IDENTITÀ EVAPORATE

Va di moda la locuzione “società liquida”, coniata dal sociologo Zygmunt Bauman recentemente scomparso. Giornalisticamente quella che era una critica feroce della globalizzazione generante emarginazione ed esclusione, è divenuta la metafora di una società in cui le classi sono scomparse. Resta il fatto che anche nella visione originaria della nuova società analizzata da Bauman l’individuo è per l’appunto tale, cioè un atomo solo di fronte ad un complesso che non conosce, non riesce a decifrare, che lo confina al ruolo di consumatore privo degli strumenti economici che gli permetterebbero di acquistare quello che desidera ed osserva con desiderio forzatamente non evaso.

Quello che sfugge, comunque, all’analisi è il fondamento strutturale della mutazione che ha fatto mutare i membri della società da produttori a consumatori. Per meglio dire, occorre capire se questo passaggio corrisponda o meno ad un cambiamento della composizione sociale oppure se tutto ciò, inequivocabilmente vero, si sia mosso su di un piano più epidermico, ma non per questo motivo meno incisivo sul piano dei comportamenti sociali. La domanda è: è la società che è divenuta liquida o lo sono divenute solo la percezione che di essa hanno i suoi membri?
Descrivere una situazione senza indagarne la genesi è come osservare una fotografia di un uomo che annega senza sapere se sia caduto in acqua o se qualcuno ve l’abbia gettato. Tutto ha inizio negli anni ’70. La crisi petrolifera, certamente indotta dalle multinazionali, porta come conseguenza una profonda ristrutturazione dell’assetto industriale, con la tendenziale polverizzazione delle strutture produttive; nel tempo aziende sempre meno elefantiache, disseminate in territori privi spesso di una storia di conflitti di classe, ha consegnato il comando della produzione al capitale finanziario. Nel contempo gli agglomerati operai, perenne fonti di conflittualità, sono stati smembrati in nuclei meno numerosi separati da distanze molto grandi che attraversano territori che ne sono privi, mentre le merci vengono veicolate nei corridoi appositamente predisposti.
Mentre negli anni ’90 il processo sopra accennato è in pieno svolgimento Rifkin teorizza la “fine del lavoro” con la conseguente scomparsa della classe dei produttori, ma la classe operaia non sta scomparendo, essa è solo entrata in un cono d’ombra, perdendo i propri ancoraggi ideologici e con essi la propria coscienza.
Non è ovviamente un caso che, sempre negli anni ’70, il paradigma economico allora vigente, quello keynesiano, venga abbandonato a favore di un nuovo sistema di economia politica, quello monetarsita di Milton Friedman. Che questo passaggio fosse necessitato dalla situazione economica mondiale è tutto da dimostrare: non corrispondendo al vero, come si narra, che il modello di Keynes avesse fallito. Vero è invece che un ampio ciclo di lotte aveva incrinato i margini di profitto delle classi dominanti. È invece vero che il modello neoliberista è sicuramente confacente agli interessi dell’ascendente capitale finanziario sempre più dominante, ma affonda le proprie radici nella scuola neoclassica marginalista e scorre come un fiume carsico attraverso tutto il ventesimo secolo, grazie alla scuola austriaca di von Mises. La teoria neoclassica presenta due aspetti rilevanti, uno tecnicamente economico ed uno, di fondo, riguardante le convinzioni sociali e la natura umana.
Sul primo aspetto è presto detto. Con i marginalisti la matematica fa un massiccio ingresso nel lavoro dell’economista: von Mises ne era un profondo cultore. Le conclusioni che le complesse equazioni adoperate dagli economisti neoclassici, ed oggi l’utilizzo dei big data e dell’elaborazione elettronica, forniscono, a loro dire, sono conclusioni inoppugnabili. C’è solo il piccolo problema che le premesse da cui partono quei calcoli sono indimostrate e vengono accettate fideisticamente. Tant’è che chi ha provato ad applicare le stesse procedure agli eventi trascorsi ha facilmente scoperto che le “previsioni” che da esse scaturiscono sono totalmente dissimili da quanto realmente avvenuto. Ma questo che è un aspetto scientificamente molto rilevante, al momento esula dagli scopi della presente indagine.
L’aspetto ai nostri fini più rilevante è il secondo, ovverosia la visione delle relazioni umane che soggiace alle teorizzazioni della scuola neoclassica. Essa, infatti, mette al centro della propria elaborazione l’homo economicus, cioè l’individuo atomizzato ed egoistico, il cui unico riferimento comportamentale è il proprio utile. L’anello di congiunzione tra von Mises e Friedman, l’economista austriaco von Hayek, teorizza che negli stadi della propria evoluzione l’uomo sviluppa istinti solidaristici di gruppo, necessari alla propria sopravvivenza come specie in una ambiente ostile; ma questi istinti “buoni” sono ristretti al piccolo intorno di simili che conosce e controlla, non escono da quella cerchie ristretta. Pertanto non sono adatti a quello che lui chiama “l’ordine esteso”, in altri termini la società economica moderna, il controllo della quale sfugge al singolo individuo; per adattarsi alla nuova situazione “globale” i cittadini devono sviluppare nuovi istinti, lasciando quelli solidaristici che permangono nell’ambito familiare ed amicale; questi sono istinti “cattivi”, egoistici, competitivi, gli unici che, a suo modo di pensare, consentono nella loro interazione casuale la sopravvivenza della società moderna, il suo sviluppo, la sua cultura, la sua morale, garantendo il maggior benessere possibile per tutti.
