita – è bene ricordarlo – controlla La Mecca e Medina, luoghi santi dell’Islam è, soprattutto, un territorio ricchissimo di petrolio e gas naturale. Benché il wahabismo resti fortemente minoritario e differisca o addirittura si contrapponga alla maggior parte delle altre dottrine islamiche esso mira a una pratica religiosa puramente ritualista e non considera gli sciiti e i sufi veri credenti. La monarchia saudita si è sempre sentita chiamata a proporre e a sostenere un regime di tipo tradizionale, quanto ad assetti politici interni e a costumi, adottando una rigida separazione dei sessi che solo negli ultimi anni sembra attenuarsi.
La monarchia saudita non ha mai sentito il bisogno di adottare una Costituzione che ne limitasse e controllasse i poteri, né di avviare un processo di codificazione giuridica laica e applica la sharīʿa. Nel proporre la loro interpretazione rigida delle scritture i wahabiti si sono fatti sostenitori del mantenimento degli istituti tipici dell’islam, primo fra tutti il waqf e gli altri istituti come il pagamento della zakat, l’elemosina rituale, l’applicazione delle successioni preferendo il trasferimento della proprietà secondo l’asse maschile, sostenendo una versione dell’Islam comunitaria come forma di
welfare, in funzione antioccidentale. Per questi suoi caratteri il wahabismo è stato fatto proprio dai movimenti di resistenza alla colonizzazione, ai costumi introdotti dall’occidente.
Il progetto di ricostruzione di una società islamica dai valori tradizionali ha fatto si che fosse forte e significativa l’influenza del wahhabismo sui movimenti contemporanei arabi e islamici che per far fronte all’affermarsi di società occidentalizzate dotate di forti e moderni poteri istituzionali, fanno del terrorismo lo strumento per disegnare nuovi
equilibri geo-strategici planetari, sostenendo la superiorità etica del modello islamico, lasciando irrisolto il problema del rapporto fra modernità e Islam.
I principali movimento politici di orientamento wahabita sono: al-Qaeda, l’organizzazione fondata da Abū Mus‘ab al-Zarqāw; Daesch, (Sigla di Al dawla al islamiya fi all Iraq wa) e Boko Haram («l’istruzione occidentale è proibita»).
La tendenza alla riscoperta dei valori originari dell’Islam porta nel 1928, in Egitto, alla costituzione dei Fratelli Musulmani come frutto del risveglio culturale e religioso che, nei primi decenni del XX secolo, cercava di reagire alla progressiva occidentalizzazione delle società islamiche. Il fine della sua filosofia politica e dell’organizzazione che successivamente venne fondata era di promuovere la dignità ed il riscatto dei lavoratori arabi-egiziani. Non è un caso che l’organizzazione di questa nuova formazione politica si sviluppasse nell’area del canale di Suez, allora particolarmente viva e in rapida trasformazione per l’apporto di operai, provenienti dai più diversi paesi, impiegati nella realizzazione del canale di Suez. Questa presenza rese visibile ai lavoratori autoctoni e agli abitanti locali i diversi costumi e la mancanza di solidarietà, tipica delle società occidentali, manifestamente dimostrata dalla presenza di una moltitudine di diseredati
che vivevano condizioni di lavoro durissime. A fronte di una organizzazione sociale che dovette sembrare inumana e immorale vi fu chi propose di ritornare all’etica e alla concezione civica proposta dall’Islam, obiettivo da perseguire ed ottenere con l’educazione e gli insegnamenti islamici della solidarietà e dell’altruismo nella vita quotidiana.
Il movimento venne fondato da al-Hasan al-Bannā, un insegnante egiziano operante ad Ismailia e col tempo si diffuse a Ismailia, nei territori che avevano fatto parte dell’impero ottomano, a colmare il vuoto che il suo crollo aveva lasciato: Barhein, Siria, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Russia, e le Repubbliche caucasiche già ottomane del
Tagikistan e dell’Uzbekistan e successivamente in Turchia a partire dal 2003 con l’elezione di Recep Tayyip Erdoǧan a primo ministro. Il movimento fece sua la causa delle classi diseredate e giocò un ruolo preminente nel movimento nazionalista egiziano, promuovendo una concezione dell’Islam capace di coniugare tradizione e modernità.
Per provvedere alla reislamizzazione delle società i Fratelli Musulmani scelsero di procedere, diffondendo dall’alto, attraverso la presenza all’interno del potere politico, le loro idee e il loro programma; dal basso, ponendo le loro basi operative nelle moschee e dando vita a nuclei di propagandisti ed attivisti che diffondevano e praticavano il
programma dell’organizzazione. Il presidente egiziano Gamāl Abd al-Nāser, sciolse l’associazione e fece arrestare, torturare e giustiziare alcune decine di migliaia di aderenti all’organizzazione, poiché il movimento si opponeva al suo programma di laicizzazione della società egiziana. I fratelli musulmani reagirono organizzando attentati alla vita del Presidente che verso la metà degli anni 60 represse il movimento, facendo impiccare molti suoi dirigenti, tra i quali il fondatore Sayyd Quth.
Dopo la morte di Nasser nel 1970, il nuovo leader egiziano Anwar al-Sādāt sceglie una politica di apertura nei confronti dei movimenti islamisti, anche per contrastare le organizzazioni studentesche di sinistra, senza con questo legalizzare pienamente i Fratelli Musulmani. Nel 1981 una fazione dell’organizzazione assassinò Sādāt, nel corso di una parata militare, senza che questo portasse alla caduta del regime.
