TRUMP E I 27 NANI

Le dimensioni della vittoria di Trump alle elezioni statunitensi consente al nuovo presidente di superare ogni ostacolo costituito dai bilanciamenti che è il sistema istituzionale del paese prevede. Infatti gode del pieno controllo della maggioranza della Camera e del Senato, nonché di quello della Corte Suprema e dell’intero apparato di governo del paese. Medita, anche utilizzando il suo mentore Musk come tagliatore di teste, di liberarsi di tutti quei funzionari governativi non allineati alle posizioni Maga in modo da poter realizzare le sue promesse elettorali.
Concordiamo con le analisi del voto rese pubbliche da Benny Sanders e da Alexandria Ocasio-Cortez, che hanno individuato le cause della sconfitta dei Democratici nella eccessiva se non esclusiva attenzione posta dalla loro candidata ai problemi connessi alla tutela dei diritti civili, appiattendosi sulle problematiche della cultura woke senza tenere conto delle condizioni di disagio materiale reale nella quale sono costretti a vivere larga parte delle popolazioni che abitano nei piccoli centri, nelle periferie e nelle sterminate campagne del paese.
La politica economica delle amministrazioni democratiche ha curato i fattori macroeconomici dell’economia, illudendosi che la crescita del PIL, dei profitti e dei dividenti, fosse sufficiente a fornire agli elettori una valutazione positiva della loro specifica e personale situazione economica, sottovalutando invece gli effetti devastanti conseguenti al decentramento produttivo e alla deindustrializzazione di molte aree tradizionalmente operaie del paese che hanno visto le aziende trasferire la produzione verso localizzazioni più convenienti, per consentire alle aziende alti profitti.
La caduta dei redditi e la contemporanea crescita dell’inflazione ha pesato sulle condizioni materiali di vita della popolazione che si è sentita compresa dalla demagogica politica trumpiana che prometteva di porre prioritariamente rimedio alla crescita inarrestabile dei prezzi e alla contemporanea diminuzione del lavoro, non disgiunta dà un’accresciuta insicurezza, dovuta ad una emigrazione di massa incontrollata che, creando un mercato del lavoro clandestino e parallelo, ha contribuito a deprimere i salari e le capacità contrattuali dei lavoratori.
Il consumatore statunitense si è trovato assediato ed invaso da prodotti made in China e, di recente, da prodotti in Messico, appena al di là della frontiera, nelle aree economiche speciali appositamente costituite e tutto questo mentre la stessa Cina detiene larga parte del debito pubblico degli Stati Uniti dei quali alimenta l’economia al fine di stimolarne le capacità di assorbimento del mercato di merci cinesi.
Ora il paese dovrà soccombere alla mannaia trumpiana, mentre flebili speranze di una attenuazione della morsa repressiva potrebbero aversi solo tra due anni, con le elezioni di middle term. Il vento della reazione e della repressione dei diritti civili, proveniente dagli Stati Uniti, rischia intanto di investire tutto il mondo occidentale, mentre si accentueranno i fenomeni di perversione delle istituzioni democratiche liberali dei paesi dell’occidente che si evolveranno verso forme di democratura, parallelamente al prevalere di forze politiche di destra, di orientamento populista, reazionario e conservatore. Un segnale emblematico al riguardo viene dalla soddisfazione per l’elezione di Trump espressa non solo da Orban, ma anche da Milei, da Bolsonaro e dalla stessa Meloni, mentre nuovi politici come Merz aspirano ad accedere nella stanza dei bottoni.
Appartiene per intero al partito democratico e alle altre forze politiche che operano negli Stati Uniti, trovare la strada per una profonda riflessione autocritica e per creare le condizioni di un rilancio per una diversa fase politica che tenga conto degli errori commessi e recuperi un rapporto costruttivo con i ceti popolari e la classe operaia del paese, in modo da rilanciare una gestione democratica delle istituzioni.
Occorre rendersi conto che il tempo di politiche centriste è finito e che bisogna ritornare all’analisi e allo scontro di classe, per recuperare le dimensioni di vita di una società almeno tendenzialmente di liberi ed eguali, più giusta e capace di creare le condizioni materiali per un’effettiva tutela dei diritti, per la giustizia sociale, per un welfare efficiente e generalizzato, nella consapevolezza che senza la realizzazione di una tendenziale uguaglianza economica e quantomeno di pari opportunità, non vi sono tutele possibili dei diritti civili.
Dal successo di questi tentativi e di questi sforzi, dipenderà in larga parte il futuro dell’occidente, ma su questo poco possono incidere i popoli europei che si trovano a subire le conseguenze della politica internazionale adottata dagli Stati Uniti, in coerenza con le scelte di politica interna appena descritte.

