RECENSIONE: SUI FONDAMENTI FILOSOFICI DEL NEOLIBERISMO

Da tempo la redazione si è chiesta cosa la newsletter può fare per fornire una formazione-informazione ai nostri lettori e aiutarli a vincere la pigrizia che li spinge a evitare letture “impegnative”. Abbiamo deciso di iniziare con una Scheda analitica di lettura del libro: Friedrich Adolf von Hayek, “La presunzione fatale”, Rusconi 1988 ritenuto da molti fondamentale comprendere le ragioni del neoliberismo.

In sintesi

Un manifesto sui fondamenti filosofici del neoliberismo: le premesse sono errate e le conclusioni aberranti. La premessa è che non vi è alcuna vera dimostrazione delle proprie affermazioni, ma il solo modo per sostenerle sono le parole di altri pensatori, altrettanto opinabili. La premessa è che, come in Rousseau, l’uomo primitivo è solidale ed i suoi istinti innati sono altruistici, e qui confonde lo spirito di branco, che hanno anche i lupi o le iene, necessario a difendere il gruppo da un ambiente esterno ostile, con la natura, che non è solidale ma ferina. La conclusione è che il sistema capitalistico, chiamato “ordine esteso” si è sviluppato naturalmente per accrescere il benessere collettivo, violentando gli istinti naturali. Siccome non vi è alternativa possibile all’ordine esteso, ogni tentativo di mitigarlo con un correttivo solidaristico rappresenta un ritorno all’orda primitiva e quindi sarebbe distruttiva della civiltà così come la vediamo: città, benessere, arte, cultura e vite della maggioranza della popolazione. Ovviamente sfugge all’A. che è proprio lo stato naturale, degli esseri umani in conflitto tra di loro ad avere costruito un privilegio per coloro che erano più forti o più furbi; tutto quello che è successo ne è una conseguenza, ma ciò non significa che la situazione attuale non sia modificabile. Per l’A. però, ogni intervento che intralci il libero sviluppo della competizione umana è impossibile perché la ragione non può controllare lo sviluppo economico e sociale, troppo complessa ed estesa è la struttura del sistema, che può essere sviluppata solo dal controllo costituito dai prezzi di mercato. Ne consegue che, poiché questo è il migliore, o meglio l’unico, dei mondi possibili, tutto va bene e quindi i ricchi hanno avuto meno vantaggi dei poveri dal sistema capitalistico e se quest’ultimo ha comportato il sacrificio di qualche trascurabile vita individuale, questo rappresenta un male necessario, ma anche un sottoprodotto di minor conto. Infine, va detto che gli errori del socialismo sono trattati molto marginalmente, in contrasto con quanto fa intravedere il titolo, e in considerazione viene presa solo la forma sovietica del socialismo; nel complesso esso sarebbe un ritorno all’era primitiva; nessuna considerazione viene riservata allo sviluppo economico della Russia dopo lo zarismo, un’evidente contraddizione con i presupposti del saggio.

Lettura analitica:

· In premessa occorre segnalare un paradosso: l’incapacità della ragione umana a creare l’assetto sociale: si pretende di dimostrarla con l’uso della ragione stessa!
· A pp.32-33 il primo errore “fatale”: socialismo=totalitarismo, il socialismo viene tout court identificato implicitamente con l’esperimento russo; ciò denota scarsa conoscenza delle varie scuole socialiste.
· Il pensiero capovolto nel primo paragrafo del capitolo I (pp. 42-49): si sostiene che gli istinti innati dell’uomo sono buoni e solidali, ma validi solo per il piccolo gruppo in cui tutti si conoscono, ma inadatti nell’ordine “esteso” (creazione hayekiana), che necessita di impulsi culturali “cattivi” per sopravvivere, cioè dell’attività concorrenziale a proprio esclusivo vantaggio; questo perché solo una miriade di interazioni, complesso che sfugge a qualsiasi controllo della ragione umana, può reggere la civiltà. Di ciò non viene data alcuna prova “scientifica”, ma solo l’appoggio di alcune intuizioni, altrettanto prive di prova; di menti malate come quella degli A. che lo hanno preceduto. Gli errori sono molteplici: 1) gli istinti naturali sono ferini; 2) la necessità della cooperazione per la sopravvivenza dà origine alla civiltà; 3) questi istinti si riversano dall’interno del piccolo gruppo al suo esterno (i nemici); 4) con la nascita della messa a coltura nasce la proprietà privata e la necessità della guerra per la difesa del territorio; 5) gli individui più dotati fisicamente e mentalmente prendono il potere. Da qui gli istinti “cattivi” vengono socialmente ritenuti fondanti, mentre quelli solidaristici vengono confinati nella cerchia ristretta parentale ed amicale. La civiltà segna un’estensione progressiva degli atteggiamenti solidaristici a sfere sempre più larghe, ma sopravvivono gli istinti naturali ferini nell’esercizio bellico e nella competizione economica, strettamente legate tra loro.
· Si segnalano tre assurdità: 1) p.52 la guerra, momento eccezionale che richiede il coordinamento degli sforzi, fa emergere gli istinti naturalmente buoi degli individui; 2) p. 53 il potere ha ostacolato l’emergere dell’ordine esteso e dei necessari comportamenti concorrenziali e non solidaristici; 3) p. 53 “stranamente” la nuova morale “non buona” è stata primariamente accettata dalle “classi dominanti”.
· Le pp. 54-58 vorrebbero provare che la ragione e la morale sono biologicamente determinate dall’evoluzione sociale. Per sostenere ciò l’A. si scaglia contro gli scienziati perché “socialisti”. Sfugge che la ragione si sviluppa nel confronto col contesto ambientale e non è determinata dalle regole sociali, e che la morale è frutto della mediazione sociale nei relativi rapporti di forza e da essa scaturiscono le regole e non viceversa.
· Nelle pp. 58-64 ci sono molti fraintendimenti. Prima di tutto si confonde l’evoluzione con le sue leggi: sostenere che l’idea di evoluzione sociale era preesistente alla teoria di Darwin vuol dire credere che Darwin abbia scoperto l’evoluzione biologica, mentre che l’evoluzione esistesse era ben noto da sempre (anche se il creazionismo religioso poneva un ostacolo alla sua percezione) e lo scienziato inglese ne ha scoperto la legge. Quando critica le “leggi dell’evoluzione” avendo per antagonista Marx, non comprende che Marx cerca le leggi del capitalismo e ciò è distinguibile dalla parte profetica sul futuro approdo socialista, smentita dalla storia e di per sé non ben fondata. L’accenno agli atomi ed alle molecole è francamente ridicolo. Non comprende che se la società fosse effettivamente conflittuale non assisteremmo a quello cui assistiamo: la società si sta moralmente evolvendo in senso anticompetitivo pensando alla preservazione anche di coloro che sono portatori di handicap (Sparta è lontana). La visione circa la dissoluzione della civiltà se dovessero prevalere gli istinti cooperativi è puro catastrofismo.
· La concezione della storia primitiva esposta nelle pp.65-68 è molto fantasiosa, ovviamente pro domo sua; non a caso l’esempio di Artù e di excalibur è l’unico presentato (incoerentemente, prima come rapporto di proprietà tra il creatore dell’oggetto e l’oggetto stesso e poi si ammette che Artù non aveva fabbricato excalibur). Nessuna riflessione tra gruppi raccoglitori e cacciatoti e gruppi di agricoltori sedentari; sfugge l’idea che la difesa della terra più fertile (proprietà prima di gruppo, poi del sovrano) necessita di un ordine guerriero, da cui nasce un oligarchia ed appunto il sovrano; Artù non era l’unico a poter usare la spada “magica”, ma il mito adombra una capacità bellica che solo gli individui più dotati potevano avere. Quando non si sa interpretare il mito !
· Nelle pp. 69-71 si segnalano alcune perle storiche: 1) l’impero romano è franato per la troppa centralizzazione; 2) l’impero egiziano ha conosciuto due millenni di socialismo.
· Per una quarantina di pagine si ribadisce, quale verità incontrovertibile, che l’ordine esteso è frutto di una tradizione necessaria, ma non razionale, che la morale come si è costituita nel tempo è l’unica che possa garantire la nostra civiltà, che nessuna variazione razionale è possibile pena la catastrofe e che i razionalisti non hanno capito alcunché. Per di più qualsiasi accenno ad un comportamento solidale viene visto come un ritorno all’uomo primitivo e gli sfugge che mentre nel paleolitico tali atteggiamenti di gruppo erano frutto di una necessità relativa alla difesa da un ambiente ostile, oggi rappresenterebbero un’evoluzione.
· Le pp. 119-121 sono un manifesto: l’ordine esteso è irrazionale e quindi non è possibile fornire giustificazioni logiche per la loro esistenza.
