DOSSIER INTERNAZIONALE – LA CRISI DELLA GERMANIA E IL FUTURO DELL’EUROPA

Le elezioni per il Parlamento europeo si avvicinano e la U.E. attraversa una crisi senza precedenti, che ha fra le principali cause il fallimento della politica della Germania che di fatto ha guidato l’Europa in totale assenza di una strategia geopolitica da parte degli altri Stati. Tuttavia i fattori che caratterizzano la fase sono più complessi e meritano un esame attento che consenta di capire lo schieramento delle forze in campo e di individuare una possibile via d’uscita che aiuti i diversi paesi del continente a scongiurare la loro auto distruzione. Occorre ripensare un assetto mondiale equilibrato che consenta l’uguaglianza, almeno tendenziale, di tutti i popoli e gli individui comprendendo finalmente che lo stesso concetto di patria come entità nazionale è superato. Per perseguire quest’obiettivo è indispensabile il ricorso alla memoria per capire come siamo giunti alla situazione attuale e in che direzione andare.

La globalizzazione, gli Stati e le multinazionali

Già nel XVIII secolo Adam Smith intravedeva nella globalizzazione progressiva dell’economia e del mercato le tendenze future dell’umanità. Pertanto il processo di accentuata globalizzazione che stiamo vivendo non è un fenomeno nuovo, ma lo sviluppo del sistema capitalistico e il frutto dell’evoluzione dei rapporti produttivi a livello globale. La crescita della capacità del capitale di internazionalizzarsi alla ricerca di un profitto sempre più ampio ha fatto crescere il potere delle multinazionali, molte delle quali sono oggi in grado di competere e superare gli Stati in ricchezza e potere, controllando risorse, disponendo sugli orientamenti delle economie mondiali, condizionando l’andamento del mercato globale.
L’accresciuto potere delle multinazionali ha spinto gli Stati verso una loro riconfigurazione e una ridefinizione delle ragioni fondanti della loro composizione. Concetti come quelli di popolo, di etnia, di lingua di appartenenze religiose, i cataloghi di valori etici e esperienziali, benché sembrino oggi ritornare in auge e divenire di nuovo elementi fondanti degli aggregati politico statali sono in effetti categorie del passato e il loro revival, a volte artatamente suscitato, appare strumentale a politiche contingenti di settori del capitale e della finanza mondiale, piuttosto che essere il frutto di esigenze reali. A questa tendenza vorrebbero opporsi i sovranisti, soprattutto europei, legati a valori e strategie estranee alla dimensione delle economie competitive che si collocano nella dimensione globale del mercato.
Il ritmo di cambiamento degli assetti politici e economici del mondo è così elevato che le società e i popoli non riescono a tenere il passo e ad adeguarsi al mutamento. La loro collocazione come entità riconoscibili e “nazionali” legate a concetti e visioni quali etnia, razza, gruppo linguistico, gruppi religiosi vengono utilizzati per bloccare il processo di presa di coscienza del progredire della globalizzazione, delle sue dimensioni, della sua portata e dei suoi effetti. L’efficacia frenante di questi fattori identitari è oggi tanto più grande quando l’area del pianeta investita dal cambiamento ha vissuto con intensità le fasi precedenti di sviluppo del processo produttivo e del mercato, è dotata di una propria storia politica e culturale dispiegatasi nel tempo e investe perciò con maggior vigore il continente europeo. Ciò avviene perché abitudini radicate, tradizioni, costumi, peso e significato della storia, aumentano e moltiplicano l’influenza dei fattori di differenziazione che in passato hanno costituito la base della diversità.
Lo sviluppo delle forze produttive e i processi politici conseguenti hanno dato vita sa tempo a delle aggregazioni politiche che assumono dimensioni continentali. È il caso degli Stati Uniti, ma anche della Russia, della Cina e in prospettiva pressoché immediata dell’India. In questo scenario dominato da giganti l’Europa rischia oggi di presentarsi frammentata e divisa, mentre è in corso uno scontro feroce per spartirsi le aree d’influenza nel continente africano e nell’America Latina e la radicalità dello scontro si estende alla divisione delle spoglie dell’Antartico.
In questo scenario le multinazionali giocano un ruolo di operatori trasversali, negoziando di volta in volta con gli attori forti fra gli Stati e ritagliandosi spazi autonomi di operatività, inserendosi come subagenti di questo o quel soggetto forte, partecipando alla spartizione del mercato globale, alla conquista del controllo della digitalizzazione del mondo. Si spiega in questa chiave, ad esempio lo scontro che oppone gli Stati Uniti a Huawei, espressione degli investimenti statali cinesi nel settore delle telecomunicazioni. Quello che è in gioco è il controllo delle tecnologie e delle reti di comunicazione di quinta generazione (5 G) e la possibilità di gestire e governare le reti informatiche sempre più invasive e in grado di controllare dai servizi agli armamenti, al funzionamento di tutti i settori economici e a consentire un effettivo controllo sociale globale.
Il progetto in atto è quello di escludere dal mercato uno dei principali attori economici, sociali, politici, l’Unione Europea, minandone alla base l’esistenza e distruggendola come aggregato economico e politico.