I 27 nani

A fronte delle politiche che Trump adotterà nei confronti dell’Europa, gli Stati facenti parte dell’Unione europea devono decidere se vogliono rapportarsi agli Stati Uniti come 27 nani, oppure desiderano fare fronte comune, nella consapevolezza di condividere gli stessi interessi. Trump ha promesso di adottare una politica dei dazi molto severa, a
tutela delle esportazioni statunitensi, di condurre una politica energetica aggressiva che non tiene conto dei problemi climatici, di esigere che gli europei provvedano a pagare i costi della loro difesa, di dedicare investimenti e massima cura nello sviluppo tecnologico degli Stati Uniti, in modo da avere il pieno controllo dell’innovazione. Soprattutto a riguardo di questo ultimo punto la scelta di affiancare alla Presidenza Elon Musk è emblematica degli orientamenti dell’amministrazione statunitense alla luce del rapporto simbiotico che lega il neo Presidente all’imprenditore sudafricano.
La leadership attuale dell’Unione europea è del tutto incapace di reggere il confronto con questa situazione. La Presidente della Commissione è il notoriamente priva di qualsiasi carisma, spessore politico e capacità, si distingue per inconsistenza ed è affiancata da una Commissione debolissima e priva di leadership in ognuno degli incarichi attribuiti in rappresentanza dell’Unione. L’Unione europea è assente in politica estera come nelle politiche economiche ed appare coinvolta in un dibattito che utilizza il rapporto Draghi come punto di riferimento, affiancandolo al rapporto Letta,
dimenticando che soprattutto Draghi è e rimane l’uomo della Goldman Sachs, il venditore all’incanto dell’apparato industriale italiano di proprietà dello Stato, distribuito come uno spezzatino succulento al miglior offerente nell’asta organizzata agli inizi degli anni ’90, affittando per conto della società per la quale lavorava il Britannia. Non è un caso che questo rapporto sia coerentemente con le scelte degli Stati Uniti, suggerisca una politica del riarmo europeo come cardine della visione strategica dell’Europa, mentre lascia il continente nelle mani della politica energetica degli Stati Uniti, in un rapporto di sudditanza con l’apparato economico industriale statunitense, coltiva e cura come bene comune la contrapposizione frontale e la competizione con la Russia.
Se l’Europa vuole recuperare spazio per i propri interessi e per una politica che vada a vantaggio delle popolazioni che la compongono occorre che prenda atto che il primo passo da compiere è quello di prendere le distanze dal capitalismo economico e finanziario anglosassone che ha dimostrato nei fatti di essere il suo più acerrimo nemico e competitors. Occorre che l’Europa prenda atto dell’esistenza di un mondo multipolare e consapevolezza del fatto che essa costituisce uno di questi poli, del tutto alla pari con gli altri competitors con i quali stabilisce di volta in volta accordi di collaborazione o di competizione. Ciò significa sganciarsi il più possibile dall’area del dollaro, fare dell’euro una moneta ancora più indipendente ed autonoma, stabilire relazioni positive e di cooperazione con i BRICS, aiutando i loro sforzi di darsi una moneta comune e comunque offrendo in alternativa garanzie perché possano utilizzare l’euro per il loro bisogni.
Perché una politica di questo tipo possa trovare spazio è essenziale per l’Europa sganciarsi dalla guerra ucraina e procedere ad una fase di riorganizzazione e di maggiore amalgama della compagine dei paesi che ne fanno parte in modo da trovare i meccanismi decisionali più idonei per superare la regola dell’unanimità, attraverso la realizzazione di reali convergenze di interessi che non penalizzino alcuno degli interlocutori, permettendo di superare i nazionalismi e gli interessi particolari di alcuni degli Stati che ne fanno parte.
