LA BREXIT VISTA DAL REGNO UNITO

Sono ormai un paio di anni che gli elettori del Regno Unito hanno votato a stretta maggioranza per l’uscita dall’Unione Europea. Le modalità dell’operazione sono ancora poco chiare, nonostante la premier Theresa May abbia solennemente promesso di concludere il processo separazione per la fine di marzo del 2019, fissando perfino l’ora alla mezzanotte (tempo dell’Europa Centrale, non di Greenwich, sic!).
Eventi come la Brexit o l’elezione di Trump sono apparsi come fulmini a ciel sereno e qualcuno accusa la Russia per interferenze indebite sui social. Io credo che gli interventi russi abbiano al massimo rappresentato la classica goccia che fa traboccare un vaso che non si sapeva pieno. Analisi un minimo serie post-voto hanno mostrato che il principale contributo al successo per I sostenitoro della Brexit è venuto sia da aree de-industrializzate (tipicamente nel nord dell’Inghilterra) che un tempo votavano laburista e sono ora affette da una povertà crescente, che dalla componente più anziana della popolazione.
In entrambi i casi non si può parlare di una sorpresa. La combinazione della difficoltà di trovare lavoro, con il senso di appartenenza, tuttora molto radicato, ad un paese che è uscito vittorioso da due guerre mondiali, ha reso molti cittadini (a dire il vero, tecnicamente, sudditi) molto sensibili al messaggio che veniva continuamene reiterato dalla destra ed in particolare dall’UKIP della necessità di tornare ai vecchi tempi, tagliando i ponti con l’Europa (incidentalmente, qualche mese fa, Boris Johnson, uno dei falchi fra i brexiters ha invece proposto la costruzione di un vero ponte sulla Manica: la mamma dei cretini è sovranazionale) e riducendo le quote di migranti di ogni tipo.
In questo clima che ricorda parzialmente quanto avviene in Italia, aggiungiamo una classe politica mediocre  (qui l’analogia è più forte), che ha pensato di cavalcare l’ondata di protesta per rafforzare la propria posizione politica e che invece ha fallito miseramente.
Mi riferisco in primis all’ex-premier Cameron che aveva pensato di assecondare l’UKIP nella proposta di un referendum sulla permanenza nella UE, nella speranza di ottenere due piccioni con una fava: rimanere in UE confermando l’utilità dei negoziati che aveva appena concluso e riguadagnare supporto di parte dell’elettorato che si stava spostando verso l’UKIP.
Gioco pericoloso (come abbiamo visto) e reso ancora più tale, da rapporti personali tipici nella leadership dei Tories, spesso composta da personaggi che vengono dai college più esclusivi dove si sono conosciuti e spesso hanno iniziato una serie di ripicche personali.
In questo caso il college è quello di Eton ed il contendente di Cameron è tale Boris Johnson che all’interno dei conservatori si è fatto sostenitore del Leave più per mettersi in antitesi a Cameron e per sottrargli la sedia di premier, che per la convinzione che un Regno Unito indipendente avesse più chances di svilupparsi, rispetto ad un Regno Unito “europeo”.
E’ stato però chiaro da subito che i sostenitori del Leave non avevano un benché minimo piano di lavoro, e questa carenza è diventata sempre più evidente con il passare del tempo.
Durante la campagna elettorale, uno dei punti di forza del Leave era il rientro da Bruxelles di 350 milioni di sterline alla settimana, da poter investire nel sistema sanitario nazionale (NHS) che era ed è attualmente in sofferenza: musica per le orecchie di una popolazione che sta invecchiando e sperimenta giorno dopo giorno i problemi di un sistema che non è più efficiente come un tempo (incidentalmente in UK si muore in corsia di ospedale come in Italia).
Peccato che nemmeno 24 ore dopo l’esito del referendum, gli stessi vincitori si sono affrettati a dire che la promessa non era vera (scritta perfino sui lati degli autobus usati durante la campagna) e che erano stati fraintesi (qualche orecchio che fischia in Italia?).
