LA GRANDE STRAGE SENZA RIVOLUZIONE

Sono trascorsi pochi giorni dal 4 novembre 2018, cento anni dalla fine di quella che resta la più grande guerra di sempre. La successiva sarà molto più sanguinosa, ma anche molto più estesa, ma il conflitto del ‘14-’18 (1915 per l’Italia) resta il più devastante per le modalità e per la novità. Lo sviluppo enorme della tecnologia, a seguito della seconda rivoluzione industriale e il periodo di pace (in Europa) sufficientemente lungo da dare l’illusione che le guerre fossero rimaste quelle di mezzo secolo prima produssero una bolla spazio temporale che si rivelò tale quando era ormai troppo tardi.
Eppure, la guerra di secessione americana e quella Russo Giapponese avrebbero dovuto dare dei segnali su cosa fosse già diventata la guerra e quali le enormi capacità distruttive di un apparato bellico sempre più micidiale.
Sicuramente, le classi dirigenti e, come sempre, quelle dominanti, avevano messo in conto un gran numero di morti, ma non quel numero e, comunque, pensavano ad una durata assai minore della guerra. L’obiettivo era allontanare ogni prospettiva di rivoluzione di classe. Soprattutto, non avevano pensato che quella guerra avrebbe chiuso un mondo, per sempre. L’Italia, fra i paesi europei in guerra, era quello dove l’inserimento delle masse nello Stato era ancora insufficiente, se paragonato alla Francia o alla Germania (con la “nazionalizzazione” autoritaria ma funzionale della “kultur”). Il bassissimo livello di alfabetizzazione e di votanti, il disprezzo e la diffidenza verso le classi subalterne, l’incapacità di comprendere la realtà di una società ormai di massa, si rifletterono nel comportamento, denudato da ogni parvenza di civiltà, all’interno dell’esercito.
Così come nella società liberale italiana il classismo era un tratto fondamentale e distintivo, rispetto alla maggiore integrazione nel sistema capitalistico delle altre nazioni europee, anche i rapporti fra gli ufficiali e la truppa furono condotti all’insegna della diffidenza, del disprezzo, della distanza “castale” (e ormai obsoleta nella società borghese di massa). Così oltre ai consueti massacri, tipici degli altri eserciti e tipici quella guerra (assalti inutili per conquistare pochi metri di terreno, sacrificio di centinaia di migliaia di uomini con brutale indifferenza) la guerra italiana fu condotta con estrema brutalità anche sul piano di una disciplina ottusa e ferrea, responsabile pure di una drammatica inefficienza militare.
Il sistema delle “decimazioni”, le migliaia di condanne a morte, spesso per episodi tragicamente ridicoli, 1 l’incapacità di capire le sofferenze dei soldati, di curarsi della loro salute fisica e psichica, non fosse altro che per aumentare la stessa efficienza dell’esercito, caratterizzarono il sistema militare italiano fino a Caporetto e oltre. Ma anche la sostituzione di Cadorna con Diaz, se pur migliorò perlomeno la considerazione e lo status dei soldati, non allentò questa permanente diffidenza verso la truppa. La stessa diffidenza che lo Stato Liberale aveva verso le classi subalterne e delle quali in quella condizione, poteva ora disporre in maniera totale. Basti pensare alla tragica storia dei prigionieri di guerra, considerati tout-court come traditori e che furono lasciati morire a migliaia (si conteranno 100.000 morti in stato di prigionia), impedendo persino, a differenza ad es. della Francia, di far consegnare pacchi e viveri dalle famiglie e dalla croce rossa. 2
È interessante notare che mentre nei paesi più integrati, i partiti socialisti votarono i crediti di guerra, in quanto le classi subalterne appartenevano alla nazione nella sua veste interclassista, in Italia il Partito Socialista fu assai più cauto verso la guerra, ma anche esso non riuscì ad opporsi e a proporre quella rivoluzione (peraltro impossibile) che la sua base maggioritaria massimalista dichiarava essere il suo obiettivo. Malgrado le grandi manifestazioni del 1914, la guerra voluta da una minoranza di guerrafondai bellicisti e dall’industria, ma avversata dalla massa degli italiani e finanche dal governo, provocò un riallineamento golpista che trascinò anche tanti intellettuali di sinistra (Lussu, Parri, Togliatti, Pertini) che saranno poi protagonisti della lotta antifascista.
Ma questo riallineamento se fu subito dalla massa dei soldati è non provocò sollevamenti rivoluzionari, ma sommosse (come ad esempio accadde in Francia e in Italia 3 ) ma solo proteste limitate delle quali i partiti della sinistra non assunsero la paternità.