Con l’ascesa al potere nel 1984 di Ḥosnī Mubārak , i Fratelli Musulmani poterono partecipare alle elezioni, tornando a crescere nella società; al loro interno prevale l’ala legalitaria, privilegiando il ruolo sociale del movimento.
Così alle elezioni del 2012 risultò eletto Presidente Mohammed Morsi, leader del neocostituito partito di Libertà e Giustizia che rappresenta di fatto il movimento. Tuttavia, l’anno successivo un colpo di Stato venne messo a segno da al-Sisi che esautorò definitivamente i Fratelli Musulmani dal potere, mettendo in atto una feroce repressione (si parla di 2.500 manifestanti uccisi, di più di 20.000 imprigionati e di 1200 condannati a morte).
Intanto il messaggio dei fratelli musulmani era stato raccolto con grande senso di opportunismo dalla Turchia, governata da Recep Tayyip Erdoǧan, che ne faceva l’ideologia politica che avrebbe dovuto presiedere alla ricostruzione dell’impero turco. Erdoǧan, forte del fatto e il suo paese appartiene all’alleanza atlantica, consapevole dell’essenzialità delle forze turche per coprire il lato sud della NATO, ha sviluppato una strategia articolata, destreggiandosi tra Oriente ed Occidente, tra Stati Uniti e Russia per raggiungere i suoi obiettivi, estendendo il suo territorio a spese della Siria, prendendo parte alla guerra civile siriana, schiacciando e cercando di distruggere i suoi nemici storici, i curdi, mettendo in atto un autentico genocidio, ha ricostruito la propria presenza in Libia, approfittando del vuoto di potere creato dai suoi alleati occidentali con l’uccisione di Gheddafi, ha esteso la presenza turca verso le Repubbliche turcofone ex sovietiche dell’Asia centrale, mediante l’alleanza con l’Azerbaigian, sostenendolo con successo nella sua eterna guerra contro l’Armenia. A fronte dell’esplodere della crisi in Palestina Erdoǧan si è proposto come uno degli alleati di Hamas nell’intento di guadagnarsi favori e sostegni nel mondo arabo islamico.
Alla luce di questa ricostruzione e della connotazione politica delle diverse forze in campo, ben si comprende perché oggi l’attuale Presidente egiziano faccia di tutto per evitare un ritorno dei Fratelli Musulmani in Egitto, prova ne sia che per evitarlo ha desertificato il territorio al confine con Gaza, radendo al suolo la parte dell’abitato di Rafah rimasto sotto la sua giurisdizione per evitare un reinsediamento di palestinesi.
Il panorama del fondamentalismo islamico che, a fronte dell’incapacità dei partiti e dei movimenti politici di rappresentare gli interessi dei palestinesi e del mondo arabo-islamico, hanno assunto la loro rappresentanza politica, non è completo, se non si prende in esame il fondamentalismo sciita che sullo scacchiere palestinese è schierato e rappresentato dalla comunità sciita libanese.
Ci riferiamo a Hezbollah, il Partito di Dio, nato a seguito dell’invasione israeliana del Libano del 1982, con il sostegno di Iran e Siria. Gli sciiti, urbanizzatisi negli anni ’50 provenivano dalle campagne e costituivano la parte più povera della società libanese; si contrapponevano al ricco ed occidentalizzato stile di vita della componente cristiana e
sunnita della popolazione e da qui discende la loro identificazione con il proletariato del Libano.
Radicalizzati ad opera delle organizzazioni nazionaliste, socialiste e comuniste arabe in seguito alla perdita della Palestina nel 1948 e alla successiva nascita dell’OLP vennero spinti ad organizzarsi e a schierarsi. Se prima dello scoppio della guerra civile libanese nel 1975 erano state soprattutto le loro condizioni socio-economiche e politiche a spingerli all’azione, dopo il duro prezzo pagato con la guerra, fu la mobilitazione politica dei cristiani maroniti, inizialmente schieratisi contro i palestinesi e i sunniti, a provocare la mobilitazione militare sciita, accentuando il loro islamismo. La distruzione di massa causata dall’invasione israeliana e il concomitante intervento occidentale, portarono alla formazione di vari gruppi di combattenti che andranno a costituire Hezbollah, influenzati dalla rivoluzione iraniana del 1979.
Non solo, ma nel 1982 l’Iran inviò nella valle della Beqaa 1.500 guardie rivoluzionarie, Pasdaran, che contribuirono direttamente alla genesi del Partito di Dio con l’obiettivo di esportare la Rivoluzione Islamica. La Siria, che allora controllava l’accesso al Libano, accettò l’aiuto iraniano in funzione antisraeliana e nuove forze vennero a Hezbollah
dallo scisma all’interno di Amal. Partito politico degli sciiti libanesi.
Le responsabilità di Hezbollah nell’attacco all’ambasciata americana di Beirut nell’aprile del 1983 (63morti), e nell’attentato alla caserma dei marines americani a Beirut nell’ottobre dello stesso anno (241 vittime), segnarono il debutto sulla scena dell’estremismo internazionale dell’organizzazione. La morte di un centinaio di persone nell’attentato all’ambasciata israeliana in Argentina nel 1992 e l’attacco al centro culturale ebraico di Londra nel 1994 fecero il resto.
