Il questuante e il dittatore

A due anni dallo scoppio della guerra in Ucraina è necessario provare a fare il punto su quanto sta avvenendo anche perché con il passare del tempo le ragioni degli uni degli altri sembrano oscurarsi e tutto si confonde e si trasforma nella cronaca di una guerra terribile che finora ha prodotto – al di là di quanto affermano gli stati maggiori dell’una e dell’altra parte – più di un milione di morti e devastato non solo il paese invaso, ma anche quello aggressore e l’intera Europa, sconvolgendo i rapporti geopolitici tra l’Occidente e la Russia.
Nel 2019 l’elezione di Zelensky alla Presidenza della Repubblica sembrava aprire la strada ad un’era di pace possibile; le sue origini ebraiche sembravano porlo fuori dalla contesa, tra ortodossi legati al Patriarcato di Costantinopoli.
e ortodossi legati al Patriarcato di Mosca, come era avvenuto per i Presidenti della Repubblica che lo avevano preceduto.[1] I negoziati di Minsk si trascinavano, ma sembrava che la contesa relativa alla Crimea e alle province del Donbass potesse concludersi sulla base di un negoziato che, modificando in senso federale la struttura dello Stato ucraino, avrebbe consentito la desiderata autonomia di alcuni territori e posto fine al conflitto.                                                                                                                                  In realtà gli equilibri fra i diversi attori sul campo erano già stati rotti da ambedue le parti, da un lato con l’invasione della Crimea e l’insurrezione delle province orientali ucraine e dall’altro con la Brexit che, ponendo fine alla collaborazione della Russia con l’Europa, riapriva la competizione tra le diverse forze che operano sul continente. Come è noto a gettare il dado è stato Putin, il quale ha progettato e messo in atto una criminale, folle e impreparata aggressione nei confronti dell’Ucraina, pensando ad una operazione speciale, credendo di potersi comportare come la NATO nella ex Jugoslavia, e non rendendosi conto che ben altre forze erano entrate in campo e che il progetto di ristrutturazione
dell’ordine mondiale era già in corso da tempo.

Nostalgie imperiali

Incapaci di pensare ad un futuro di pace e di cooperazione tutti gli attori in campo pensavano al passato, sognando di ripristinare gli imperi: Putin di ricostruire la Russia imperiale o almeno quella sovietica, forte del sostegno del Patriarca Kyrill, nuovo ideologo del rinato impero; il Patriarcato di Costantinopoli di diventare l’interlocutore del nuovo impero d’occidente con capitale di Bruxelles, in rappresentanza dell’ecumene ortodossa, rinfoltendo con l’ingresso degli ucraini sotto la sua giurisdizione, il numero e la consistenza dell’ortodossia d’occidente; gli Stati uniti per rinsaldare la loro traballante leadership: la Gran Bretagna di ritrovare l’impero, riunendo le membra sparse delle ex colonie britanniche, per dar vita a un Commonwealth rivisitato, come condizione per puntellare una sua possibile dissoluzione e nella speranza di egemonizzare la partnership nord Atlantica, guidando un’aggregazione anglosassone. Il progetto trovava consensi nelle
anche nelle aspirazioni della Turchia di ricostruire il suo impero, mentre l’Europa sembrava ancora preda del suo sogno di costruzione degli Stati Uniti d’Europa.
La distruzione della lunga colonna di carri armati russi che si dirigeva verso Kiev, nell’illusione di farla cadere e veniva bloccata e costretta a ritirarsi dai droni ucraini, era stata di fatto preannunciata dalla chiusura anticipata, prima che fosse inaugurato ed entrasse in funzione, del Nord Stream 2 che, fornendo energia a basso costo all’Europa continentale, era il solo antidoto al conflitto che si stava preparando, in quanto creava un legame economico formidabile tra gli interessi energetici dell’Europa e la Russia e costituiva l’asse sul quale si fondava la politica green della Commissione europea,
che all’atto del suo insediamento, aveva scommesso su un lungo periodo di energia a basso costo per prepararsi a mettere in atto una trasformazione della struttura economica del continente che avrebbe conferito all’area europea caratteristiche e dimensioni competitive rispetto all’economia del nord Atlantico, della Cina e di quella dei paesi emergenti.
La guerra ucraina ha posto le premesse per cancellare il sogno green dell’Europa: ce ne accorgiamo in questi giorni con il lancio del programma politico della nuova Commissione europea indotta a trasformare l’economia europea in economia di guerra e a vedere solo nel riarmo la strada possibile per un futuro sviluppo della coesione in Europa.

