I GILET GIALLI PADRONI DELLA LORO MISERIA

I gilet gialli sono ancora in piazza nel terzo mese della protesta e la Presidenza Macron è sempre più l’ombra di se stessa. Analisti e politologi sono impegnati ad analizzare le cause strutturali del disaggio che i manifestanti esprimono, a cercare di capire la radicalità del movimento e si fanno domande sulla durata della mobilitazione senza rendersi conto che questa protesta che nasce come risposta ad un bisogno profondo e viene alimentata dalla frustrazione di non aver risolto nessuno dei problemi che si era posto. Il movimento non media: ha dichiarato degli obiettivi e vuole raggiungerli perché sono vitali. Non ha niente da perdere, tutto da guadagnare.

Mentre il Presidente riconferma il suo obiettivo di una riforma complessiva e strutturale del mercato del lavoro e del sistema di welfare, e semina promesse sotto forma di bonus e esenzioni dalle imposte, i manifestanti sanno bene di essere padroni solo della loro miseria. I costi della vita sono cresciuti e nuovi bisogni essenziali si sono aggiunti al paniere delle spese fisse. Accanto all’affitto, all’illuminazione, il gas e l’acqua bisogna provvedersi obbligatoriamente dell’accesso alla rete e ai social, bisogna disporre di un telefono mobile, perché gli impianti fissi pubblici non esistono più, bisogna avere obbligatoriamente un’auto, per fare la spesa, come per farsi curare. Negozi e ospedali sono lontani e spesso difficili da raggiungere. Così una quota sempre più grande del salario, incerto e precario, è destinata a spese fisse, è assorbita dai costi minimi di vita, al punto da diventare sempre più insufficiente per procurarsi i beni essenziali già alla terza settimana del mese. E’ scomparsa ogni garanzia e ogni forma di retribuzione differita, elargita attraverso l’accesso ai servizi la cui riduzione viaggia di pari passo con l’aumento delle tasse che dovrebbero essere utilizzate per fornirli. Ecco allora svilupparsi le ragioni della continua mobilitazione, della richiesta di dimissioni del Presidente, di un cambio purché vi sia, non importa rappresentato da chi e come, purché capace di assicurare quella quota minima di risorse per consentire una vita dignitosa, in grado di fornire almeno una possibilità, giorno per giorno, di procurarsi l’indispensabile per vivere.

Un movimento senza testa

A mobilitarsi è la gente qualunque, quella che non si è mai impegnata, che “non ha fatto politica”, che anzi di politica non vuol sentir parlare. Sa solo di star male, di sentirsi abbandonata, di non vedere prospettive per oggi e per il futuro. Gente priva di “abitudini politiche”, non impegnata in organizzazioni sindacali o partiti, non abituata a confrontarsi e a discutere, ma che sa alcune cose: del potere non ci si fida, con il potere non si tratta, si esige, si impone. Come ? Impedendogli di vivere, sovvertendo le abitudini: si bloccano i trasporti, il traffico, le autostrade ai caselli, i rifornimenti di carburante, si impedisce che l’alveare continui a funzionare.
E’ come impedire al sangue di circolare. Si blocca la macchina dei movimenti frenetici, degli spostamenti, delle relazioni, degli scambi. E ci si mobilita di sabato perché bisogna pur cercare negli altri giorni di procurarsi un minimo di risorse per continuare ad esistere.
Partiti e sindacati sono stati presi alla sprovvista, si affiancano, supportano, sostengono, ma sono spesso rifiutati, soprattutto se e quando tentano di dettare le propria egemonia sul movimento, cercando di dirigerlo, di indirizzarlo. Molte organizzazioni si sono sciolte nella mobilitazione e hanno cercato di diventare tutt’uno con le persone che scendono in piazza. Altri sono rimasti ai margini, altri ancora sostengono che il movimento è irrazionale, che non ragiona, che è privo di una guida politica e perciò si ritraggono. Sono soprattutto gli intellettuali e i medio borghesi a prendere le distanze quando non una parte di operai.
E’ vero il movimento non ha guida, è ingenuo, è giovane come tempo di vita, ma vede la presenza di molti vecchi e di persone di “mezza età”, gente disillusa, che ne ha viste tante. Che si era da sempre rifluito nel personale – come direbbero gli intellettuali di sinistra – e che magari ingenuamente aspetta le elezioni europee per farsi partito e presentarsi alle elezioni e così morire. Non ha caso lo slogan più diffuso è “Macron dimettiti”, ma per fare cosa, per lasciare il posto a chi, con quale programma con quali prospettive, questo, non lo sa nessuno, né il al limite, vuole saperlo. L’unica certezza è che così non va, non può andare avanti.
Il potere e le istituzioni sperano di domare la protesta per stanchezza; la politica prende tempo senza rendersi conto che non ne ha molto. Se la mobilitazione e la protesta sociale continua finirà per accumulare esperienze, produrre solidarietà, stimolare conoscenze, produrre inevitabilmente organizzazione.
Certo non c’è alcuna garanzia di un esito positivo né a livello di crescita di consapevolezza, tanto meno di organizzazione di massa capace di un programma e di una proposta alternativa, ma ancora una volta le condizioni materiali non lasciano scampo e costringono sulla piazza e nelle strade una massa di umanità sofferente e senza speranza che tuttavia non si rassegna.