Soprattutto dopo il ritiro di Israele dal Libano nel 2000 le quotazioni di Hezbollah crebbero facendo guadagnare all’organizzazione il rispetto della maggior parte dei settori della società libanese, non soltanto tra gli sciiti, ma persino tra i cristiani libanesi, alcuni dei quali hanno devoluto al Partito di Dio in questi anni ingenti quantità di denaro, vedendo nell’organizzazione un elemento di stabilità in uno Stato al collasso con un esercito inesistente e non in grado di difenderlo dal pericoloso vicino israeliano.
Per quanto Hezbollah sia un partito sciita, e quindi non riconducibile alla matrice sunnita dei Fratelli Musulmani, esso ha con la Fratellanza alcuni punti comuni, e su tutti la priorità all’impegno sociale, in nome di un welfare di tipo islamico. L’impegno armato in questo senso per Hezbollah come per Hamas è in qualche modo non primario e prevalente, per quanto sia all’origine della loro nascita.
Nel panorama devastato dalla corruzione dei partiti libanesi, Hezbollah è l’unico partito a godere di credibilità in quanto non ha mai ricevuto accuse di corruzione o di opportunismo politico ed è sempre rimasto fermo nei suoi principi.
Bisogna inoltre considerare che oggi il Libano è uno Stato fallito, inesistente che non eroga servizi di alcun genere, perché alla bancarotta: è Hezbollah a fornire tutto, assistenza sanitaria, istruzione, procurare il cibo, consentire un’economia di sussistenza, difendere il territorio dello Stato, forte del suo armamento e del sostegno dei suoi alleati internazionali iraniani e siriani, e dal prestiggio derivatole di aver respinto l’esercito di Israele quando tentò l’invasione del paese nel 1982.

Hamas a Gaza e in Cisgiordania

Il luogo dove i Fratelli Musulmani sono riusciti a prevalere ed affermare la loro supremazia politica è l’ambito palestinese e segnatamente la Striscia di Gaza. In questo territorio, in occasione delle elezioni per il consiglio legislativo della ANP, tenutesi il 25 gennaio 2006, Hamas vinse, mentre il Partito Fatah di Abbas (e, prima ancora, di Arafat), dominante all’interno dell’OLP, arrivò secondo. Israele, gli Stati Uniti e l’Unione Europea imposero sanzioni contro Hamas, che consideravano un’organizzazione terroristica e Fatah si contrappose ad Hamas che decretò la sua espulsione dalla Striscia. Le zone A e B della Cisgiordania rimasero invece formalmente governate da Fatah che, anche se riconosciuta internazionalmente, vide il suo potere diminuire sia pur lentamente, eroso dall’autorità di occupazione di Israele. Mentre tutto questo avveniva in Cisgiordania Israele provvedeva al blocco terrestre, aereo e marittimo della
Striscia di Gaza e dalla Striscia colpi di mortaio e razzi Qassam colpivano Israele.
In qualche modo Israele stabiliva un modus vivendi con Hamas, trovando convenienza nella divisione intercorsa all’interno del campo palestinese e, con il sostegno dell’amministrazione americana del Presidente Bush, veniva convocata una conferenza internazionale che si concludeva con una dichiarazione congiunta Israele-OLP nella quale le parti dichiaravano di concordare sulla intenzione di compiere ogni sforzo per raggiungere un accordo entro la fine del 2008 e di mettere in pratica gli impegni assunti con la roadmap tracciata nel 2002 per raggiungere una soluzione che prevedeva
la costituzione dei due Stati. Inutile dire che questo accordo da un lato isolava Hamas, ma dall’altro screditava l’OLP, agli occhi dei palestinesi, nel momento in cui questi potevano verificare sul campo la continua penetrazione di Israele nei territori occupati, l’estendersi degli insediamenti dei coloni e il ridimensionamento sempre maggiore dell’Autorità Nazionale Palestinese, la sua inefficienza e subordinazione all’occupante, la crescente corruzione.
La guerra tra Israele e Hamas del 2008 portò ad attacchi aerei e un’offensiva di terra nella Striscia di Gaza in risposta all’intensificarsi del lancio di razzi da parte di Hamas. L’intervento si concluse dopo tre settimane e con un bilancio di più di 1.100 morti tra i Palestinesi di Gaza e 13 tra gli Israeliani. Nel 2009 avrebbero dovuto svolgersi le
elezioni alla scadenza dei quattro anni di governo di Abbas dell’Autorità Nazionale Palestinese, ma dopo il conflitto le nuove elezioni vennero rimandate a tempo indefinito e i mandati prorogati: si temeva che Hamas avrebbe vinto le elezioni in tutti i territori palestinesi. Abbas, il leader in carica, venne riconosciuto dalla comunità internazionale, mentre Obama, divenuto Presidente negli Stati Uniti, chiese al primo ministro Netanyahu, inutilmente, di interrompere ogni estensione degli insediamenti nei territori palestinesi occupati; ma si trattava di un atteggiamento di facciata, perché nel febbraio del 2011 gli Stati Uniti posero il veto ad una risoluzione dell’ONU che chiedeva di condannare gli insediamenti illegali, in considerazione del fatto che la cui popolazione nel luglio del 2014 era cresciuta fino all’ammontare di 140.000 coloni ebrei in Cisgiordania e altri 200.000 a Gerusalemme Est.
