Il VOTO IN VENDITA

Nel nell’imminenza delle elezioni europee e in concomitanza con quelle di alcune Regioni e Comuni le cronache, stimolate da inchieste giudiziarie, si occupano della vendita dei voti e del ruolo dei cosiddetti padroni delle tessere o cacicchi che controllano il mercato del voto. Il problema eterno della vendita del consenso si intreccia con il fenomeno del trasformismo che porta gruppi di interesse che esprimono uno o più eletti negli organismi di governo del territorio e a livello politico nazionale a transitare nello schieramento più conveniente per assicurare gli affari, bisognosi di essere protetti dal voto di scambio. Se ce ne fosse bisogno quanto avviene dimostra in modo palese i vizi della politica e l’inconsistenza del rispetto del principio di rappresentanza, a dimostrazione del fatto che la gestione della cosa pubblica come della politica è di fatto appannaggio di una élite che di volta in volte si traveste pur di mantenere ed esercitare il potere. Una volta eletti o politici si autonomizzano dagli elettori e compiono le scelte per essi più convenienti spesso non rispettando il mandato ricevuto.
In questa situazione non c’è da meravigliarsi che a partecipare al voto sia un numero sempre minore di aventi diritto, nella convinzione che nulla cambia e a fronte dell’inutilità palese del voto. L’astensionismo, considerato la morte della democrazia e della partecipazione. è in realtà il prodotto della disillusione di fronte al funzionamento del sistema di rappresentanza e alla compromissione della politica con il potere e gli affari, una forma radicale e forse qualunquistica di risposta dell’elettorato divenuto consapevole dell’ininfluenza del voto.

Le cause strutturali del problema

Prima ancora di prendere in considerazione l’incidenza della criminalità organizzata o dei gruppi d’affari sul voto è bene prendere in esame le cause strutturali del problema, costituite dall’istituto della delega. Il voto, espresso una volta per tutte e per la durata di un mandato che in genere va dai 4 ai 5 anni, non prevede e non è accompagnato da nessuna forma di verifica, controllo e rendiconto richieste al soggetto delegato che pertanto dispone di un lasso di tempo consistentemente ampio e di tutte le possibilità offertegli dalla carica per far fruttare a propri fini il potere delegato conferitogli. Questa assenza di controllo sull’azione e il comportamento della persona delegata può essere se non altro attenuata mediante l’introduzione di momenti di verifica dell’osservanza del mandato ricevuto e della correttezza nell’espletarlo.
Ciò che è errato nella delega e che essa avvenga senza condizioni; un tempo si pensava che a svolgere questa funzione di controllo dovesse essere il partito, ovvero l’organizzazione che esprime gli eletti attraverso la comune condivisione di ideali, un programma e obiettivi. Nelle fila del partito il militante acquisiva e formava la propria cultura politica, sperimentava l’azione collettiva e la solidarietà di classe, costruiva una complicità di azione comune che contribuiva a legarlo agli altri militanti e a inserirlo con un ruolo attivo nell’attuazione della linea politica del partito. Un ruolo non secondario di controllo e orientamento era affidato alla comunità politica costituita dal partito che condizionava i comportamenti del delegato, verificando il suo concreto operare. Ebbene questa funzione di controllo del partito è completamente venuta meno e questo perché di fatto i partiti sono oggi dei comitati elettorali, privi d’idealità e di programmi, senza un progetto comune che faccia convergere le forze della comunità politica verso gli obiettivi
collettivamente individuati e condivisi da coloro che al partito fanno riferimento o che hanno accordato la loro fiducia ai candidati espressione di quel partito.
La nostra analisi a questo punto si sposta necessariamente sulla crisi dei partiti che in larga parte discende dal venir men di contenuti ideali nell’azione politica, dall’assenza di un progetto di società che fa riferimento a dei valori chiari e distintivi della posizione di quella parte politica. In particolare la crisi dei partiti riguarda la sinistra dello schieramento politico o sedicente tale, la quale è priva di un’analisi attenta e scientifica della fase economica e politica, sostiene proposte di corto respiro e meramente elettoralistiche, è priva di progettualità politica e di una visione futura della società, ha perso i punti di riferimento che costituivano i caratteri distintivi di una forza visibilmente di sinistra.
Emblematico il caso della posizione dei partiti di sinistra riformista nei confronti della guerra i quali, in ragione delle loro matrici ideologica, dovrebbero essere per definizione pacifisti e comunque contrari alla guerra, mentre sono invece guerrafondai e convinti della necessità del riarmo.
Questa perdita di identità rende i partiti irriconoscibili e allontana da loro gli elettori che, privi di punti di riferimento, prendono le distanze dalla politica e maturano la consapevolezza della inutilità del voto, astenendosi. Così facendo lasciano che un numero sempre più marginale e ristretto di cittadini partecipino al confronto elettorale
trasformandolo di fatto in una sorta di sondaggio d’opinione al termine del quale di appartenenti alla classe politica restano comunque gli stessi, riposizionandosi secondo le convenienze.

