La crisi della “placca islamica”

Per cercare di capire quello che sta avvenendo nella striscia di Gaza, in Cisgiordania e Israele occorre collocare la cronaca degli eventi all’interno del disegno strategico globale teso alla ridefinizione degli equilibri geostrategici ed economici di un mondo a placche, multipolare. Lo scontro in atto riguarda la “placca islamica” che va dall’Afganistan fino alle sponde del Mediterraneo ed ha propaggini che si estendono lungo la cosa mediterranea fino al Marocco e ad Est verso le Repubbliche asiatiche turcofone ex sovietiche. Quest’area si caratterizza per un’alta disomogeneità politica e una grande instabilità, determinata dalla grande divisione che caratterizza il mondo islamico, solcato non solo dalla divisione tra sciti e sunniti, ma anche dall’articolazione in famiglie religiose e politiche di popoli che abitano le diverse entità statali presenti su questo vastissimo territorio. Sull’area incidono le crescenti ambizioni della Turchia che vuole ricostruire il sogno imperiale che fu l’impero ottomano, area che va dall’Africa alle Repubbliche islamofobe ex sovietiche dell’Asia centrale; l’Arabia Saudita, che si proclama guida della componente sunnita dell’islam, forte del fatto di custodire due dei luoghi sacri dell’islam. Medina e La Mecca; Teheran che ospita la Repubblica islamica di ispirazione sciita e si proclama capitale dello sciismo e, all’estrema propaggine orientale, il Pakistan, potenza nucleare, che gioca a sua volta un ruolo nell’area del sub continente indiano, mentre la lontana Indonesia, il più popoloso dei paesi islamici, insiste su un’altra area, la placca indo-pacifica.
Uno sforzo ai fini di compattare quest’area così composita o almeno la parte più omogenea e rilevante di essa era stato portato a termine nell’ambito dei Bricks per iniziativa e merito dalla politica estera cinese che aveva promosso la riconciliazione tra Arabia Saudita e Iran, sfociata nell’ accordo di de-escalation delle relazioni dei due paesi, firmato il 10 marzo da Iran e Arabia Saudita a Pechino con la mediazione cinese che rappresentava un’evoluzione di grande rilevanza delle relazioni tra Stati nel contesto di una regione, quella del Golfo Persico.[1]
In questo ambito obiettivi diversi erano stati perseguiti dagli accordi di Abramo, [2] nati per l’iniziativa della amministrazione Trump, ma rimasti inattuati a causa della fine del suo mandato. L’accordo promosso dalla Cina era stato possibile grazie al minor interesse per l’iniziativa da parte dell’amministrazione Biden che aveva lasciato campo libero alla diplomazia cinese, ma soprattutto era stato facilitato dal ritiro degli Stati Uniti dall’Afghanistan che sembrava lasciar spazio alla diplomazia cinese e russa per meglio operare nell’area con proiezioni verso il mondo islamico. Così, approfittando dei buoni rapporti tra Russia e Iran, utilizzando le linee di comunicazione tra i membri dell’OPEC (della quale fanno parte Arabia Saudita, Russia, Iran) – la diplomazia cinese aveva potuto conseguire un risultato che aveva sorpreso i diversi interlocutori internazionali.
In vista della scadenza del suo mandato presidenziale Biden, gravato da guerra Ucraina è bisognoso di conseguire dei risultati in politica estera per meglio accreditarsi davanti all’elettorato faceva ripartire l’iniziativa dei Protocolli di Abramo che avrebbero dovuto essere sottoscritti entro la fine del 2023.

La “Nuova via del cotone”