Il ruolo dell’Unione Europea nel mercato globalizzato

Le tendenze appena descritte erano già chiare all’indomani della fine della seconda guerra mondiale e trovarono l’Europa divisa tra la Comunità Europea, allora costituita da Francia, Germania. Italia, Belgio, Olanda e Lussemburgo con il Trattato di Roma (effettivo dal 1958) e l’EFTA (European Free Trade Association) essenzialmente voluta dall’Inghilterra. La crescita progressiva della prima aggregazione si è rafforzata con il fallimento della zona di libero scambio e la successiva adesione della gran parte dei paesi all’Unione Europea, a partire da quella del Regno Unito a far data dal 1gennaio 1973. Da allora la U. E. si è sviluppata secondo differenti strategie che hanno convissuto tra loro.
Da un lato intorno all’asse franco tedesco si è sviluppata una collaborazione che ha visto progressivamente la Germania assumere la laedership del processo di unificazione; parallelamente, anche a causa della progressiva adesione di sempre nuovi paesi, e soprattutto a partire dal crollo del blocco sovietico, si è diffusa una tendenza alla devoluzione da parte degli Stati di sempre maggiori competenze all’Unione, culminate nell’adozione della moneta unica nel 2002 in dodici degli allora quindici Stati dell’Unione. L’introduzione della moneta unica tendeva al superamento degli Stati nazionali, che passava necessariamente per un potenziamento delle cosiddette “piccole patrie”, ovvero attraverso il soddisfacimento delle richieste di autonomia di quelle identità spesso soffocate dagli Stati nazionali, considerate in grado di rispettare meglio e più adeguatamente non solo i bisogni identitari, ma di dare una risposta alle esigenze di integrazione delle diverse aree produttive all’interno del territorio dell’Unione.
Tuttavia proprio l’ingresso progressivo di sempre nuovi Stati ha portato al blocco di queste aspettative. I nuovi ingressi nell’Unione hanno fatto emergere la necessità di rispettare le autonomie e l’indipendenza degli Stati nazionali, molti dei quali caratterizzati da frontiere recenti ed incerte che avevano prodotto (come è il caso di quelli appartenenti alla ex Jugoslavia) conflitti sanguinosi. Se un processo di federalizzazione o di ampie autonomie era possibile nelle compagini statali consolidate come quelle dei sei stati originari non altrettanto può dirsi ad esempio della Spagna (problema basco e catalano) o dell’Inghilterra (Scozia e Irlanda del Nord). Nell’Europa dei 28 finiva per emergere la laedership fra gli Stati a forte caratterizzazione nazionale e dall’economia più solida.
Ad approfittare di questa situazione è stata la Germania, che – dicevamo – dopo la fine della seconda guerra mondiale, ha costruito progressivamente una propria area di influenza economica, riversando in una prima fase tutte le proprie energie nella costruzione dell’Unione Europea, basata su un asse privilegiato di collaborazione con la Francia. Intorno a questo nucleo l’economia tedesca è progressivamente cresciuta fino ad avere la forza per scardinare il sistema politico e di potere uscito dalla guerra, al punto che la solidità della sua economia gli ha consentito di contribuire in modo determinante alla crisi del blocco dei paesi socialisti e di assorbire i territori tedeschi rimasti sotto il controllo russo, procedendo all’unificazione tedesca, i cui costi sono in parte stati scaricati sugli altri paesi dell’Unione.
L’acquisizione dei territori della Germania dell’Est è stata accompagnata dal rafforzamento progressivo di un’ampia zona d’influenza economica e politica, costituita da un’insieme di paesi esterni all’Unione, destinati a un graduale ingresso nella U. E., e da altri paesi che pur non facendo parte dell’U. E., gravitano intorno all’economia tedesca e costituiscono nell’insieme un mercato per le sue merci e sono al tempo stesso aree di produzione a costi minori e differenziati rispetto a quelli del mercato del lavoro tedesco. Questa struttura è funzionale alla produzione di beni necessari alla sua economia. Il “capolavoro” di questa politica è stato costituito dalla dissoluzione indotta della Jugoslavia che ha parcellizzato le singole Repubbliche, infeudandole al sistema economico tedesco e trasformandole in fornitori della forza lavoro essenziale ad arginare, almeno in parte e in una prima fase, la crisi demografica tedesca. Gli anni dal 1990 al 2000 sono infatti caratterizzati da una gigantesca migrazione est-ovest che ha drenato le risorse umane dei paesi dell’Est Europa destinandole ad alimentare il mercato del lavoro dell’Europa Occidentale.
Ma la politica di espansione tedesca ha incontrato un limite “naturale” ad Est, poiché anche la Russia, per motivi strategici e economici, aveva interesse a mantenere una propria area di influenza. Il terreno di scontro si è così trasferito sull’Ucraina, territorio considerato dalla Russia – anche per motivi storici – area di sua esclusiva influenza. Nel tentativo di acquisire o altrimenti distruggere le aree produttive del Donbass la Germania si è alleata con gli Stati Uniti, divenendo succube della sua politica strategica globale e perdendo così l’iniziativa nella direzione della sua politica di espansione all’Est.
Ancora una volta nelle steppe russe la Germania a visto bloccare la sua strategia politica di egemonia sull’Europa, senza capire che soprattutto i bisogni energetici del suo sistema produttivo spingevano per una partnership con la Russia piuttosto che verso uno scontro competitivo con un paese che non solo dispone di un ampio mercato interno, ma soprattutto di risorse energetiche illimitate e di una posizione strategica naturale, complementare a quella tedesca.