L’arrivo degli studenti

Recentemente hanno deciso di scendere in piazza anche gli studenti e non per solidarietà o come massa di manovra del movimento dei gilet gialli, ma spinti dalla crescente consapevolezza di non avere prospettive accettabili di un futuro desiderabile. La scuola non fa più da ascensore sociale e molti di loro sanno che andranno a incrementare quella massa di sfruttati, informe ed anonima, che non ha trovato di meglio che indossare uno strumento di emergenza per segnalare la drammaticità della propria condizione. Non è impossibile che queste due componenti della società si incontrino. Ciò che manga ad ambedue le componenti della piazza è il legame con l’etica del lavoro, intesa come aristocrazia politica, come classe capace di darsi una propria coscienza in rapporto al ruolo nell’apparato produttivo, ma forse le condizioni stesse del mercato del lavoro impongono di riflettere sull’equazione tra lavoro e dignità.
Chi protesta oggi indossando il gilet giallo sa di essere una sola cosa: consumatore. Un consumatore delle briciole di volta in volta lasciate sul tavolo, dopo un lauto pasto, e questo lo sa bene anche il Governo il quale non a caso ha promesso l’aumento di 100 € senza una politica di potenziamento dei servizi, ha sospeso la tassa ecologica sui carburanti, ma si guarda bene dal proporre una politica di sviluppo dei servizi infrastrutturali dei trasporti e della mobilità. Promette di ridurre le tasse e intanto continua a ridurre i servizi relativi alla salute, alla salvaguardia dell’ambiente, alla produzione e distribuzione dell’energia. Si guarda bene dal proporre la reintroduzione della tassa patrimoniale abolita da Macron e quella sulle successioni, anche se questo sarebbe il solo modo per reperire risorse da destinare a investimenti collettivi. L’obiettivo del Governo rimane lo smantellamento del welfare e delle garanzie collettive e sociali, individualizzando il più possibile le posizioni sociali di ognuno e il rapporto diretto tra datore di lavoro e dipendente. Questa politica rientra negli obiettivi del Governo perché diminuisce il ruolo redistributivo egualitario dello Stato e individualizza i rapporti sociali, rinchiudendo ognuno nella propria situazione personale, chiamandolo a gestire la propria miseria all’interno di una ineguale competizione tra soggetti individualizzati nei loro rapporti sociali e produttivi.

Crescere o morire

A fronte di questa situazione o il movimento cresce e si struttura, si da un programma, sfuggendo alla trappola dell’istituzionalizzazione attraverso la partecipazione alle elezioni europee oppure è destinato a morire, ad estinguersi per stanchezza, salvo riesplodere come rabbia sociale all’improvviso. Questa seconda ipotesi non è sgradita al potere il quale ritiene che con una politica repressiva sulle piazze, fatta di un ricco arsenale di nuove armi, da quelle stordenti ai proiettili di gomma alle granate sonore ecc. si può riuscire a contenere la piazza, aspettando che arrivi la nuova ondata di contestazione. In fondo per governare non è necessario il consenso ma, come dimostrano le ultime elezioni in Francia ma non solo basta una quota minima di partecipanti al voto perché si costruisca una narrazione della maggioranza ottenuta con frazioni dei partecipanti al voto che spesso non superano un quarto degli aventi diritto al voto.
Si dirà che è la fine della democrazia liberale e rappresentativa. Ebbene si ma dov’è il problema se le élite possono conservare e dividersi la gestione della società e soprattutto se si consente la continuazione del processo di concentrazione delle ricchezze nelle mani di un numero sempre minore di soggetti che le detengono?
Su tutto questo dovrebbe riflettere la sinistra e cercare di capire come riuscire a parlare un linguaggio comune, comprensibile e udibile dai diseredati e cioè da chi combatte giornalmente per mettere insieme risorse che gli permettano di sopravvivere, chi non ha niente e deve vivere di espedienti, gli immigrati che costituiscono una frazione sempre più emarginata da quell’esercito di persone informi che sono solo proprietari della loro miseria.

La Redazione