Per innestarsi questa iniziativa Biden, riformulava il progetto, ribattezzandolo “Nuova via del cotone” che avrebbe dovuto costituire l’alternativa alla “Via della seta.” Questo progetto ha portato alla firma di un memorandum sottoscritto a New Delhi a margine dei lavori del G20, consiste nella realizzazione di corridoio economico tra India, Medio Oriente ed Europa, prevede la realizzazione di una rete di ferrovie, porti e collegamenti energetici. I Paesi coinvolti sono Stati Uniti, India, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Germania, Francia, Italia e Unione Europea. Il progetto dovrebbe svilupparsi seguendo due direttrici, ferroviarie e marittime, che collegheranno l’India ai Paesi del Golfo,
attraverso una rete di ferrovie e porti volti a migliorare i flussi commerciali ed energetici dall’Asia meridionale al Golfo Persico e con l’obiettivo di raggiungere l’Europa, passando per Giordania e Israele, avendo come terminale su Mediterranei il porto di Haifa.[3]
Nelle intenzioni il nuovo corridoio cercherà di riconfigurare il commercio tra i Paesi dell’Europa, del Golfo Persico e dell’Asia meridionale, riducendo significativamente il tempo necessario per trasportare le merci tra queste nazioni e permetterà di contrastare la Cina nelle relazioni commerciali verso l’Europa.
Il progetto prevede risorse per 600 miliardi di dollari per sostenere i Paesi a basso e medio reddito nella costruzione di infrastrutture sostenibili e l’iniziativa è allineata con la Global Gateway, lanciata dalla Commissione europea nel 2021 per mobilitare finanziamenti fino a 300 miliardi di euro per progetti infrastrutturali nei paesi in via di
sviluppo. Sia l’Arabia Saudita, il principale esportatore di petrolio al mondo, sia gli Emirati Arabi Uniti, il centro finanziario del Medio Oriente, cercano da anni di proteggersi da qualsiasi interruzione delle rotte commerciali ed energetiche che ora passano esclusivamente attraverso il canale di Suez.
Oggettivamente la sottoscrizione di questo nuovo accordo consente una nuova spaccatura della placca islamica, e obbliga una parte di paesi a riconoscere come interlocutore Israele, liquidando definitivamente la questione palestinese, lasciando che mentre la popolazione di Gaza si consumava sotto la dittatura di Hamas in un campo di concentramento a cielo aperto, Israele avrebbe potuto continuare indisturbato a praticare la propria politica di apartheid in Giordania, proseguendo nella liquidazione progressiva, ma costante, della sua popolazione, espropriata di ogni diritto e bene.
Nel nuovo contesto delle relazioni internazionali trovava spazio il disegno insurrezionale di Hamas, da lungo tempo preparato con la quiescenza del governo Netanyahu, il quale riconoscendo l’organizzazione terroristica come l’interlocutore e gestore della striscia, aveva dato la possibilità all’organizzazione di prepararsi a condurre l’attacco che in
effetti il 7 ottobre ha poi avuto luogo, dando corso a quella mattanza dei cittadini dello Stato ebraico che avevano il solo torto di trovarsi ad abitare nei pressi della striscia e che erano parte della popolazione del paese più dedita ad un possibile dialogo con il mondo islamico, provvedendo a rapire più di 200 persone, compresi donne vecchi e bambini, praticando ogni violenza su di loro.

Il genocidio degli abitanti di Gaza

Da sei mesi l’esercito dello Stato ebraico, guidato dal macellaio Netanyahu, massacra la popolazione della striscia, distruggendo tutto ciò che trova, avendo già provocato 34 000 morti, migliaia di feriti e di invalidi, indicibili sofferenze, fame, denutrizione e miseria, mentre non si vede alla fine della mattanza.
Questo orrore che indigna il mondo ha alienato allo Stato ebraico le simpatie delle opinioni pubbliche dell’Occidente, ha portato i suoi sostenitori e coloro che hanno la coscienza sporca per il loro passato antisemita e la persecuzione dell’ebraismo a manifestare la loro solidarietà, facendo leva sulla cattiva coscienza per quello che è stata la Shoah e l’olocausto del popolo ebraico ad opera del nazismo.
Ciò che si fa finta di non comprendere è che la solidarietà verso la popolazione palestinese, non è manifestazione di antisemitismo, ma di opposizione al sionismo, dottrina politica nazionalista che sostiene la necessità dell’esistenza di uno Stato ebraico, depositario del destino messianico del popolo ebraico, prediletto dal Dio unico, che è destinato a prevalere sugli altri popoli grazie al patto che lo lega all’unico Dio e al quale è stata data in esclusiva la Palestina, dalle rive del Giordano al mare, senza che altri popoli possano contemporaneamente abitarvi.
Dopo sei mesi nei quali un torrente di distruzioni e di fuoco si è riversato su Gaza, con il crescere delle rovine, l’orrore per le sofferenze, per le morti, per gli arti amputati, per la fame, per la disperazione e il terrore. La solidarietà del mondo, ha finito per convergere sulla popolazione della striscia, costretta a vivere in condizioni disumane, in una
porzione sempre più piccola di territorio, mentre i vicini Stati si rifiutavano di accoglierli per timore di ripercorrere esperienze passate, importando profughi destinati a restare eternamente tali e a costituire una componente politica attiva destabilizzante per i regimi autoritari che li governano. Al tempo stesso cresce la repressione della popolazione autoctona della Cisgiordania, dove vige una apartheid sempre più dura e radicale e gli omicidi e gli assalti dei coloni, le loro violenze, i loro soprusi verso la popolazione autoctona, sono ogni giorno crescenti.