La crisi dell’asse franco tedesco

Ma una delle ragioni della crisi politica della Germania risiede nel venir meno dell’alleanza strategica con la Francia, causata dalla scomparsa progressiva degli elementi strutturali che legavano le economie dei due paesi. Chiave di volta di questa crisi è la politica energetica tedesca in rapporto a quella francese. Il rapporto tra le economie dei due paesi tendeva ad essere simbiotico. La Germania si era impegnata ad assorbire la produzione nucleare francese per consentirle uno spazio economico capace di sostenerne i costi di produzione. L’abbandono del nucleare da parte della Germani rompe questo equilibrio e mette definitivamente in crisi il sistema energetico francese, riassunto nello slogan “tutto elettrico, tutto nucleare”. D’altra parte questa svolta politica imposta dalla crescente obsolescenza dell’industria nucleare veniva sostenuta dall’importazione sempre più massiccia di gas russo attraverso gli impianti del Baltico (North Stream) che aggirano l’Ucraina e collegano direttamente la Russia alla Germania.
Da qui i tentativi della Francia di cercare soluzioni alternative, di acquisire il controllo del petrolio libico, di rivitalizzare i suoi rapporti con l’area economica delle ex colonie, attraverso soprattutto il controllo delle loro materie prime. Si tratta di un tentativo vitale di sopravvivenza dell’economia francese, destinata a un progressivo declino dalle conseguenze imprevedibili per il paese, costretto a rivedere radicalmente la propria collocazione economica e strategica. Il tentativo macroniano di riforme neo liberiste e di smantellamento dello stato sociale, divenuto troppo costoso, di distruzione di un mercato del lavoro regolamentato dagli statuti professionali, incontra, e non a caso, resistenze fortissime, anche perché in Francia, come in molti paesi, si è prodotta una concentrazione delle ricchezze nelle mani di pochi e si è notevolmente ridotto il livello del tenore di vita della gran massa della popolazione che vive in provincia.
Per ragioni e motivi diversi la Francia a trazione Macron e la Germania a trazione Merkel si presentano avvolti in una crisi congiunturale notevole, a fronte della scadenza elettorale per il rinnovo del Parlamento europeo. A preoccupare è soprattutto una strategia credibile per uscire da questo empasse, tanto più grave se si tiene conto delle nuove condizioni del mercato globale e degli assetti produttivi.
La Germania si preparava a affrontare la nuova congiuntura economica attraverso una massiccia iniezione di popolazione (l’accoglienza “improvvisa” di un milione di migranti) in realtà in larga parte selezionati, provenienti in gran parte dalla Siria e dal centro Europa e in possesso di una formazione di base per essere agevolmente immessi nel sistema produttivo tedesco. In tal modo il paese avrebbe potuto differenziare il mercato del lavoro interno, dismettendo almeno in parte il lavoro smistato verso le aree satelliti di produzione costituite dai paesi di Visegrád e dall’Ucraina.
Se non che la crisi dell’auto e più in generale del settore metalmeccanico tedesco sta progressivamente mettendo in crisi l’economia tedesca che vede gli indici di vendita e di produzione crollare vistosamente. In questa crisi è coinvolto anche il mercato dell’indotto e quindi le aree del Veneto e della Lombardia che sono di fatto succedanee dell’economia tedesca.
Da ciò discende l’inattualità tendenziale di ogni richiesta di secessione, ma anche l’inconsistenza economica in una prospettiva di breve periodo della richiesta di autonomia differenziata che queste regioni, con il codazzo dell’Emilia Romagna, stanno facendo.

