SULLA PELLE DELLE DONNE

La politica della destra in Europa sembra andare di successo in successo. L’ultimo in ordine di tempo e la vittoria di Orban in Ungheria che accelera la svolta a destra del paese, definito dallo stesso leader ungherese una “democrazia illiberale”. Uno dei tratti caratteristici di questa politica è l’attacco portato al ruolo e ai diritti delle donne, tratto comune della politica sociale dei paesi del gruppo di Visegrád del quale l’Ungheria è parte.
In tutti questi paesi è in corso una modifica della legislazione relativa alla maternità che fa data dai primi anni successivi al crollo dei regimi socialisti, quando la legislazione predisposta sul modello sovietico di ampia tutela della libertà della donna è stata modificata limitando i casi di interruzione della gravidanza a tre soli motivi: pericolo per la salute fisica della donna, malformazione del feto e violenza carnale. Con il passare degli anni è prevalsa un’interpretazione restrittiva di tali norme con l’obiettivo di circoscrivere il più possibile i casi di interruzione della gravidanza e si è intervenuti contro l’uso dei contraccettivi di ogni tipo da un lato e dall’altro varando una legislazione sociale incentivante della maternità
La legislazione più coerente in materia è quella ungherese. Questo paese ha adottato un insieme di misure finalizzate a incentivare la maternità attraverso finanziamenti ad hoc alle famiglie, inserendo norme a tutela delle lavoratrici madri nella legislazione del lavoro e prevedendo congedi di paternità. Il Codice del Lavoro prevede che le lavoratrici mantengano la possibilità di lavorare mezza giornata finché il bambino non abbia raggiunto i 3 anni, o fino ai 5 se si tratta di famiglie numerose. Questo permesso è unito a una sovvenzione che permette il lavoro part time.
Quel che va rilevato è la filosofia che sta dietro a queste scelte. La donna è innanzi tutto fattrice e madre, coinvolta attivamente in un progetto d’incremento della natalità, volta a mettere al mondo sempre più bambini ungheresi che rafforzino la componente autoctona della popolazione e arrestino il decremento demografico della popolazione, tanto che nel 2014 il numero di nascite è cresciuto del 3.2%, rispetto al precedente anno. Il tasso più alto degli ultimi 30 anni. L’obiettivo del governo è combattere l’invecchiamento della popolazione e invertire la tendenza alla decrescita attraverso incentivi economici alla formazione di famiglie stabili.
Alleata di questo progetto è la Chiesa cattolica, della quale il Governo mostra in ogni occasione di condividere la politica anti abortista e quella contro la contraccezione e i rapporti sessuali protetti. La legislazione incentiva sul piano finanziario e normativo il primo matrimonio, promuovendo la nascita di nuove famiglie il cui matrimonio sia stato legalmente celebrato. Ogni iniziativa in materia di educazione sessuale è contrastata per compiacere le posizioni della Chiesa, cercando di porre in evidenza le differenziazioni di genere, con conseguenze sul piano della fruizione dei diritti.

Le ragioni strutturali del consenso a Orban

Fidesz, il partito del premier, ha ottenuto nelle ultime elezioni che si sono svolte l’8 aprile 133 seggi su 199, il 45,9% dei voti, il doppio dell’altro partito nazionalista e di estrema destra Jobbik (Movimento per un’Ungheria Migliore), che si è fermato al 20%. Il successo elettorale del premier risiede nell’alleanza strettissima che ha stipulato con la Chiesa cattolica. Varando nel 2011 una legge sulla “libertà religiosa” che la privilegia, ha innalzato questo culto a religione di Stato. Un clero particolarmente reazionario avalla la propaganda anti immigrati del Governo, il quale non perde occasione per stimolare negli uomini ungheresi una visione “proprietaria” della donna in perfetta coerenza con le dichiarazioni: «I migranti sono come la ruggine che consumerà poco a poco il nostro Paese» e soprattutto «i migranti si prenderanno le nostre donne».
Ma lo sponsor più efficace di Orban è l’Unione Europea che consente al paese di beneficiare annualmente di 9 miliardi di euro di finanziamenti unionali in cambio dei 3 che ne versa all’Unione. Da qui al 2021 l’Ungheria dovrebbe ricevere ben 25 miliardi di euro di fondi per lo sviluppo senza che l’Unione cerchi di condizionare in alcun modo le sue politiche sociali e le consente di non aderire al piano di riparto dei migranti, anzi lascia che realizzi un muro di filo spinato di 175 Km al confine con la Serbia senza conseguenza alcuna. Consente inoltre una gestione familistica di tali finanziamenti, tanto che imprese appartenenti al premier o ai suoi familiari sono destinatari degli appalti dei lavori realizzati con queste risorse. L’Ungheria è riuscita a ottenere che non vi siano controlli sulle modalità con le quali i soldi ricevuti vengono spesi.
È del tutto evidente che Germania e Francia che tuonano contro i populismi non hanno alcun interesse a contrastare Orban che garantisce un ferreo controllo dell’Ungheria e ospita crescenti investimenti tedeschi, sostiene la politica di penetrazione delle merci tedesche verso la Russia grazie ai buoni rapporti con Putin e dà alla Germania lo strumento per aggirare i divieti di commercio e le sanzioni occidentali verso la Russia.