L’operazione speciale

Una volta lanciata la cosiddetta “operazione speciale” Putin ha firmato due decreti di parziale.
Disponendo di 2,2 milioni di arruolati, ne ha mobilitati 1.200.000 e ha comunque pronti altri 880 mila riservisti.
Combattere in Ucraina conviene economicamente: un soldato russo guadagna in media 2.135 euro al mese, contro i 560 di un professore universitario. Se il soldato muore alla famiglia arriva l’equivalente di 55.000 dollari (32.500 in caso di ferimento grave); malgrado ciò non si sa con esattezza quanti russi siano fuggiti all’estero per evitare l’arruolamento: il
Governo parla di 155 mila renitenti al reclutamento, ma lo scorso maggio, secondo il governo inglese erano 1,3 milioni.
Chi scappa va in Georgia, Armenia, Serbia, prima della chiusura del confine in Finlandia e ora dei paesi dove non occorre il visto. Il Kazakistan, dopo una prima invasione di disertori, ha ridotto i permessi. La Ue ha ricevuto 17 mila richieste d’asilo politico, ma ne ha accettati solo duemila. Fino al 17 marzo, quando verrà rieletto Presidente per la quinta volta, Putin eviterà nuovi reclutamenti ed così eventuali proteste: dall’inizio della guerra 5.844 contestatori sono stati arrestati in 60 città. Per quanto riguarda i costi della guerra, secondo l’Economist, la spesa militare fissa annua è di 60 miliardi di dollari, mentre la spesa pubblica è aumentata del 40% e ai russi la guerra costa 67 miliardi di dollari l’anno di deficit pubblico, mentre 3% di Pil viene speso per sostenere la produzione, reggere il welfare, mantenere le famiglie che mandano gli uomini al fronte. Una stima della rivista militare Sofrep, – riferisce il Corriere della Sera – indica per il 2022 un costo complessivo ben più alto: 900 milioni di dollari al giorno.
A riguardo delle sanzioni occorre dire che la mancata applicazione di paesi come Cina, India, Turchia, Messico, Brasile e Sudafrica e il ruolo di Mosca all’interno dei BRICS hanno consentito triangolazioni e l’approvvigionamento di ogni tipo di prodotti, compresi quelli tecnologici, necessari a sostenere lo sforzo bellico e la produzione di armi. Viceversa
secondo il Financial Times, la guerra ha bruciato più di cento miliardi di profitti di 600 grandi e medie imprese europee che facevano affari a Mosca, senza contare i costi derivanti dall’aumento dell’energia e delle materie prime.

