QUARTA DIMENSIONE

Se c’è un merito che dobbiamo riconoscere al Ministro dell’Interno è la chiarificazione. Ovvero quel ruolo che Marx assegnava al capitale, smascherare i veri rapporti sociali basati sullo scontro di classe.
L’ossessione xenofoba verso i migranti (attenzione: xenofoba e non “razzista”. Per Salvini non è importante il colore della pelle, ma chi è “dentro” e chi è “fuori”) ha infatti dato la stura allo sdoganamento di sentimenti, opere e azioni che, evidentemente, covavano nella società italiana da molto tempo.
In realtà, sui movimenti migratori, nel nostro paese, esiste, da tempo, una letteratura sterminata e di elevato livello teorico. Ma, come ormai accade da tempo, non c’è quasi alcuna connessione fra il mondo della ricerca sociale (storica, economica, sociale) e quello della diffusione mediatica (il vecchio “senso comune”). Sicuramente, l’aver tagliato (con furore, direi, “iconoclasta”) i ponti fra la partecipazione politica (attivata solo per la scheda nell’urna. Siano primarie o elezioni) e la ricerca accademica (chiusa nella sua “oggettività” misurabile secondo i dettami della deriva tecnocratica capitalista, ormai dominante) ha contribuito non poco al distacco fra 2 mondi ormai lontanissimi.
Per questo motivo, leggiamo e ascoltiamo analisi completamente fasulle sulle migrazioni e la propaganda di una parte diventa il nuovo “senso comune”.
Il migrante diventa così solo un oggetto sballottato in mezzo a decisioni più grandi di lui, che pare non avere nessuna capacità decisionale. Ridotto a pura materia da trasporto. Un secolo di studi azzerati, potremmo dire, con un tweet.
E anche chi si muove “con le migliori intenzioni”, pare avere come fine soprattutto l’esaltazione del proprio ego caritatevole e come modello quello dello “Zio Tom” (con i servizi televisivi, rilanciati sui social, e francamente razzisti, sul “negro” buono che restituisce il portafoglio. Una immagine che non temerebbe confronti con l’Alabama. Anche i cani, per dire, riportano i portafogli).
Eppure, sappiamo che non è così e sappiamo che le questioni delle migrazioni sono complesse, diverse nei vari periodi storici, dove le ragioni sociali, economiche, geopolitiche, si intersecano e si mescolano con quelle individuali, con le “catene” familiari, con le possibilità di scelta. Per non parlare del superamento, ormai ventennale, dello stesso concetto di “sradicamento” che oggi viene a più riprese utilizzato in maniera pedissequa in analisi Malthusiane dei movimenti umani.(1)
Insomma il “soggetto” migrante scompare. Già, “migrante”. Il termine è particolarmente indicativo, non si parla più di immigrati ed emigrati ma di migranti, racchiudendo ideologicamente in una categoria, per così dire, destinata per l’eternità al “movimento”, il pericolo per la “disgregazione” identitaria della società.
Spesso si ammantano queste ricostruzioni sotto la veste di un geo-politicismo d’accatto nel quale gli uomini appaiono pedine, eccetto che per il fatto che dovrebbero “opporsi” (chissà in che modo) allo sfruttamento delle loro terre, in una visione degna dei racconti di Dickens, più che di analisi reali e realistiche sui rapporti di forza, le connessioni internazionali e dove il “capitalismo” non è più un sistema socio-economico ma il “moloch” maligno. Ma solo, ovviamente, quando opera in Africa.
Già, ma in tutto questo quale sarebbe il ruolo salvifico di Salvini, in questo gioco di parole involontario?
Nel fatto che quello che il Ministro dell’Interno ha semplicemente sollevato il sepolcro su un modus operandi, ben noto ma occultato, peraltro senza neppure alzare tanta polvere, considerando che la sua azione è soprattutto basata sulla propaganda.
È vero, il linguaggio è importante. E possiamo senz’altro affermare che il salto di qualità “linguistico” salviniano appare non secondario. La sfida alla magistratura (che però avviene in un paese nel quale troppo spesso si è “tifato” per uno dei maggiori poteri dello Stato, spesso scambiato per Robin Hood, quando una mera analisi materialista avrebbe dovuto dare più retta a Marx che a Weber), il disprezzo evidente per la minima empatia, l’indifferenza per la sofferenza altrui (e anche un malcelato anticomunismo che in Italia appare da anni un vero “bene comune” trasversale) non possono che ispirare disprezzo e anche ribrezzo in ognuno di noi.
Anche se ribrezzo e disprezzo, così come il “buonismo” e “cattivismo”, non dovrebbero essere le basi per una discussione politica e che ormai appartengono al declivio pre-politico e infantilizzante che caratterizza lo scenario italiano da ormai un ventennio.
In realtà, seppure gli eredi del “più grande partito comunista d’occidente” si facciano oggi selfie sulle navi e sbraitino di fronte alla “barbarie”, possiamo francamente affermare che non sono credibili neppure a loro stessi.
E, giocando di rimessa, fanno il gioco dello stesso ministro.
Infatti, nella canea della propaganda a tutti i livelli, pare ci si dimentichi che in 20 anni sono morte nel mediterraneo oltre 30.000 persone, che non ha, evidentemente, ammazzato Salvini e che, scopo di tutti i governi che si sono susseguiti, è stato soprattutto quello di farne arrivare meno.