La svolta a destra dell’Est Europa in materia di diritti umani e sociali.

Ma l’Ungheria non è sola in queste politiche. In Polonia, che da tempo possiede una legge molto restrittiva sull’interruzione della gravidanza, è stata proposta una legge che andava ben al di là di quello che non è attualmente consentito nei casi di malformazione del feto, salute della madre e violenza sulle donne, giungendo a un divieto pressoché assoluto di aborto. A questa politica del Governo hanno dato una risposta manifestazioni di piazza fortemente partecipate che hanno indotto il Parlamento a rigettare la proposta di legge, peraltro già approvata dalla Camera dei Deputati polacca. Non sono da meno in questa politica i governanti della Slovacchia che hanno promosso una legislazione fortemente limitativa della possibilità d’interrompere la gravidanza, mentre per ragioni demografiche si sta allineando sulla stessa posizione la Repubblica Ceca.
A ben guardare le politiche degli altri paesi dell’Est in materia non si differenziano molto da quelle del “nucleo” più duro costituito dal gruppo di Visegrád. Si tratta di politiche iniziate subito dopo la raggiunta indipendenza conseguente al crollo del muro di Berlino e tutte hanno costituito un arretramento rispetto alle leggi previgenti che, sul modello della legge sovietica del 1984, consentivano alla donna di effettuare le scelte in materia di gestione del proprio corpo e della propria sessualità.
A causare questa involuzione della legislazione sono stati alcuni fattori concomitanti. L’esodo di molta parte della popolazione, soprattutto giovane, dopo l’apertura delle frontiere ha fatto ben presto emergere una forte riduzione della natalità. La riconquistata libertà delle Chiese, e soprattutto di quella cattolica e ortodossa, ha ridato voce al clero, ai suoi valori, alla sua visione del mondo e soprattutto ha consentito una politica di forte controllo sulle donne che si è accompagnata a una regressione sul piano sociale dei diritti di libertà. Queste scelte politiche hanno finito per condizionare il dibattito anche sul piano culturale, tanto che oggi la Corte costituzionale croata discute di diritti del concepito e denuncia la mancanza di coerenza tra le norme costituzionali e la tutela della vita, proponendo la tutela dei diritti del concepito. In altri casi si tocca l’estremo opposto in quanto ad arretratezza culturale: in alcuni paesi balcanici, come in Montenegro e in Serbia, viene praticato un aborto selettivo di genere finalizzato a ostacolare la nascita di bambine, nella convinzione che il figlio maschio permetta di perpetuare la discendenza e l’identità etnica.

Diritti di genere e libertà politiche e sociali

Ma la legislazione in materia di aborto è solo la punta dell’iceberg in materia di diritti della persona in quanto va collocata all’interno delle considerazioni più generali a proposito dei rapporti di genere che nei paesi dell’Est Europa sono decisamente illiberali e si caratterizzano per una politica repressiva dell’omosessualità, di discriminazione tra uomini e donne, malgrado l’approvazione in alcuni ordinamenti di leggi sulla parità di genere o contro le discriminazioni come è avvenuto in Albania (legge 2010) o in Romania (legge 2000), mentre in Bulgaria la parità di genere sancita da una legge del 1944 è stata ribadita nel 2000. Rileviamo a riguardo dell’Europa dell’Est un adeguamento dei paesi del Sud Europa a un orientamento favorevole alle direttive provenienti dall’Unione Europea, in quanto economicamente più deboli, e una tendenza a mantenere una differenziazione conservatrice da parte dei paesi del Centro e del Nord in quanto economicamente più forti.
Questa costatazione ci induce a ritenere che se veramente l’Europa vuole combattere i populismi non può esimersi dal fornire un maggior sostegno alle politiche sociali e all’apertura degli ordinamenti dei paesi comunitari al principio di libertà e autodeterminazione delle donne.
E’ regola comune e condivisa che l’Europa lasci largo spazio al margine di apprezzamento e cioè richieda soprattutto nel campo dei diritti umani in prima battuta allo Stato membro di operare delle correzioni alle sue politiche, ma ormai le decisioni adottate hanno superato il limite della tollerabilità e allora si impone il ricorso allo strumento delle pressioni economiche ordinariamente utilizzato dall’Unione per orientare l’attività normativa dei paesi aderenti.
Lo spazio giuridico europeo ha un senso se serve a garantire una legislazione che induce gli Stati ad adottare una legislazione aperta alle istanze di una effettiva garanzia dei diritti della persona umana o altrimenti indebolisce il consenso verso le istituzioni comunitarie e contribuisce a far sentire l’Europa come uno stacolo sulla strada della difesa dei diritti dei cittadini.

Redazione licodu.cois.it