Se la prospettiva nella quale muoversi è quella appena descritta il processo di ampliamento dell’Unione europea deve essere quanto mai prudente e graduale e non può prescindere da un’attenta verifica dell’esistenza delle condizioni che consentano agli Stati che chiedono l’adesione l’ingresso nell’Unione, senza penalizzare l’aequis comunitario. Al tempo stesso le regole comuni vanno adottate e devono consentire il superamento dei differenti regimi fiscali e finanziari che attualmente mettono in concorrenza alcuni Stati dell’Europa comunitaria con altri, creando un dumping fiscale
insopportabile per i comportamenti virtuosi dei diversi paesi.
L’Unione europea non può prescindere dall’adottare come prioritaria una politica della pace, promuovendo la composizione dei conflitti, a cominciare da quello nel Medio Oriente, a proposito del quale, superando ogni senso di colpa dovuto alle persecuzioni razziali nei confronti del popolo ebraico, deve invece adottare nei confronti del governo
sionista di Israele una politica di sanzioni radicale e rigorosa, finalizzata ad imporre la pacifica convivenza delle popolazioni sul territorio della Palestina.
Dotarsi di un’economia solida e vitale, realmente paritaria, che riequilibri i rapporti fra i diversi territori dell’Unione è la migliore garanzia di forza, ben più di quanto possa fare una politica del riarmo così massiccia da assorbire enormi risorse e che inevitabilmente sfocia nel possibile conflitto. Le politiche di deterrenza fino ad ora praticate non hanno garantito rispetto all’esplosione di conflitti sanguinosi, come tragicamente dimostrano sia la guerra d’Ucraina che quanto sta avvenendo oggi nel Medio Oriente. Basta guardare alla storia della NATO e i suoi ripetuti interventi, anche al di fuori dell’area di sua pertinenza, per rendersi conto di come questa alleanza apparentemente difensiva sia stata in realtà lo strumento di coinvolgimento nella guerra, in nome e per conto della potenza egemone statunitense. Nell’interesse dell’Europa è bene che tutto questo finisca e che si promuova una cultura di pace.

Una ultima polpetta avvelenata

Prima di abbandonare la scena un Biden, sempre più rabbioso nella sua senile follia, ha autorizzato l’Ucraina all’uso dei missili forniti dagli Stati Uniti per colpire il territorio russo, consigliando di limitarne la portata intorno all’area di Kurk nel tentativo di rafforzare la fallimentare iniziativa ucraina di invasione del territorio russo. Si tratterebbe di una risposta alla presenza di truppe della Nord Corea che tuttavia nessuno ha visto fino ad ora in combattimento.
In realtà la scelta risponde alla richiesta di Zelenschy di provare a puntellare un errore strategico che lo ha spinto a impegnare componenti di élite del suo esercito nell’avventura russa, con il risultato di indebolire ulteriormente la tenuta del fronte sul Dombas. Inoltre, dal punto di vista strategico, l’uso dei missili non aggiunge nulla alle attuali capacità ucraine di colpire in profondità il territorio russo, come in effetti sta già avvenendo con i droni.. Ne consegue il valore meramente strumentale dal punto di vista politico di questa scelta che ha il solo effetto di far crescere la tensione fra le parti, al fine di pregiudicare e rendere comunque più difficoltosa ogni trattativa di pace e di composizione del conflitto.

G.C.