Dopo lo stallo nel processo di pace, seguito al fallimento dell’ultimo round di negoziati diretti con Israele nel 2010, Abbas decise di cambiare tattica e cercare di ottenere un più ampio riconoscimento internazionale dello Stato di Palestina, così da mettere maggiore pressione su Israele. Il tentativo per la promozione di una risoluzione del Consiglio di sicurezza falli, perché gli Stati Uniti posero il veto alla sua approvazione, ma l’anno successivo venne accolta e votata da 138 paesi 9 contrari e 41 astenuti, riconoscendo la Palestina come i “entità” e “stato non membro” dell’ONU. Per tutta
risposta una nuova operazione militare venne lanciata da Israele con attacchi aerei contro Hamas nella Striscia di Gaza per una settimana nel novembre 2012; più di 100 palestinesi e 6 israeliani vennero uccisi. Mentre la guerra tra Gaza e Israele continua l’OLP e Israele trattano infruttuosamente; ciò spinse alla ricomposizione dei rapporti tra i palestinesi per la formazione di un governo di unità nazionale.
L’8 luglio 2014 sul fronte di Gaza inizia uno scontro che dura per 51 giorni, causando 2.136 morti ai palestinesi, la gran parte di bambini, e 69 israeliani nonché 11.000 feriti: un’ennesima risoluzione chiede la fine dell’occupazione, il ritorno ai confini del 1967 e la realizzazione dei due Stati ma non viene approvata. Bisognerà attendere la risoluzione
2334 del 23 dicembre 2016 perché venga ribadito che ogni soluzione del problema passa per la via negoziale e per la realizzazione dei due Stati. Il 4 maggio 2019 un fitto lancio di razzi, ad opera dell’ala militare di Hamas colpisce le cittadine limitrofe alla Striscia nel sud di Israele, durante le giornate delle festività religiose dello Shabb.
Ripercorrendo l’alternarsi di periodi di tregua e di attacchi delle due parti, sembrerebbe di poter concludere che dal 2005 ad oggi si è svolto un gioco delle parti del governo Netanyahu e dei palestinesi di Gaza nel quale ambedue i contendenti hanno trovato la loro convenienza, non senza farsi reciproci favori. Netanyahu ha potuto governare
ininterrottamente, accarezzando il suoi alleati sionisti integralisti, rappresentanti nel suo governo dai partiti religiosi e fondamentalisti, sostenendo la loro politica di espansione degli insediamenti in Cisgiordania, garantiti e vigilati dall’esercito che ha emanato provvedimenti di detenzione amministrativa senza processo, tutte le volte che lo ha ritenuto necessario, per bloccare le proteste contro espropriazioni di terre, demolizioni di case, vessazioni continue nei confronti dei palestinesi di Cisgiordania, peraltro esclusi dal poter accedere a lavori e professioni non approvati dall’autorità occupante, dovendosi limitare alla frequentazione di corsi di studio ritenuti non utili per l’economia israeliana. In tal modo l’Autorità Nazionale Palestinese ha continuato a discreditarsi, travolta dalla disonestà, dalle ruberie e dal progressivo invecchiamento della sua leadership, sempre più stanca. Sul fronte di Gaza Netanyahu ha messo a punto una politica di concessione di visti a lavoratori palestinesi di Gaza, funzionali all’economia di Israele, permettendo loro di accedere attraverso ben individuati valichi ogni giorno sul territorio israeliano per svolgervi le loro attività.
Ma si è spinto oltre, proponendosi e intercedendo con le autorità del Qatar, per il tramite degli Stati Uniti che nel paese hanno la loro più grande base del Medio Oriente, affinché concedessero ospitalità alla rappresentanza politica di Hamas, ricordando il ruolo svolto dal Qatar nell’ospitare le trattative degli USA con i talebani per il ritiro dall’Afghanistan.
Da parte sua il Qatar, in nome della Fratellanza Musulmana e della comune appartenenza al mondo araboislamico, della condivisione della lotta del popolo palestinese, con il consenso di Stati Uniti e Israele, si è pubblicamente notoriamente assunto il compito di finanziare l’amministrazione di Gaza, la quale di questi finanziamenti – dal suo punto di vista – ha fatto buon uso, iniziando la pianificazione dell’edificazione di una città fortificata, fatta di cunicoli a vari livelli sotto la città di Gaza, in modo che potesse fungere da base per contenere e preparare all’assalto di Israele le proprie milizie, nella convinzione che solo lo scontro militare poteva essere risolutivo per la questione palestinese.
Netanyahu e Israele, confidando nella tecnologia, hanno edificato intorno a Gaza una recinzione altamente tecnologica, gestita dall’intelligenza artificiale che ha fallito il proprio compito di protezione di fronte alla creatività, la primitività, la semplicità dei mezzi d’assalto utilizzati e alle modalità di guerra adottate, consentendo un’orribile strage che ha colto di sorpresa gli abitanti dei kibbutz posti sul confine e gli sprovveduti i giovani impegnati in una festa.
Tutto questo è stato possibile grazie al fatto Netanyahu è una funzione di Hamas e che Hamas è una funzione di Netanyahu. In altre parole, i due estremismi, quello israeliano fondamentalista e quello palestinese integralista si sostengono a vicenda, avendo scelto la guerra piuttosto che il dialogo, la pace e la convivenza. Non è un caso che
l’operazione di attacco da parte di Hamas sia scattata quando stavano per giungere a conclusione i rapporti stabiliti sulla base dei colloqui di Abramo che puntano alle compatibilità e agli interessi economici che uniscono Israele, gli Stati arabi e le rispettive oligarchie in comuni affari.