Gli anarchici avevano esaurito le loro forze nel tentativo di rivolta preventiva alla guerra durante la Settimana rossa e misero in campo la loro proposta rivoluzionaria nel biennio successivo alla guerra (1919-1921), traditi dalle forze socialiste dilaniate da profonde divisioni. Proprio questa inazione, paradossalmente, si riversò contro quelle stesse forze che furono poi accusate di disfattismo di aver propagandato la diserzione fra i soldati. Ovvero, proprio quello che non fecero.
Quella massa di operai e contadini, gettati nell’inferno di un massacro industriale, non ebbero, al loro ritorno, nessuna delle promesse fattegli e, anzi, di loro si interessò poco anche la sinistra, adesso impegnata nella più grande occupazione delle fabbriche e che portò alla più drammatica sconfitta del movimento operaio. Chi invece strumentalizzò i soldati e capì che quella debole integrazione delle masse nella nazione sarebbe stata un occasione d’oro per proporsi come difensore del popolo (di quel popolo) fu Benito Mussolini, che sul reducismo e sulla “vittoria mutilata” costruì una parte importante del proprio progetto politico (anche se i combattenti erano ben lungi, alla fine della guerra da essere interessati in massa verso il fascismo). La lezione di quella guerra è molteplice e complessa, ma segnala che la nazione fu in grado di operare ben al di là dell’internazionalismo proletario, che fu il vero sconfitto di quella temperie. Un internazionalismo che non aveva compreso la forza di integrazione dello Stato moderno, il quale non è solo repressione, ma anche integrazione, difesa, propaganda, e che andava studiato meglio per poter essere superato da una propaganda internazionalista e soprattutto da un’azione più efficace.
Paradossalmente, ma non troppo, proprio i paesi in cui l’integrazione era stata meno efficiente, come l’Italia, avrebbero potuto vedere un diverso approccio delle masse e dei gruppi dirigenti socialisti.
Ma anche qui l’integrazione disciplinare funzionò comunque e così i proletari dei diversi paesi invece di unirsi si massacrarono nelle trincee evidenziando che la ricetta per la rivoluzione socialista ha bisogno di alcuni ingredienti non sempre chiariti dalla teoria. E infatti la rivoluzione scoppiò nel paese più arretrato di tutti, dove le masse erano integrate al livello più basso e dove l’arretrato sviluppo sociale e industriale permise davvero di sentire quella guerra come una strage del tutto lontana dalla loro vita.
L’Italia e poi la Germania invece si avviarono su ben altre strade con ritmi ed esperienze diverse. Nel secondo dopoguerra l’internazionalismo si rivestì del colore nazionale avviando la grande epopea della decolonizzazione in cui la lotta sociale andò di pari passo con la liberazione sociale. In quei paesi si era capito che bypassare il livello nazionale dello scontro, lasciandolo alle forze reazionarie, impediva qualunque ipotesi di rivoluzione. In quei paesi, ma non certo in occidente e manco che meno in Europa, avviata, fino al 1975, al compromesso fra capitale e lavoro e verso una integrazione difficoltosa ma dove si riconosceva almeno la presenza del conflitto sociale. Conflitto sociale che è stato invece accantonato negli ultimi 30 anni e che sta risorgendo adesso con venature
nazionalistiche e non più egemonizzato dalla sinistra. Ma se la sinistra non comprende oggi come allora l’elemento nazionale (che non è mai neutro) anche e soprattutto nell’epoca della globalizzazione, perderà di nuovo e per molti anni ancora il contatto con il proprio popolo, abbandonandolo come ha fatto sin qui non nelle trincee della guerra ma in quelle, meno sanguinose certo, ma assai distruttive, del precariato, del mercato come unico orizzonte e dell’impossibilità di uscire da un sistema sempre più problematico.
E, oggi come 100 anni fa, potremmo uscirne in maniera traumatica.

Andrea Bellucci

1 Vedi, ad esempio, http://pochestorie.corriere.it/2017/10/16/alessandro-ruffini-lartigliere-fucilato-per-un-sigaro/?fbclid=IwAR0N09-XX-1LD30gv1lNU_aB8Hbhowr_eP8Q9uLRe4zTC2J_iejsG6RP56g
2 Per queste vicende vedi M. Isnenghi. G. Rochat, La grande Guerra. 1914-1918, La Nuova Italia – ora edita dal Mulino) .
3 E. Forcella A. Monticone, Plotone di Esecuzione, I processi della prima guerra mondiale, Bari Laterza 1968.