LA SINISTRA TRA NAZIONALISMO, SOVRANISMO E REGIONALISMO

Di fronte al manifestarsi del crescente protezionismo che caratterizza la politica degli Stati Uniti  e all’affermarsi dei partiti sovranisti e populisti anche da parte della sinistra si tende a guardare a queste scelte come una risposta alla globalizzazione e ai danni che essa ha prodotto, offrendo al capitale finanziario senza frontiere e senza regole uno spazio illimitato per gestire produzione e finanza, per massimizzare i profitti, scompaginando ogni possibile resistenza operaia e di classe. Grazie alla globalizzazione il capitalismo combatte con un’arma efficace la guerra di classe e la vince, tanto che il ruolo e il valore politico e del lavoro sembra scomparso. I lavoratori di tutto il mondo vengono giocati sui diversi mercati e chiamati a produrre a sempre minor costi e con sempre minori diritti per far fronte alla concorrenza sui mercati. Il capitale sposta investimenti e lavoro da un territorio all’altro del pianeta e con tecniche di rapina investe, desertifica il territorio e poi l’abbandona, alla ricerca di sempre nuove risorse da sfruttare, di nuovo suolo da consumare di lavoratori di un diverso paese da spremere per trarne il massimo profitto.
All’internazionalismo dei proletari si è sostituito in tutti i sensi l’internazionalismo del capitale, il quale proprio mentre espande l’utilizzazione della forza lavoro e lo sfruttamento, mentre concentra sempre più la ricchezza nelle mani di pochi e getta nella miseria più del 90 % della popolazione mondiale abbandona anche gli strumenti della democrazia liberale e il parlamentarismo per far prevalere le plutocrazie e il potere diretto della finanza e dei tecnocrati.
I ceti che si occupano della gestione politica della società sanno bene che ogni sistema statale – ovvero quel recinto istituzionale che, delimitato un territorio, lo governa – può sopportare senza alcun timore di crollare un 40 % circa della popolazione marginalizzata e estranea dal gioco politico formale delle elezioni. Sa bene di riuscire a detenere le azioni di maggioranza del governo attraverso il possesso di una quota di consenso pari al 25% circa del totale dei votanti, resa istituzionalmente prevalente grazie all’adozione di sistemi maggioritari. La chiave di volta dell’efficacia di questo dominio è il fattore tempo, è cioè costituito dalla rapidità con la quale si devono adottare le decisioni per seguire il flusso della dinamica di mercato e quindi dal decisionismo che si impone, creando a livello istituzionale premi di maggioranza e benefit di potere concessi e riconosciuti di volta in volta a questa o quella fazione partitica.
Lo Stato di diritto non esiste più ed è comunque scomparsa ogni forma di democrazia liberale mostrando – se ce ne fosse bisogno – che lo Stato è una funzione del capitale e del mercato, è lo strumento con il quale le classi dominanti gestiscono il loro potere sempre più concentrato nelle mani di pochi.
Di fronte a questa strategia del capitale i partiti che nei secoli passati erano sorti per difendere gli interessi delle classi subalterne si sono lasciati ammaliare dalla globalizzazione, si sono illusi di poter governare il processo di trasformazione indotto dall’apertura alla circolazione dei capitali, delle merci e della produzione, pensando che il processo in corso si traducesse per in maggior benessere per tutti. Hanno dimenticato che già nella seconda metà del XVIII Adam Smith, analizzando le capacità politiche della classe dominante, indicava nel progredire del processo di globalizzazione l’obiettivo principale del capitale finanziario e che quindi siamo di fronte al massimo sviluppo del capitalismo, piuttosto che ad ua società radiosa dalle mille opportunità, gestibile come ha pensato di fare la socialdemocrazia nella seconda metà del secolo appena terminato, per dar vita a una più equa distribuzione delle risorse e dei beni.

La risposta nazionalista e sovranista.