Tutto questo avrebbe dovuto avvenire cancellando i palestinesi, immolati sugli altari del profitto: contro questo progetto si è scatenato uno dei più infami crimini della storia, ai quali ha fatto seguito una criminale carneficina della popolazione di Gaza che ancora continua e chissà per quanto.
Ma c’è di più, quel che è avvenuto ha pervertito le coscienze sia della popolazione israeliana che di quella palestinese, costringendo la prima ad uccidere per difendersi e scatenando la violenza soprattutto su quella parte di essa che ha espresso posizioni pacifiste, richieste di pace e convivenza e ha fatto della popolazione palestinese, un ostaggio del fondamentalismo più ottuso e becero che il mondo islamico e le popolazioni arabe conoscano, ricacciandole in un periodo oscuro nella loro storia e della loro evoluzione.
Non potrà mai essere perdonato a Israele il crimine di aver fatto nascere e alimentato nella culla il fondamentalismo islamico, trasformando una lotta di liberazione nazionale di un popolo, in uno scontro tra religioni, tra appartenenze etniche, tra civiltà e tradizioni culturali, pur di non riconoscerne l’identità e di strappargli la terra e ai palestinesi l’essere caduti nella trappola, divenendo agli occhi dell’occidente la rappresentazione plastica e visibile del degrado di ogni umanità.

Il trasferimento delle esperienze libertarie al popolo del Rojava

Ma la regione mediorientale non è solo uno dei teatri della guerra mondiale a pezzetti che sconvolge il mondo: è anche il luogo di sperimentazione sociale e di speranza, dove altri popoli cercano una soluzione che consenta la convivenza fra componenti diverse dalla società, sotto il profilo religioso, culturale, politico, economico, di genere, dando vita ad un nuovo tipo di relazioni sociali collaborative. Ci riferiamo a quanto sta avvenendo ad opera di una parte significativa e consistente di un popolo disperso, perseguitato, distribuito in una regione che attraversa i confini di Turchia, Siria, Iran e Iraq, che alla caduta dell’impero ottomano si vide negata l’identità, soggiogato da poteri nazionali di altre etnie che si spartirono il suo territorio.
Dopo che venne portato a termine, durante la Prima guerra mondiale il genocidio delle popolazioni armene dell’Anatolia al fine di attuare il progetto pan turco della grande Turchia fu proprio Kemal Pascià a pretendere e ottenere alla Conferenza di Losanna la cancellazione di qualsiasi entità politica curda e la distribuzione del Kurdistan tra i quattro Stati limitrofi. Venne così realizzato il totale annientamento dell’autonomia e dell’autodeterminazione di ogni popolazione o etnia che non fosse turca, in modo che vi fosse una totale omogeneità etnica delle popolazioni per assicurare il pieno controllo del territorio dalle coste mediterranee all’Asia centrale, fin dove si estende la presenza di popolazioni turche e turcomanne, in modo da “rifondare” l’impero.
ll Kurdistan indica una area geografica che si estende per 392.000 km², di cui 190.000 km² in Turchia, 125.000 km² in Iran, 65.000 km² in Iraq, e 12.000 km² in Siria; è suddivisa in quattro regioni geo-politiche tra Turchia, Iraq, Siria e Iran, È abitato, in prevalenza, da 40 milioni di curdi, di cui 25 milioni in Turchia, (stimati 40-50 milioni circa nel mondo, a causa dei tanti profughi e perseguitati politici che hanno dovuto fuggire per non essere uccisi), Nel Kurdistan vivono attualmente anche arabi, assiri, armeni, azeri, ebrei, osseti, persiani, turchi e turcomanni. Le lingue parlate dai curdi sono
in genere quelle imposte dagli Stati che li governano, mentre l’uso del curdo è ostacolato in tutti i modi.
Eppure, quella curda è una cultura inclusiva: il curdo è scritto in vari alfabeti (arabo, latino, cirillico). Nel Kurdistan sono parlate, anche da piccole minoranze, varie altre lingue di ceppo turco, semitico e indo-europeo. Anche l’appartenenza religiosa è composita e convivono appartenenti a molti culti tra loro diversi. Geograficamente il Kurdistan è un vasto altopiano situato nella parte settentrionale e nord-orientale della Mesopotamia. Il suo valore economico è strategico è assoluto, poiché, includendo l’alto bacino dell’Eufrate, del Tigri, il lago di Van e quello di Urmia, chi controlla il Kurdistan controlla di fatto le risorse idriche della regione, i suoi terreni fertili e adatti per i cereali e
l’allevamento. Non solo, ma nel territorio del Kurdistan sono localizzati ricchi giacimenti di petrolio tra i più consistenti del mondo, il che genera intorno a esso forti interessi economici non solo da parte degli Stati che ne controllano parte del territorio, ma anche da parte del Governo degli Stati Uniti che, come è noto, ha invaso l’Iraq e intende mantenere il controllo sul petrolio prodotto nella regione.