Facendo accordi con la Libia (nel frattempo bombardata dalla potenza neocoloniale francese che ha provveduto alla eliminazione fisica di Gheddafi comportandosi esattamente come le potenze del secolo scorso) senza pensare minimamente alle conseguenze sulle “persone” che anche nello sguardo “della sinistra” non sono altro che oggetti e non soggetti.
La legge Bossi-Fini, nell’alveo della deriva securitaria legata all’immigrazione (e accettata “senza discutere” da destra, da sinistra e dal centro) non è stata minimamente toccata da nessun governo, bene attento, nell’epoca della fine della politica, a non perdere il consenso dei propri elettori-fidelizzati.
Il gioco Salviniano sull’emigrazione è quindi composto in massima parte da propaganda, tesa a celare la natura iperliberista della lega. Un partito (il più vecchio partito oggi in Parlamento e l’unico con una struttura reale) che governa le regioni più ricche d’Europa e che, soprattutto, ha in quelle classi dominanti la propria vera rappresentanza.
La secessione delle regioni ricche e la natura iperliberista (La Lombardia ha il sistema sanitario più privatizzato d’Italia) dovevano essere celate dietro una “narrazione” che andasse bene da nord a sud.
Questo cambio d’abito della Lega (nella quale del resto, oltre al secessionismo bossiano ha sempre visto la presenza di personaggi in stretta connessione con l’estrema destra italiana ed europea) doveva basarsi su un “quid” condiviso. Quale, dunque, “unificatore” migliore se non quello già a portata di mano dai presunti avversari: ovvero l’immigrazione?
Si badi bene, al di là della risposta pavloviana della “sinistra” che pensa di attaccare Salvini ponendo l’attenzione sul corazziere “nero” (2) (in un delirio di razzismo “con le migliori intenzioni”) che la Lega oggi non attacca i “neri” ma i “neri clandestini”, portando ad esempio i “neri” buoni e integrati (di cui il nord non potrebbe fare a meno) ma non parlando di quelli meno “integrati” e sfruttati al sud. Manodopera indispensabile per poter competere con i pomodori pelati a prezzi stracciati nei nostri supermercati dove, periodicamente, “il cuore si scioglie” (a forma di salvadanaio avrebbe detto De André).
Questa separazione serve per creare una comunità del “noi” contro “loro” che non potrebbe funzionare con il “razzismo” semplice. Del resto questa caratteristica della fase attuale del capitalismo post-moderno era stata ben analizzata oltre venti anni fa da studiosi seri.(3)
In più l’attacco costante alla Francia, copre anche l’interesse delle classi dominanti, considerato che in Africa si gioca una partita geopolitica ed economica non secondaria.
Per questo non è il caso di prendere sottogamba, non dico Salvini, ma il momento storico, nella fase in cui i capitali in concorrenza devono trovare altre modalità per nazionalizzare le masse (o rinazionalizzarle) sottraendole allo scontro di classe, negato, peraltro, da tutte le forze in campo a livello istituzionale.
La partita è seria e non è giocando sul piano sentimentale che può essere vinta, o anche solo combattuta. Non dimenticando che oggi l’asse politico è tutto spostato a destra e che si attacca la superficie della “barbarie linguistica” per non attaccare la sostanza del dominio assoluto del capitale.
E di cui questa Unione Europea pare dare il sigillo finale, dimostrando la propria incongruenza, anche nella non-gestione non tanto dei flussi migratori, ma dell’assurda modalità dei barconi (dove tutta la filiera estrattrice di valore pare al lavoro: dagli scafisti, ai mediatori, alle cooperative di assistenza e alla stessa azione delle ONG, che, pur nella loro benemerita azione non paiono accorgersi della loro “necessità intrinseca” al sistema, esattamente come le dame di carità. Risolvono problemi, ma non affronteranno mai il problema, e, forse, non è neppure affar loro).
Una modalità che potrebbe essere risolta ed evitata con risorse (che ci sono), programmazione e visione un po’ più lunga. Smontare la narrazione salviniana è certo doveroso, ma se si rimane sul conflitto linguistico ci saremmo solo ripuliti la nostra “falsa coscienza”. Per dirla con Lenin:
“La matematica può esplorare la quarta dimensione e il mondo di ciò che è possibile, ma lo zar può essere rovesciato solo nella terza dimensione.“

Andrea Bellucci

1 La bibliografia sulla storia delle emigrazioni italiane e di quelle straniere in Italia è sterminata. Per le prime mi limito a segnalare un volume collettaneo che può essere un ottimo punto di partenza: M. Sanfilippo, P. Corti, “Storia d’Italiana. Annali. 24. Migrazioni”, Einaudi, 2009. Per le seconde un testo uscito recentemente: M. Colucci, “Storia dell’immigrazione straniera in Italia”, Carocci, 2018.
2 E chi non poteva non rilanciare la notizia se non l’alfiere dell’antiberlusconismo d’assalto prima (che ha fatto sì che Berlusconi durasse venti anni) e dell’antisalvinismo d’accatto poi, come “La Repubblica”? https://www.repubblica.it/cronaca/2017/06/12/news/dall_adozione_in_brasile_al_quirinale_la_favola_del_corazziere_nero-167918462/
3 S. Palidda “Polizia postmoderna”, Feltrinelli, 2000.