L’inattualità economica dell’autonomia differenziata.

È ragionevole prevedere che la ristrutturazione che l’economia tedesca deve affrontare finirà per coinvolgere le aree del nord Italia a questa legate secondo linee che saranno decise a Berlino e non certo a Milano o a Venezia e tanto meno a Bologna. L’Europa ha ormai rinunciato a un corridoio sud di trasporto merci, quel fatidico percorso che avrebbe dovuto unire Lisbona a Kiev. Ne è prova il distaccarsi dalla costruzione del tracciato di Portogallo e Spagna, le cui economie guardano verso altre prospettive che non l’Est Europa. Nelle capacità produttive del sistema francese si allargano le crepe non solo per la crisi della cantieristica, ma anche di tutto il tessuto produttivo del sud della Francia. I paesi di oltre confine a oriente dell’Italia rischiano di non avere più la funzione di sub agente dell’economia tedesca e comunque vedono il loro ruolo di produzione di merci certamente ridotto e comunque viaggiare in altre direzioni. Per non parlare poi delle disastrose condizioni del sistema produttivo ucraino che, privato delle industrie di avanzata tecnologia delle province orientali, distrutte dalla guerra, e dilaniato da fratture e scontri politici e sociali profondi non è in grado di offrire alcunché.
In questo panorama desolato resta quella che fu la padania, ormai priva di quelle attività succedanee all’economia tedesca che ne trascinavano in alto i livelli produttivi. In questa situazione l’autonomia o se si preferisce la federalizzazione differenziata non è solo un suicidio politico, ma soprattutto economico. L’autonomia differenziata giunge perciò fuori dei tempi della storia e soprattutto a prescindere dalle ragioni economiche che la motivavano.

L’alternativa possibile

Noi non siamo sostenitori acritici dell’unità europea. Noi, come comunisti anarchici non amiamo gli Stati e li critichiamo soprattutto per il loro apparato repressivo e di potere, per il loro ruolo di agenti del capitale e dello sfruttamento. Aspiriamo a una società partecipata dove il principio di eguaglianza e non solo quello delle opportunità faccia da guida all’azione della politica. Quindi vogliamo costruire una società comunista dove ognuno abbia secondo i suoi bisogni e non secondo le sue capacità. Vorremmo che una struttura di relazioni sociali solidale sostenesse ogni persona nel realizzare le proprie aspettative di vita nel rispetto della dignità delle relazioni tra donne e uomini.
Per perseguire almeno tendenzialmente questi obiettivi serve una dimensione sociale collettiva che superi la suddivisione in Stati, etnie, gruppi religiosi, gruppi linguistici, fazioni identitarie e culturali; che abbia dimensioni sufficientemente ampie da aggregare in nome dei comuni interessi. Perciò, pur riconoscendo l’aspirazione ad una società globalmente umana non possiamo ignorare la necessità di una dimensione quanto meno continentale degli aggregati sociali, se non altro in ragione del fatto che comuni interessi legano tutti i Popoli d’Europa. Per questi motivi intravediamo in una politica dalle dimensioni almeno continentali lo strumento di gestione dell’attuale congiuntura economica e politica.
Ma c’è di più. Siamo consapevoli che alimentare il sovranismo porta alla fascistizzazione della società, all’autoritarismo dei governi, alla xenofobia e al razzismo, a una visione culturale miope dalla quale sono espunti i valori della solidarietà di classe e dell’uguaglianza dai quali discende la libertà. È perciò che avversiamo il nazionalismo in tutte le sue forme.
Ma su questi aspetti contiamo di ritornare.

La Redazione