Per comprendere l’insieme della questione curda bisogna analizzare la situazione paese per paese, perché ogni Stato gestisce il problema in un modo diverso, anche se il comun denominatore è costituito dalla repressione di ogni aspirazione alla libertà e all’indipendenza. I curdi stanziati in Iran (in curdo la regione prende il nome di Rojhelat) sono stimati da 8 a 10 milioni. L’area ha come città principale Mahabad e comprende cinque province, situate tra i monti Ararat a nord e i monti Zagros a sud. Alcuni dei curdi iraniani sono musulmani sciiti (i curdi. i Feyli), gli altri sono musulmani sunniti, cristiani, ebrei e seguaci di religioni più antiche come lo yarsanismo e lo yazidismo. Tutti questi culti sono ovviamente discriminati nell’Iran, dominato dagli sciiti. Una vasta comunità di curdi vive a Teheran e altre comunità sono disseminate nel paese, dove i curdi sono stati deportati nel XVII secolo, in quanto sunniti, durante la guerra con l’Impero Ottomano, dalla dinastia persiana sciita dei Safawidi. La forte repressione del regime ha causato e continua a causare una forte emigrazione verso l’estero e verso il Kurdistan iracheno. I curdi iraniani sono in prima fila nelle lotte del popolo e delle donne iraniane per affrancarsi dalla dittatura komeinista e sono di etnia curda molte delle giovani donne cadute vittima della repressione della polizia morale del regime.
Il Kurdistan iracheno costituisce un’entità autonoma all’interno dell’Iraq, riconosciuta formalmente nella Costituzione del 2005. Composto da 4 governatorati con capitale Erbil, Il Kurdistan iracheno rivendica come propria capitale Kirkuk. Duramente represso perfino con l’uso dei gas tossici sotto il governo di Saddam Hussein, a partire dal
2014 i curdi iracheni respinsero i jihadisti di Daesh insieme ai curdi siriani, acquisendo il controllo della città di Kirkuk e della piana di Sinjar, e dando asilo a oltre 200.000 profughi appartenenti alle minoranze cristiane irachene. Il 7 giugno 2017 il referendum per l’indipendenza del Kurdistan, indetto unilateralmente ha sancito l’indipendenza (a favore del sì, votò il 93% degli elettori).
Iraq, Turchia, Iran e Stati Uniti si dichiararono contrari al risultato referendario, perché vi videro il primo nucleo di uno Stato unitario del Kurdistan e per mantenere il controllo sulle estrazioni petrolifere è loro interesse impedire l’unità l’indipendenza del popolo curdo. Perciò il governo federale iracheno occupò militarmente i territori contesi e isolò
completamente la regione, ma la Turchia fece di più e occupò la parte settentrionale del Kurdistan iracheno, installando numerose basi militari: l’intento dichiarato era la lotta al PKK, l’occupazione della regione montuosa di Kandi come caposaldo strategico dal quale bombardare i campi dei profughi curdi.
La Turchia ha proibito l’uso della lingua curda e i cognomi curdi; già all’indomani della nascita della Repubblica turca e la stessa parola «curdo» è stata vietata. Ciò malgrado oggi i curdi in Turchia ammontano a 20 milioni, pari a un quinto della popolazione del paese e costituiscono circa la metà di tutti i curdi del Medio Oriente.
Benché fosse già operativo nelle lotte dal 1971, nel 1978 venne costituito il Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK). che intraprese la lotta armata per l’indipendenza. A livello parlamentare i curdi vennero rappresentati da partiti politici di sinistra che non si richiamavano esplicitamente all’etnia nel nome, come il Partito della Società Democratica (DTP) il quale, alle elezioni legislative del 2007, ottenne per la prima volta una ventina di deputati, contro i 45 del maggioritario Partito della Giustizia e dello Sviluppo (AKP), il Partito di Erdogan. I sindaci e i deputati curdi vennero duramente contrastati dal partito- Stato al potere, dagli estremisti turchi, dalla stampa e dall’esercito e l’11 dicembre 2009 la Corte costituzionale turca mise fuori legge il partito filo curdo per asseriti legami con il PKK, dimostrando così l’impossibilità di rappresentare nel sistema politico del paese i diritti e gli interessi dei curdi. La componente curda della Turchia, nel 2008 costituì il Partito della pace e della democrazia (BDP) con analoghi obiettivi rispetto al DTP: soluzione della questione curda, diritti alle donne, ecologia e democrazia, ma subì anch’esso la dura opposizione del regime, anche dopo essersi trasformato in Partito Democratico dei Popoli (HDP).
Intanto, il Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK), dopo una lunga fase nella quale ha ingaggiato la lotta armata, nel 2001 la abbandona ufficialmente, trasformandosi nel partito politico e costituisce il “Congresso per la libertà e la democrazia nel Kurdistan”, e due anni dopo dichiara di abbandonare il marxismo leninismo, aderendo al confederalismo democratico seguendo le indicazioni del leader del PKK Öcalan, conquistato dalle idee del socialista libertario Murray Bookchin.
Ma è la guerra civile di Siria a segnare la svolta, imprimendo nuovo slancio alla lotta dei curdi. Le città di Kobanê (al confine con la Turchia), Afrin e Hasaka, abitate da curdi, vengono difese dall’attacco jihadista dalle milizie curde che, proprio quando Daesh sembrava invincibile, fermano lo Stato islamico e conquistano una fascia di territorio nel nord della Siria, il “Kurdistan siriano”, e costituiscono una amministrazione autonoma, che gestisce le questioni «politiche, militari, economiche e di sicurezza nella regione e in Siria». Questa regione, chiamata Rojava è da allora governata dalle “Unità di protezione del popolo” (YPG), braccio armato del Partito dell’Unione Democratica (PYD), corrispettivo siriano del PKK.