Il grande elemosiniere

Si calcola che la guerra costi a Kiev 10 miliardi di dollari al mese. A procacciare le risorse provvede il grande elemosiniere Zelensky, “servitore del popolo” (cosi si chiamava il personaggio dello sceneggiato TV che lo ha portato al potere)., che una volta eletto Presidente, è entrato nella parte e si è trasformato in eroe, indossando vesti e ruolo di “frate cercatore” e, vestite le casacche militari, fa costantemente la questua tra le cancellerie d’Europa e quelle del Nord America, per spremere i finanziamenti necessari a condurre la guerra per procura e per sostenere uno Stato fallito.
L’Ue ha finora versato agli ucraini 85 miliardi di cui: 25 in attrezzature tecniche e militari, 60 in finanziamenti.
Stando ai tedeschi del Kiel Institute for the World Economy, gli Usa hanno dato 47 miliardi in armamenti e la Gran Bretagna 18. Secondo i conti della Banca mondiale dall’Occidente sono arrivati in totale 17 miliardi mensili, fra armi e sostegno a un’economia che non produce più reddito e in quasi due anni ha bruciato 200 miliardi tra industrie collassate e
grandi investitori stranieri che sono scappati. La spesa statale ucraina per pagare la pubblica amministrazione, per tenere aperti scuole e ospedali, per far funzionare i trasporti, solo nel 2022, è stata di 75 miliardi: i prestiti occidentali ne hanno
coperti 32.
La corruzione raggiunge tuttavia livelli altissimi e vede una parte cospicua delle risorse ottenute dirigersi verso le tasche degli oligarchi ucraini che lucrano sulle forniture belliche, come sulla vendita delle derrate alimentari, che traggono profitto dalla gestione del reclutamento, facendo commercio dell’ esenzione dal servizio militare, che si stanno
comprando l’Ucraina distrutta, pezzo a pezzo, preparandosi a venderla al miglior offerente e sfruttando l’economia di guerra in ogni modo.[2] Questo mentre il paese è stanco ed esausto, mentre un’intera generazione di cittadine e cittadini viene mandata al macello sui campi di battaglia o cade vittima dei bombardamenti, mentre il popolo ucraino viene
disperso nell’esilio. Gli ucraini all’inizio della guerra dichiaravano di disporre di 10 milioni di arruolabili, anche se l’esercito era di 250 mila uomini: ora dispongono di circa 700 mila soldati. Fra gli 8 milioni di profughi in Europa, ci sono 650mila richiamabili; inoltre aumentata la renitenza alla leva, con 300 mila «imboscati» e fenomeni di corruzione:
sono in molti quelli che potrebbero essere richiamati alle armi che si nascondono per sfuggire alle ronde di reclutamento.
Per questo Zelensky ha cambiato le regole di reclutamento chiamando in servizio le donne: oggi sono 43 mila (più 40% rispetto al 2021) e sono state ammesse ai ruoli di mitragliere, cecchino e comandante di tank, mentre il parlamento non riesce ad approvare le nuove norme sulla mobilitazione.
C’è poi il rifiuto all’arruolamento in alcune aree del paese, dettato dall’appartenenza etnica. Chi conosce l’Ucraina sa che l’attuale renitenza alla leva delle popolazioni di lingua e cultura ungherese nasce dalla consapevolezza dell’estraneità alla nazione; sa delle resistenze nel sostenere lo Stato centrale ucraino da parte della minoranza di lingua
rumena, privata delle sue scuole e della sua Chiesa; dovrebbe avere l’onestà di riconoscere la presenza di una componente russofona, certamente presente nelle province orientali, comunque diffusa nel paese, anche se ora emarginata dal
conflitto.
Se non altro che per questi motivi sarebbe necessario fare di tutto per sedere al più presto intorno a un tavolo e trattare, guardando finalmente chiaro su quelli che sono gli interessi in gioco e facendo chiarezza sui reali confini di un paese il cui territorio è stato costruito come la risultante di assetti geopolitici ormai superati. includendo nel territorio minoranze etnico linguistiche appartenenti a paesi ad esso contigui.                                               Secondo il New York Times, che utilizza sia fonti ONU che dell’intelligence USA, la guerra ha provocato alle due parti più di 6000.000 morti e feriti, tra soldati e civili; i danni ambientali fin qui prodotti nel suolo, nelle falde acquifere, in emissioni di CO2 sono incalcolabili. Perciò bisognerebbe puntare alla pace e aprire una trattativa che dovrà porre fine alla guerra in modo che l’Ucraina possa chiedere ed ottenere la solidarietà di tutti, piuttosto che alimentare un conflitto che è diventato semplicemente un massacro dall’una e dall’altra parte, per consentire che il paese possa dare spazio a riforme istituzionali, a garanzia delle autonomie territoriali, che ne consentano la coesione, chiamando i cittadini a pronunciarsi su questi temi attraverso referendum condotti con la garanzia di osservatori internazionali neutrali.
Occorre avere il coraggio di rendersi conto che la guerra, se da un lato ha alimentato il nazionalismo ucraino, dall’altro ha stimolato le spinte centrifughe delle minoranze, ha alimentato i particolarismi; l’adozione della legge marziale è la centralizzazione delle decisioni dello Stato, l’imposizione di una religione e di una Chiesa ufficiale, la negazione della libertà religiosa, il soffocamento delle differenze linguistiche, invece che unire il paese hanno creato un’ulteriore divisione che le comuni sofferenze dovute al nemico esterno, i bombardamenti, la guerra, i sacrifici comuni non bastano a compensare. Il risultato è un paese il cui territorio e oggi devastato, ricoperto di ordigni esplosivi, reso inquinato dai combattimenti che vi si svolgono, con una popolazione ridotta allo stremo e al minimo perché circa 8 milioni di ucraini hanno abbandonato il paese e, a quanto sembra, non hanno nessuna intenzione di ritornarvi, anche perché più tempo passa, maggiore è il periodo di tempo che vivono in altri paesi e in altre società e vi si radicano, più forte e la tendenza a non lasciare ciò che si è costruito in una nuova realtà sociale, piuttosto che ritornare all’antico, inesistente e fatiscente passato.