Risulta evidente come su questa base ogni forma di aggregazione sociale venga vissuta come un ostacolo al libero dispiegarsi delle forze interne del sistema costituito dagli atomi egoistici che lo devono comporre, pertanto ogni ideologia deve essere abbandonata, ogni forma di cooperazione solidale comporta un arretramento e non un avanzamento nel luminoso avvenire che il mercato globale prepara per noi.
Sono questi presupposti, non sempre esplicitati, che hanno giustificato l’attacco che dalla metà degli anni ’80 è stato portato contro le ideologie, viste come diaframmi che impediscono la percezione di quelli che sarebbero gli interessi reali del singolo. Un processo che è andato di pari passo sul piano strutturale nella frammentazione delle aggregazioni di classe, della marginalizzazione delle organizzazioni sindacali che, colte impreparate dall’offensiva, si sono troppo spesso fatte parte attiva di questa destrutturazione della coscienza collettiva. L’idea della fine del contratto nazionale collettivo non è che il passo decisivo, l’arma finale, ma la contrattazione di secondo livello è un passo avanti in quella direzione. Se appalti, subappalti, delocalizzazioni, esternalizzazioni, contratti di lavoro precario, lavoro in affitto hanno lavorato sul piano più interno della coscienza di classe, a supporto di tutto ciò è intervenuto un ampio spiegamento di “informazione” ben finalizzata.
Si sono smantellate le strutture di aggregazione territoriale, recintando ogni individuo nel particolare della propria casa, della propria famiglia, della propria cerchia di amici. Sono stati distrutti i vecchi partiti, portatori di forti identità ideali, teorizzando il partito “leggero” senza più base nei circoli decentrati, costituendo dei nuovi partiti dove sono confluite storie diverse che hanno perso la propria caratteristica, per finire in partiti dai nomi bizzarri e privi di agganci alle idee da professare e quindi aggregati disomogenei sorti a fini esclusivi di potere. Persino le idee basilari di ogni concezione politica, destra e sinistra, sono state sbeffeggiate e ridotte a simulacri di un passato da dimenticare. I sistemi di istruzione hanno subito una lenta, ma inarrestabile trasformazione, perdendo di vista la formazione culturale atta a formare un cittadino consapevole dei propri diritti, per approdare ad un approccio comportamentista, dove conta la consuetudine a seguire percorsi predefiniti (come testimoniano le tipologie delle varie indagini internazionali sugli apprendimenti); così che quello che scaturisce non è un individuo dotato di pensiero critico, ma un potenziale buon consumatore.
In questo panorama non è quindi la società che si è liquefatta, ha perso forma, che anzi essa è più rigida che mai. Sempre più il mondo si divide in due frazioni ben distinte: ricchi sempre più ricchi e poveri sempre più poveri: le classi intermedie vengono ricacciate in basso e la comunicazione tra i due settori si fa ognor più flebile, per la progressiva scomparsa degli ascensori sociali. Quello che si è fatta liquida è la percezione che i cittadini hanno della propria collocazione sociale, con la conseguente incapacità di individuare i propri reali interessi e le alleanze necessarie per perseguirli. La sinistra storica ha perso la capacità di interpretare i nuovi assetti, anzi spesso li ha inseguiti acriticamente, magnificati, propiziati favoriti e perseguiti, ed essa è in crisi ovunque, tranne laddove ha riscoperto i propri valori fondanti. Nel frattempo il voto di massa si è fatto di conseguenza sempre più volatile all’inseguimento del nuovo, che è tutto tranne che nuovo. Miti sorgono, supportati da una dose massiccia di propaganda massmediologica, e vengono consumati nell’arco di pochi anni, per essere sostituiti dai nuovi idoli. Nell’assenza di punti di riferimenti ideologici l’informazione, sempre più irreggimentata, ha buon gioco a far credere tutto ciò che vuole. Il rifiuto di ogni ideologia è anch’essa una ideologia, quella della conservazione dell’esistente, per cui non si pensa più che il sistema possa essere cambiato e non si predispongono gli strumenti per un suo superamento e ciò rende impossibile ogni reale cambiamento: cambiano solo i personaggi che recitano in modo personale la tragedia di sempre.
Per recuperare una situazione così disperante occorre avviare una riflessione sulle forme di aggregazione non tradizionali, da sperimentare; la forma partito così come l’abbiamo conosciuta, se non risponde più alle esigenze del momento, come può essere rivisitata? La stessa domanda può esser fatta per la forma sindacato. A questa riflessione invitiamo tutti i nostri lettori. Per parte nostra non ci tireremo indietro dall’avanzare proposte.

Saverio Craparo