I miliziani curdi delle YPG mobilitano già nel 2015 circa 50.000 peshmerga (letteralmente: combattenti fino alla morte) di cui il 40% donne, (il che costituisce un’assoluta novità), appoggiati da volontari provenienti da tutto il mondo, tra i quali
ricordiamo il compagno Lorenzo Orsetti, morto in combattimento il 18 marzo 2019, ed è sostenuto nella lotta da altri libertari.
Nel marzo 2016, alla conferenza di Rmeilan i curdi siriani proclamano la federazione dei tre cantoni dei quali avevano preso il controllo, combattendo contro Daesh, Jazira, Kobanê e Afrin, malgrado l’opposizione di Siria, USA e Turchia. Con la conquista da parte dei curdi della città di Manbij nel bacino dell’Eufrate la Turchia, per impedire ai curdi di stabilire una continuità territoriale tra i due cantoni a est dell’Eufrate con il terzo cantone di Afrin, lancia l’operazione Eufrate Shield, entrando militarmente sul suolo siriano e occupa il distretto di al-Bab, bloccando i curdi. Nel gennaio 2018, con l’operazione Olive Branch, l’esercito turco occupa il cantone curdo di Afrin, malgrado si trovi in territorio siriano.
Nel gennaio del 2019, cannoneggiando e bombardando i villaggi e comunità civili e mietendo vittime in un campo di 12mila rifugiati sotto assedio, i turchi riprendono l’iniziativa con raid aerei su tutto il Rojava, colpendo una ventina di comunità. Nel frattempo, a Washington, Presidente e Generali USA si attribuiscono il merito di combattere i resti di Daesh che i loro alleati turchi proteggono in una enclave creata in territorio siriano, facendoli sopravvivere in campi fatiscenti in condizioni sub umane, ma allevandoli come assassini, pronti a colpire appena il mandante turco apre le
porte del canile e li spinge a colpire le popolazioni curde. Il bilancio è pesante e i morti tanti, e fra questi molte donne e bambini non combattenti, che vanno ad aggiungersi alle 121 vittime dell’assalto di Daesh alla prigione di Sina’a, ad Hasakah dove i curdi detengono i combattenti islamisti catturati nei combattimenti che nessuno vuole.
Turchi e statunitensi continuano a alimentare il genocidio dei curdi. I turchi perché devono assolutamente impedire l’unità e l’indipendenza del Kurdistan; vogliono sfruttare le risorse economiche curde, (estrazione del petrolio e controllo delle acque) e soprattutto perché vogliono cancellare l’esperimento istituzionale curdo che costituisce la negazione delle tradizioni e dei valori islamisti dei Fratelli Musulmani del partito di Erdoğan, dal momento che i curdi praticano la laicità della società, l’eguaglianza tra uomini e donne, la pari dignità tra i generi, tanto che ogni carica è ricoperta da un uomo e da una dona che condividono l’incarico. I curdi sono la dimostrazione che un’altra società, un altro mondo è possibile e pertanto vanno annientati: incaricati del compito sono i Fratelli Musulmani turchi sostenitori di Hamas, a loro volta integralisti islamici.
L’esperimento curdo, che rivisita quello dei kibbutz, correggendone storture e soprattutto impostazione confessionale va nascosto e avversato perché disturba di interessi strategici di molti paesi, i loro interessi economici e soprattutto dimostra che un’alternativa, se desiderata, è possibile.

Novembre 2023.

Unione dei Comunisti Anarchici d’Italia

[1] Bakunin era stato duramente attaccato dal Volkstaat, organo del Partito della Democrazia Socialista tedesca, il cui redattore-capo era Wilhelm Liebknecht, e in seguito anche dall’organo della Federazione ginevrina, L’Egalité (che era anche l’organo della Federazione romanda). Bakunin era stato accusato di mirare a una “dittatura personale” e quindi si sentiva ferito ed esacerbato. M. Bakunin, Ai compagni della Federazione delle sessioni internazionali del Giura, Opere complete, Edizioni della rivista “Anarchismo”, Catania, 1977, vol. III, pp. 21 sgg.                                                  [2] La letteratura sul caso Dreyfus è molto ampia e facilmente reperibile e pertanto non riteniamo di doverne dare conto. Lo stesso dicasi a proposito del “Libro dei 7 Savi di Sion”, creazione del servizio segreto zarista.                                                                   [3] Si dimentica la presenza di un forte movimento contadino ed operaio e di un diffuso movimento cooperativo in Bulgaria egemonizzato dall’anarchismo; di sindacati e associazioni operaie nel Europa centrale, nei territori dell’attuale Bielorussia, nel
Donbass ucraino, nella Cechia, nei Paesi baltici, in Svezia, solo per citare qualche esempio.. E tutto questo mentre cresceva un forte movimento sindacale non solo in Italia, ma anche in Spagna, Francia, Germania e negli Stati Uniti, dove accanto all’ AFL CIO, dal 1905 operava l’Industrial Wolkers of the Word (I.W.W.) che organizzava i lavoratori più radicali e rivoluzionari.