L’Ucraina la Russia e noi

Per quanto ci riguarda non abbiamo nessuna simpatia né per Putin, né per Kyrill, Patriarca di Mosca, né per il programma sociale della Chiesa Ortodossa Russa che Puntin ha fatto proprio. Consideriamo i valori di cui questa Chiesa è portatrice quanto di più regressivo vi sia per una società libera, per uno Stato di diritto, per la realizzazione del principio di libertà e di uguaglianza. Il rifiuto profondo della democratura che regge il regime putiniano, tuttavia non ci impedisce di vedere i limiti dei suoi oppositori di facciata che hanno sostenuto la supremazia dei russi bianchi sugli altri popoli della Russia, il razzismo, i valori della Russia profonda e imperiale, il nazionalismo russo.
Al tempo stesso non sosteniamo il regime che attualmente regge l’Ucraina, che è speculare a quello russo, si spaccia per democratico, pur essendo illiberale, autocratico, autoritario, oligarchico né più e né meno di quello che combatte; ha messo fuori legge 11 partiti politici di opposizione, con la scusa della guerra non fa elezioni benchè il mandato del parlamento e del Presidente siano scaduti; è guidato da una classe politica e da un’oligarchia militare che aspira ad entrare in Europa al solo fine di favorire un gruppo ben individuato di oligarchi e di multinazionali che mirano a fare profitti, incuranti di presentare il conto dei loro guadagni ai popoli d’Europa e allo stesso popolo ucraino, che di questa operazione è la vera, prima e principale vittima, tanto più che paga con la morte dei suoi cittadini il prezzo di una guerra presentata come di libertà, in nome dell’autogoverno, ma in realtà condotta per procura, in nome e per conto di superpotenze che si battono in difesa dei loro esclusivi interessi e che usano uomini e donne ucraine come carne da macello. L’odio seminato a piene mani dalle formazioni paramilitari ucraine, il nazionalismo malato dei boiardi di stato che si sono appropriati delle terre e delle attività economiche collettive, messe all’asta dopo il crollo dell’URSS, che si sono arricchiti come i loro epigoni russi, impoverendo il popolo, sta consentendo il massacro delle popolazioni e la desertificazione dei territori, facendo risorgere dalle pieghe della storia la memoria delle esperienze peggiori di quelle popolazioni, disseppellendo dalla storia del paese come esperienza gloriosa della quale andar fieri l’Ucraina dell’intolleranza, dei pogrom, del fanatismo religioso e politico, della discriminazione delle tante etnie e popoli presenti sul suo territorio, assegnando a una confraternita di preti criminali e ladri, il compito di reggere i destini di un popolo.
Di fronte a questa tragedia i popoli europei, in difesa dei loro interessi e dello stesso popolo ucraino, nonché della pace, hanno una sola scelta possibile: battersi contro la conversione dell’apparato industriale dei propri Stati in economia di guerra, chiedere la pace immediata e subito per l’Ucraina e l’apertura di trattative. Ciò che è in discussione è la possibilità di disporre delle risorse occorrenti a sostenere i sistemi sanitari, quelli scolastici, il sostentamento delle popolazioni, il benessere materiale e umano dei loro popoli, è soprattutto la possibilità di evitare la guerra e la possibilità che essa degeneri in un conflitto nucleare.
Per conseguire questo risultato occorre come primo passo che le forze riformiste presenti nei diversi paesi e che si preparano alle elezioni per il Parlamento europeo assumano una posizione comune di rifiuto della guerra, perché solo attraverso questa scelta queste forze possono recuperare una collocazione chiaramente di sinistra ed essere riconoscibili dagli elettori, il che permetterebbe loro di riguadagnare credito e consenso, facendoli prevalere sulla destra in ragione dei loro intenti e per i loro fini. Senza questa scelta chiara l’ambiguità politica prevale, spingendo verso l’astensionismo e il disinteresse, verso quella mancanza di partecipazione che permette alle forze nazionaliste e conservatrici di prevalere.

[1] G. Cimbalo, L’evoluzione dei rapporti tra Stato e Chiese nella Nuova Ucraina. Alla ricerca dell’Autocefalia in “Diritto e religioni” 2-2020, pp. 252-304; ID, Il ruolo sottaciuto delle Chiese nel conflitto russo-ucraino, in “Diritto e religioni” n. 2 del 2021, pp. 487-512           [2] Il crollo del fronte interno in Ucraina, Newsletter Crescita Politica, n. 180, 2023; Due considerazioni sull’Ucraina, Newsletter Crescita Politica, n. 176, 2023; I guasti della guerra ucraina. Newsletter Crescita Politica, n. 170, 2023; Le cause economiche della guerra ucraina, Newsletter Crescita Politica, n. 160, 2023; Guerra in Ucraina: la pista britannica, Newsletter Crescita Politica, n. 158, 2022; L’Ucraina di Zelesky prima di Putin, Newsletter Crescita Politica, n. 158, 2022

Gianni Cimbalo