L’intervento iraniano

Mentre l’esercito israeliano si prepara a portare l’ultimo assalto all’enclave palestinese nella quale è attualmente stipata la popolazione di Gaza, lo Stato ebraico ampliava la sua sfera d’azione e decideva, procedendo negli omicidi mirati nei quali è esperto, a distruggere con un attacco missilistico una sede diplomatica dell’Iran in Siria per eliminare appartenenti al corpo dei pasdaran iraniani (16 persone), incaricati di tenere i collegamenti con le formazioni politico militari sciite (Hamas, Houthi, Hezbollah, Hezbollah Kataib iracheni) che costituiscono il fronte anti-sionista che sostiene la lotta dei palestinesi. Si tratta di una pratica consolidata adottata dallo Stato ebraico, ma fatta propria anche dagli Stati Uniti che si riservano di “punire”, con omicidi mirati e indipendentemente da dove si trovino, gli oppositori della loro politica che considerano facenti parte di gruppi e formazioni terroristiche.
Tuttavia, questa volta la Repubblica islamica, per non perdere la faccia di fronte agli altri Stati arabi e alle stesse formazioni di resistenza allo Stato ebraico, hanno deciso di reagire attraverso una risposta calibrata. Con 72 ore di anticipo le cancellerie in tutti gli Stati coinvolti nel conflitto o comunque interessati sono state informate che la Repubblica islamica avrebbe attaccato il territorio dello Stato d’Israele con un lancio di droni e missili, fornendo così all’aggredito la possibilità di organizzare la propria difesa. Nella notte del 14 Aprile circa 300 ordigni di varia natura sono stato lanciati verso obiettivi militari posti nel territorio israeliano e intercettati da aerei statunitensi, britannici, francesi levatesi in volo dalle flotte in navigazione nel Mar Rosso e dalle basi occidentali nell’area per contrastare i lanci missilistici Houthi. Nell’abbattimento degli ordigni un ruolo importante è stato svolto dall’aviazione giordana, paese arabo, ma legato alla Gran Bretagna, che svolge un ruolo di punta di diamante del gruppo di Stati che a suo tempo erano pronti a firmare gli accorti di Abramo, Stati che appartengono ad una alleanza segreta che dispone di un sistema di mutua protezione e avvistamento in funzione di contrasto alla Repubblica islamica e del quale fanno parte certamente l’Arabia Saudita e parte degli Emirati del Golfo. Veniva così ripristinata l’attività e il coordinamento degli Stati islamici disponibili a sottoscrivere gli accordi di Abramo e interessati al progetto “Nuova via del cotone”, ma il tabù della deterrenza e della
dottrina difensiva israeliana veniva definitivamente rotto, anche se rivitalizzato da una tenue ulteriore risposta.
Benché al termine dell’azione, che potremmo definire dimostrativa, la Repubblica islamica abbia dichiarato di considerare chiuso il contenzioso con Israele, relativamente al bombardamento della sua rappresentanza diplomatica, lo Stato ebraico non può sopportare che gli eventi abbiano dimostrato che il suo territorio è raggiungibile dai suoi nemici.
L’attacco dimostra che la strategia di preventiva dissuasione dello Stato ebraico nei confronti dei suoi nemici è ormai superata dalle crescenti capacità offensive dei suoi nemici e perciò l’ulteriore azione di ritorsione, benché sconsigliata dagli Stati Uniti e dagli altri partner occidentali. Resta per il momento di la da venire l’obiettivo più ambito, la distruzione degli impianti di arricchimento di uranio messi a punto dal governo iraniano per dotarsi dell’arma nucleare.
Nello stesso tempo Israele non rinuncia all’annientamento della popolazione di Gaza, con l’obiettivo di rendere la striscia colonizzabile nella prospettiva di rivendicare pieno ed esclusivo diritto di sfruttamento degli immensi giacimenti di petrolio e gas scoperti a largo delle coste che potrebbero, se avvenisse la cancellazione dell’entità palestinese a Gaza, più agevolmente essere divise esclusivamente tra israeliani ed egiziani, eliminando il terzo incomodo costituito dalla popolazione abitante sulla costa.