Sta di fatto che un anno e mezzo dopo, quando che il governo britannico è stato costretto a rendere pubblica un’analisi commissionata dal governo stesso sugli scenari futuri possibli, si è venuti a sapere che tali scenari prevedono una riduzione dal 2% all’8% delle entrate, con una perdita secca pari a 615 milioni di sterline alla settimana nell’ipotesi preferita dal governo.
Queste sono ovviamente previsioni che possono essere errate in una qualunque direzione. E’ però un dato di fatto che l’11% delle industrie manifatturiere hanno perso contratti con i paesi dell’UE.
Inoltre, l’Ukip è praticamente scomparso dalla scena politica (forse questa è l’unica nota positiva), dimostrando che la prospettiva di un Regno Unito pienamente indipendente non era il punto di partenza per chissà quali politiche di sviluppo, ma frutto di una propaganda fine a se stessa.
Qualcuno per un pò ha proposto l’idea di trasformare il Regno Unito in un paradiso fiscale in grado di attrarre investimenti da tutte le parti del globo. L’idea non è durata molto: è stato sufficiente rendersi conto che un paese con una sessantina di milioni di abitanti non può permettersi di azzerare le tasse.
L’idea di siglare accordi di commercio speciali è un’altra ipotesi ricorrente, ma cosa può offrire il Regno Unito, senza la grande massa del mercato interno europeo?
Nei fatti, si accumulano dichiarazioni di nazioni che, prima di siglare accordi con la Gran Bretagna, vogliono vedere che tipo di accordi verrano firmati con l’UE (vedi Cina). Si legge perfino che una UE senza la Gran Bretagna avrebbe più probabilità di successo nel firmare accordi con l’India (i britannici temono l’immigrazione).
La lotta all’immigrazione è stato infatti uno dei punti cardine della propaganda del Leave, ma anche se non ci sono ancora nuovi regolamenti, ci sono però più problemi di prima, a partire dal sistema sanitario, dato che una frazione non trascurabile del personale paramedico è straniera (principalmente polacchi): azzerarne il flusso rischia di metter l’NHS in ginocchio. Nel frattempo la lotta agli immigrati viene comunque portata avanti perché è ancora un buon specchietto per le allodole, ma sta ingenerando effetti assolutamente non previsti.  Nel dopoguerra, l’immigrazione dai paesi del Commonwealth è stata fortemente incoraggiata, ma in alcuni casi non è mai stata pienamente formalizzata, con la conseguenza che, adesso con l’apertura della caccia al migrante, si legge di persone che pur vivendo in Gran Bretagna da più di 40 anni, vengono improvvisamente dichiarate indesiderate (e messe in lista per il rimpatrio) o di persone a cui viene negato l’accesso al sistema sanitario, nonostante abbiano pagato i Contributi per tutta una vita.
Per il momento gli accordi preliminari firmati con l’UE sono del tipo che formalmente rimane tutto come prima. Quanto può andare avanti il governo britannico nascondendo l’esistenza di cambiamenti (positivi)?
Il governo ha un bisogno talmente disperato di sventolare qualche cambiamento che ha sbandierato il cambiamento di colore del passaporto che tornerà ad essere blu dopo più di 20 anni. Incidentalmente, non erano obbligati a produrlo marrone e per di più la ditta che produrrà i nuovi passaporti è franco-olandese, perché quella inglese ha perso l’appalto.
Vogliamo infine parlare dell’ostacolo più insormontabile, il confine fisico in Irlanda, legato a turbolenze ed attentati fino a non troppo tempo addietro e la cui eliminazione fa esplicitamente riferimento alla legislazione europea che sta per essere dismessa?
La reintroduzione del confine sarebbe un pessimo segnale che metterebbe in difficoltà l’economia locale. Molte attività sono nate, che richiedono un continuo attraversamento del confine, incluso ambulanze che vanno avanti e indietro e non si vede come questi problemi possano essere superati.

Antonio Politi