[4] Impossibile segnalare le migliaia di anarchici di cultura ebraica appartenenti alle diverse tendenze dell’anarchismo. Il questa sede ci limitiamo a segnalare tra i più conosciuti: Emma Goldman, Alexander Berman, Gustav Landauer, Rudolf Roker. Cfr.: Archivio G. Pinelli, bollettino n. 15, Speciale anarchici ed ebrei, aprile 2000,
https://centrostudilibertari.it/sites/default/files/materiali/bollettino_15.pdf                          [5] Il 3 luglio 1940 il ministero degli Esteri del Reich presentò la sua proposta: il nuovo vice-responsabile agli affari ebraici del ministero, Franz Rademacher (alle dipendenze di Martin Luther), propose in un documento la deportazione di tutti gli ebrei in Madagascar dove avrebbero vissuto sotto sorveglianza tedesca come garanzia in caso di complicazioni con la comunità ebraica americana. Il “piano Madagascar”, che riprendeva vecchie ipotesi di deportazione sull’isola del XX secolo e degli anni Trenta di
origine polacca e francese, sembrò realizzabile, in vista della vittoria finale ritenuta imminente sulla Gran Bretagna, e venne divulgato a livello diplomatico.
Si discusse di cessione del Madagascar da parte della Francia alla Germania come “mandato” e ci furono colloqui con italiani e rumeni. Adolf Eichmann parlò del trasferimento di quattro milioni di ebrei in un paese non precisato, e anche Hans Frank parlò il 12 luglio 1940 di intera “tribù ebraica” evacuata in Madagascar. Heydrich convenne sulla necessità di una soluzione territoriale e anche Hitler in agosto parlò di completa “evacuazione” del popolo ebraico dopo la guerra.                                             [6] Una parola ebraica che indica «assemblea» (come anche «raccolta», «unione», «raggruppamento» di persone) nel senso di unione consapevole, di condivisione di reciprocità, di responsabilità e di un’idea diversa di comunità, quest’ultima non più derivante dall’esclusivo nascere e crescere in un ambito delimitato dalla sola famiglia, e quindi dal gruppo territoriale di appartenenza, ma piuttosto da un’inedita coscienza di sé e degli altri. Il “fare insieme”, il produrre, il discutere, il decidere, sono l’involucro non solo idealistico e morale ma soprattutto politico dell’individuo.
[7] . La terza Aliya, tra il 1919 e il 1923, comportò l’ingresso nel paese di circa 35.000 ebrei polacchi e russi, perlopiù legati a tre movimenti politici di natura sionista. Il primo di essi era l’Hechalutz («il pioniere») di Joseph Trumpeldor (1880-1920), pioniere sionista, attivo nella formazione della Legione ebraica dell’esercito britannico, morto a Tel Hay durante un attacco arabo. Hechalutz era di fatto il nome assunto da alcuni gruppi federativi di giovani ebrei della Diaspora che, dal 1880, iniziarono a preparare i loro membri all’immigrazione in Eretz Israel educandoli al lavoro manuale, abituandoli alla vita comunitaria e insegnandogli l’ebraico. Dopo la Prima guerra mondiale la World Zionist Organization ne finanziò le attività..
[8] In questa occasione il movimento sionista considerò il Mandato britannico sulla Palestina il primo passo per la futura realizzazione dello Stato ebraico. Venne costituita la Hagana, una formazione paramilitare clandestina che si assunse il compito di difendere gli insediamenti ebraici in Palestina. Venne fondato il Keren Ha Yesod, il fondo che raccoglieva i contributi in tutto il mondo per la costituzione dello Stato ebraico. Venne deciso che la lingua ebraica, codificata da Eliezer Ben Yehuda nel 1890, sarebbe stata la lingua ufficiale del nuovo Stato. Nel 1922 la Società delle Nazioni confermò il Mandato britannico sulla Palestina.                                                               [9] Se queste sono le originarie basi costitutive dei Kibbutz, la loro evoluzione storica meriterebbe una trattazione a sé. Al presente, buona parte di essi si è già da diverso tempo convertita in qualcosa di molto diverso rispetto a ciò che erano in origine. Transitati attraverso le trasformazioni che hanno interessato lo Stato d’Israele, il profondo cambiamento economico che ha coinvolto l’intera società, tra gli anni Settanta ed Ottanta, è stato decisivo nell’accelerare l’involuzione dell’esperienza.                        [10] La storia del terrorismo sionista è lunga e complessa e ha conosciuto diverse fasi. Non è questa la sede nella quale ricostruirla, poiché essa presenta caratteri particolari e specifici che prescindono dallo scopo di questo documento se non per il fatto che attesta che quando un popolo è sottoposto ad un attacco che mette in discussione la sua stessa esistenza ricorre anche al terrorismo per difendersi e, così facendo, finisce per scavare un solco di odio inestinguibile con l’altra parte, come oggi sta avvenendo ad opera delle organizzazioni terroristiche palestinesi.                                                 [11] Nel 1960, gli israeliani residenti erano 2.114.020 e 10 anni dopo hanno superato i 3 milioni. Tra il 1970 e il 1992 la crescita demografica ha subìto un rallentamento. Ma dal 1991 la popolazione ha ripreso a salire con un ritmo di circa 200 mila individui all’anno. La maggior parte degli immigrati del 2022 sono giovani: il 27% ha un’età compresa tra i 18 e i 35 anni, che, secondo l’Agenzia Ebraica, “include professionisti in settori come medicina, ingegneria e istruzione”. Il 24% degli olim ha un’età inferiore ai 18 anni, il 22% ha tra i 36 e i 50 anni, il 14% tra i 51 e i 64 anni e il 13% ha più di 65 anni.