Il regno del male

Se questi sono sommariamente i fatti alcune considerazioni si impongono, soprattutto a fronte del fatto che la stampa nostrana e i politici dell’occidente presentano, come al solito, ciò che avviene come uno scontro fra il bene e il male e continuano a ripetere che la sola democrazia nel Medio Oriente è Israele e che essa va difesa contro gli Stati che lo circondano, musulmani, illiberali, dominati da una teocrazia oscurantista come quella iraniana che nega ogni libertà. Per questo motivo benedicono la guerra e cercano di accreditare l’idea che solo una sconfitta esterna può riportare la libertà e
la democrazia in molti, se non in tutti questi Stati. Questa affermazione costituisce una palese falsità e, per dimostrarlo, basta riflettere su alcune delle caratteristiche degli Stati coinvolti.
Israele è uno Stato formalmente a democrazia occidentale, dove tuttavia regna incontrastato, da ben 14 anni lo stesso uomo, con vari espedienti, non ultimi la guerra e che, benché oggetto di un grappolo di provvedimenti penali, rimane incontrastato al potere, dopo aver attentato all’organizzazione democratica e costituzionale dello Stato e dopo avere commesso reati sui quali i tribunali non hanno avuto modo di pronunciarsi, grazie alla incontrastata detenzione del potere politico. Né vale ad attenuarne le responsabilità rilevare che Netanyahu non gode del sostegno di molta parte della popolazione, né basta sostenere che la società israeliana è così democratica e salda da meritare il rispetto della comunità internazionale, se si considera che occupa la Cisgiordania e che su questo territorio esercita l’apartheid nei confronti della popolazione autoctona, perseguitandola e comprimendone i diritti.
La Giordania è un paese retto dalla monarchia hascemita, formalmente indipendente, ma vassalla del Regno Unito, che di fatto opera di concerto con Israele per controllare  la popolazione palestinese che costituisce larga parte degli abitanti del paese ed è coinvolta direttamente nella Nuova via del cotone. Il vicino Iraq è un paese devastato dalla guerra contro Saddam Hussein condotta dagli Stati Uniti, inventando l’esistenza di armi chimiche inesistenti per giustificare l’aggressione ed oggi trasformato in un paese balcanizzato per gruppi religiosi. quando era il più sviluppato, il più occidentalizzato, il più laico dei paesi arabi. In Libano, paese dal quale è in corso una perenne guerriglia con lo Stato ebraico e verso il quale si sono registrate numerose aggressioni da parte di quest’ultimo è oggi un paese diviso, fallito e in mano a diversi gruppi di potere politico-mafioso e religioso. Che dire poi dell’Egitto il cui governo è retto da un dittatore del quale gli italiani hanno avuto modo di apprezzare i metodi in occasione del caso Regeni!
Nessuna solidarietà può andare da parte nostra al governo dell’Iran che rappresenta la summa di quanto noi comunisti anarchici, laici e nemici dell’oscurantismo religioso, aborriamo. Nel paese – come è noto – è in corso una guerra civile e di genere che vede le donne oppresse, ribellarsi contro il maschilismo e il paternalismo del regime, che
vede le libertà sindacali represse, che vede ogni libertà civile calpestata e l’economia in mano alla corporazione dei pasdaran, sotto il controllo del clero. Pur tuttavia siamo convinti che la liberazione del popolo iraniano non può che venire dalla sua lotta e non può dipendere dall’aiuto esterno di forze che dicono di combattere il regime il nome della democrazia, ma in realtà mirano alle risorse del paese e al suo petrolio.
Altrettanta solida repulsione provocano per noi il regime vigente in Arabia Saudita e quelli che caratterizzano i governi degli Emirati del Golfo, sostenitori di valori, di un’etica, di principi che negano ogni barlume di giustizia sociale e di libertà civili. Siamo convinti che debba essere consentito a tutte le società di sviluppare un proprio percorso di emancipazione e di secolarizzazione che può avvenire solo come risultante della partecipazione delle popolazioni al confronto tra le classi sociali nel contesto di un definitivo superamento delle eredità e delle logiche coloniali e con la scelta di percorsi propri, convinti come siamo della non superiorità del modello e della democrazia liberale occidentale.
Tuttavia per ognuna di queste società, per ognuno di questi popoli, crediamo che l’emancipazione non possa che venire dall’interno stesso dei vari paesi e che non può essere frutto della cosiddetta “esportazione della democrazia” che altro non è che una forma di nuovo colonialismo e di ripristino della dominanza dei paesi occidentali su quest’area del mondo.

[1] Il testo dell’accordo sottoscritto a Pechino prevede come obbiettivo iniziale la riapertura delle rispettive sedi diplomatiche, chiuse nel 2016, entro due mesi dalla firma dell’intesa e l’implementazione di due importanti documenti di cooperazione multilivello firmati tra la fine degli anni ’90 e i primi anni 2000, durante quello che fu uno dei periodi di maggior dialogo tra Iran e Arabia Saudita.
[2] Gli Accordi di Abramo, proposti dall’amministrazione Trump, raggiunti il 13 agosto 2020, miravano alla normalizzazione delle relazioni diplomatiche fra Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, altri Stato arabi, Israele e gli Stati Uniti, avrebbero dovuto essere
sottoscritti immediatamente prima del 7 ottobre nella versione di “Nuova via del cotone”.
[3] La firma del memorandum è stata annunciata durante l’evento ‘Partnership for global infrastructure and investment and India-Middle East-Europe economic corridor’ per valorizzare la Partnership for Global Infrastructure and Investment (Pgii), creata dal G7.

C. G.