· Il nostro eroe a p. 122 si avventura in considerazioni epistemologiche prive di senso: guidato dal proprio assunto irrazionalistico deve attaccare la scienza, che scopre non essere perfetta perché suscettibile di evoluzione e parla di Popper per sostenere che non tutte le teorie sono verificabili; peccato che il suo amico abbia qualificato scienza solo ciò che è falsificabile. Poi nelle pp. successive sviluppa il suo pensiero sulla genesi dell’ordine esteso e sulla morale che gli è propria, nella convinzione che ciò che è storicamente avvenuto sia di per sé prova della sua unicità nella creazione del “miglior mondo possibile” e nella non provata assenza di qualsiasi alternativa.
· Il refrain continua alle pp. 126-132, dove si segnalano due affermazioni importanti, apodittiche, indimostrate: 1) “l’evoluzione non può essere giusta”, il che è contraddittorio con la pretesa, più volte ribadita, che l’ordine esteso è di per sé morale; 2) egualitarismo e meritocrazie sono entrambe utopiche in quanto pretendono di regolare quello che lui ritiene non governabile, per “il bene di tutti”.
· Alle op. 132-142 si afferma che il caos crea l’ordine; non è dato sapere come, ma perl’A. di fatto è così (ovviamente non vede gli elementi macroscopici di disordine che permangono). Altra professione di fede è il fatto che operare nel proprio microcosmo per il proprio interesse si riverbera inevitabilmente nel benessere altrui; l’egoismo è l’unica vera forma dell’altruismo. Infine un nuovo attacco agli scienziati, naturalmente socialisti in quanto ignoranti al di là della propria disciplina (lui ovviamente no); sono accusati anche di difendere la proprietà delle proprie idee (incoerentemente con la propria ideologia) e sembra ignorare che la ricerca si basa sulla massima circolazione delle idee con vasto afflato cooperativo
· Ecco i risultatati di quanto precede: 1).l’uomo non può interferire con i processi naturali, se non marginalmente; sfuggono totalmente i successi scientifici e per sua conoscenza gli scienziati hanno “creato” elementi non esistenti in natura; 2) soccorrere qualcuno in difficoltà turba l’ordine spontaneo e quindi è dannoso; 3) l’ordine esteso rende felici i “nove decimi” della popolazione.
· Le pp. 147-152 suggeriscono due obiezioni: 1) il nostro crede che il socialismo sia solo quello sovietico, ignorando la pluralità delle scuole socialiste; 2) la pretesa di impossibilità di un controllo centralistico (che anch’io credo dannoso) si scontrerebbe oggi con elementari considerazioni circa la potenza dei moderni elaboratori elettronici e l’uso dei big data.
· Lunga trattazione marginalista con la spiegazione che sono i prezzi a regolare il mercato e le relazioni tra individui che non si conoscono, stabilendo un equilibrio dinamico non programmabile.
· A p. 170: Occultare o usare un’informazione migliore ai fini di guadagno privato o individuale è ancora considerata una cosa in qualche modo impropria – come minimo scortese; ovviamente, dal suo punto di vista, chi specula su informazioni riservate opera per il bene universale.
· A p. 174 si difende la proliferazione di monete prodotte da privati contro il monopolio statale.
· L’epilogo del capitolo (pp. 175-176) è un capolavoro: gli intellettuali sono primitivi (secondo un concetto di primitivo coniato dall’A., inventandosi le ragioni dell’avversario) e gli egoisti sono quelli che vogliono limitare gli eccessivi vantaggi del profitto che possono produrre “guadagni apparentemente sproporzionati”. Ovviamente sfugge al nostro l’enorme spreco di risorse generato dal sistema e la povertà dilagante; ma i fatti, si sa, sono opinabili!
· A pp. 177-182, parole in libertà senza alcuna vera dimostrazione. Ma una contraddizione non avvertita si insinua: la creazione spontanea dell’ordine esteso ha modificato sia le relazione umane, sia la morale, ma non si capisce per quale oscuro motivo non ha modificato il linguaggio che è rimasto inspiegabilmente primitivo fino al messianico arrivo dei marginalisti.
· Incredibile! A p. 184 sostiene che il proletariato è il “principale beneficiario” della proprietà individuale: esso è stato creato dal capitale ed in un certo senso (non il suo) è vero. La favola andrebbe raccontata a coloro che nel XVII secolo in Inghilterra si videro recintare le terre comuni, da cui ricavano un sostegno al proprio reddito, per essere forzosamente inurbati per lavorare nei nascenti opifici.
· Il cap. VII (pp. 177-195) è una lunga tirata insulsa sulla terminologia, per arrivare ad attaccare il termine “giustizia sociale”, che a suo dire è incompatibile con l’ordine esteso, ovviamente quest’ultimo è il bene e la giustizia sociale è frutto dell’invidia e minerebbe la ricchezza di tutti. Non è una dimostrazione, ma un’affermazione la cui base è l’assunzione apodittica che l’ordine esteso sia il migliore dei mondi possibili.
· Le pp. 200-201 propongono un complicato ragionamento per dimostrare che se il reddito medio cala ciò è dovuto all’aumento della popolazione povera e quindi che non è vero che i ceti si impoveriscano: il grande studioso di economia sembra ignorare che la distribuzione della ricchezza non si calcola con un fantomatico statistico reddito medio, ma dividendo la popolazione in di reddito e valutandone la consistenza; i dati più recenti sbugiardano clamorosamente le audaci deduzioni del nostro circa l’immenso vantaggio che il proletariato ha ottenuto dal capitalismo. Povero Marx citato così a sproposito.
· Le pp. 212-216 possono solo essere lette per capire l’abisso del ragionamento svolto: in poche parole il bene di “tutti” prevede il sacrifico di “alcune” vite individuali, ma questo è un male necessario e poco importante, anche se si tratta di bambini: ovviamente la vita sacrificata non è la sua! Due osservazioni. 1) Il grande estimatore di Popper sembra non accorgersi che tutto il suo castello è alla luce della teoria popperiana del tutto non scientifica, perché non ammette falsificazioni. 2) C’è una contraddizione ulteriore laddove a p. 215 per la prima volta, e contro quanto è stato detto fin qui continuamente, gli istinti innati del piccolo gruppo non sono solidali, ma tendono a sopprimere le vite “inutili”, e quindi l’ordine esteso è un prolungamento dei comportamenti primitivi.