Di fronte al fallimento della sinistra politica e sociale nella sua capacità di offrire un’alternativa al dilagare del potere del capitale  e alla globalizzazione si erge ora questi la destra si rivolge ai lavoratori, ai disoccupati agli emarginati, schiacciati dalla crisi e alimenta l’odio per quelli ancora più poveri, per i migranti  accusandoli di sottrarre risorse a chi è già stato espropriato di tutto.
Recenti risultati elettorali negli Stati Uniti come in Europa dimostrano che l’odio sociale paga e attribuisce alle destre politiche la rappresentanza di ceti e classi non più tutelate da alcuno. Il recinto della nazione e la sovranità sui propri confini vengono invocati come lo spazio vitale all’interno del quale garantire diritti negati. L’immagine suggerita è quella di una società ricca, ma dalle risorse limitate, insediate dall’esterno, sistematicamente depredata da assalitori esterni. La ricchezza prodotta appare tanta e disponibile a condizione di ridurre il numero di coloro che possono attingervi: una sorta di decrescita felice e programmata possibile a condizione di ridurre progressivamente coloro che possono attingervi.
Da qui l’idea di regolare il commercio attraverso una politica dei dazi, di limitare la circolazione delle persone contrastando l’emigrazione, l’adozione di politiche  demografiche incentivanti in determinati territori, purché alimentate dalle popolazioni autoctone: rimedi di apparente efficacia che non incidono in alcun modo sulla vera portata del problema. Il sistema di produzione capitalistico è per sua natura diseguale, caratterizzato dallo sfruttamento dell’uomo sull’uomo (e sulla donna) e quindi è irriformabile o come si era capito settant’anni fa :“Il capitalismo si abbatte, non si cambia”.
Volendo far smarrire questa consapevolezza la destra politica si inventa una narrazione che distribuisce a piene mani e racconta delle nefandezze del socialismo, cancella la memoria di classe, cancella l’esistenza delle lotte, distrugge ogni idea di comprensione del ciclo produttivo e di conoscenza da parte dei lavoratori dei meccanismi di accumulazione della ricchezza, alimenta il mito dell’eccellenza, della premiazione della professionalità e delle competenze, esalta la meritocrazia, fa intravedere l’esistenza di un ascensore sociale che permetterebbe a chiunque di “scalare” migliori condizioni di vita.
Eppure basterebbe guardarsi intorno per capire che il lavoro sempre più dequalificato, sempre più precario, sempre più incerto sempre più privo di diritti tanto che mentre diminuisce il lavoro aumentano i cosiddetti “lavoretti”.
L’illusione che esista una ricchezza delimitabile e difendibile in un territorio grazie all’esercizio della sovranità viene alimentata anche grazie all’inesistenza di una via alternativa suggerita dalla sinistra politica la quale non si rende conto dei problemi reali presenti nella società e recluta le sue truppe nei ceti della burocrazia e dei resti della classe media sperando che queste forze siano sufficienti, grazie ai sistemi maggioritari di rappresentanza di raggiungere la quota necessaria a far scattare il premio di maggioranza per gestire le istituzioni senza capire che su questa strada perde, proprio perché si è sottratta al dovere di rappresentanza della classe e degli interessi dei quali dovrebbe essere espressione.

Le nuove dimensioni della sovranità

Ciò che non si vuole capire è che nella fase attuale dello sviluppo produttivo e del modo di produzione capitalistico il rapporto tra popolazione e territorio, tra istituzioni e Stati si è irrimediabilmente modificato.
La dimensione globalizzata delle relazioni economiche e sociali impone di agire riferendosi a macro aree e perciò alla globalizzazione del capitale deve corrispondere una globalizzazione delle organizzazioni di classe e delle politiche di gestione del conflitto sociale, cercando di spostare lo scontro dimensioni quanto meno continentali.
Bisogna acquisire la consapevolezza che le politiche sovraniste, con riferimento agli ambiti nazionali, sono inevitabilmente destinati a fallire se non altro che per il peso, le dimensioni e la struttura diseguale delle economie in competizione, In altre parole di fronte alle politiche economiche di Stati Uniti, Cina, Russia o di grandi economie in ascesa come quelle indiana o brasiliana, occorre una risposta continentale dell’Europa che passa necessariamente per il diffondere una coscienza di classe in tutti i singoli paesi del continente, promuovere il coordinamento delle organizzazioni sindacali e di classe nei territori, sviluppare politiche comuni dando vita a un federalismo di tipo nuovo in Europa che parta dai popoli prima che dalle nazioni e dagli Stati.
D’altra parte non si capisce come sia possibile che singoli territori diseguali per popolazioni, risorse e dimensioni dell’apparato produttivo possano competere a livello mondiale in condizioni di pari accesso alla ricchezza prodotta e alle risorse del pianeta.
E’ perciò venuto il tempo di un nuovo internazionalismo capace di legare proposte alternative di gestione dei rapporti sociali e produttivi che investa contemporaneamente i diversi paesi del continente. Solo in tal modo potrà essere possibile sottrarre l’iniziativa alle forze sovraniste, le cui iniziative e proposte sono destinate al fallimento ma che tanti danni e tante sofferenze possono produrre per le classi subalterne dell’Europa.

Gianni Cimbalo