La fine delle ideologie

La élite politiche hanno celebrato la fine delle ideologie, convinte che esse fossero un ostacolo alla gestione del potere esercitata senza alcuna contestazione. Esse puntano a governi stabili, scommettono sul laissez faire, hanno bisogno che il manovratore non venga disturbato. Sempre più insofferenti verso ogni forma di controllo tentano mirano alla costruzione di democrazie illiberali, gestite da autocrati e da figure apicali di governo, sottratte ad ogni controllo di organismi assembleari elettivi. A giustificazione di questa richiesta invocano la necessità di adottare decisioni con rapidità per rispondere al ritmo frenetico con il quale i fenomeni si sviluppano nella società. Da qui il successo di figure come il premierato volte travolgere ogni principio di rappresentanza con il risultato di allontanare ancora di più i cittadini dalla partecipazione alla vita politica.
La sedicente democrazia occidentale è oggi ridotta a un sistema dove una quota sempre minore di potenziali elettori partecipa al voto e legittima il sistema politico, Mentre l’assetto della compagine sociale si configura sembra di più come un insieme di parametri di tensione, continuamente sottoposti a stress di verifica per cui si moltiplicano le diseguaglianze e vengono costantemente sottoposte a verifiche, viene costantemente verificato il livello di tenuta del sistema, mettendolo alla prova per testare quanta differenza è in grado di reggere tra il numero di ricchi e quello dei
poveri assoluti, quante diseguaglianze è in grado di sopportare, quante ingiustizie è riesce a far accettare mantenendo immutata la gestione del potere e la configurazione apicale dell’assetto sociale.
In questo nuovo contesto è ipocrita parlare di Stato di diritto, dei welfare, di diritti e doveri, di garanzie e di libertà individuale e collettiva perché tutti i diritti ne risultano progressivamente e irrimediabilmente sempre più attenuati e nei fatti si va a livello globale verso l’adozione di un sistema unico di governo le cui varianti sono apparenti. Risulta così in tutta la sua illusorietà e inconsistenza lo schierarsi in difesa della democrazia, dei valori dell’occidente e di altre chiacchiere del genere.
Ciò detto l’unico modo per uscire dalla crisi irreversibile di autoritarismo verso la quale sono avviate le istituzioni politiche e di gestione sociale è quello di ritornare all’utopia, muovendo dalla convinzione che un altro mondo è possibile, un mondo più giusto, una società tendenzialmente egualitaria, con un assetto sociale in cui l’uguale accesso alle cose belle della vita sia assicurato a tutti anche grazie a una più eguale distribuzione delle risorse e del lavoro. Ciò significa avere una strategia e un programma, avere degli obiettivi razionali e raggiungibili, tenendo conto che ciò che in passato era difficile realizzare, oggi che la tecnologia potrebbe mutare il rapporto di donne e uomini con il lavoro, diventa potenzialmente realizzabile.
Per fare questo non si può far conto sul ruolo dei partiti riformisti perché questi in realtà non lo sono ma tendono nel migliore dei casi ad una a loro dire razionale gestione dell’esistente, senza farsi carico di un progetto di società futura.
Occorre ritornare a pensare ad una rivoluzione sociale possibile che incida in modo radicale e profondo sugli assetti produttivi e sulla distribuzione del potere, che ridistribuisca la ricchezza, realizzando una tendenziale uguaglianza tra uomini e donne e tra di loro senza distinzione di etnia, religione, genere, colore della pelle, e qualsiasi altro differente parametro di distinzione del genere umano.
Cambiare le cose significa innanzitutto convincersi che un altro mondo è possibile e lavorare per rendere possibile il cambiamento perché non sempre affrontare i problemi in modo radicale è utopico, ma anzi costituisce l’unico modo per avviarli a soluzione.

I fatti di Bari, Torino, Palermo, Catania …..

Numerose inchieste della magistratura ancora in corso stanno indagando su possibili compravendite di voti e quando sta avvenendo ha costituito una ghiotta occasione per Pd e 5 Stelle di rompere l’alleanza in vista delle elezioni comunali a Bari. Senza entrare nel merito delle accuse formulate dalla magistratura, ancora da verificare, che fanno
emergere una compravendita di voti, la concessione di favori e di privilegi, rileviamo che l’alleanza tra i partiti di sinistra presentava già elementi di fragilità dovuti all’ambizione di ambedue i segretari di partito di essere i leader dell’alleanza e facciamo notare che sul piano pratico, almeno per ciò che concerne le elezioni al Comune di Bari, il vero problema è il loro possibile rinvio a fronte dello scioglimento del consiglio comunale in scadenza, ad opera della commissione di indagine predisposta dal ministero degli interni perché relativamente ai risultati del voto, ricordiamo che la legge elettorale prevede il voto su due turni è non da escludere quindi che 5 Stelle e Pd vadano divisi al primo turno, per poi far convergere i voti dei rispettivi elettorati sul candidato chiamato a partecipare al ballottaggio. Certo, vista la situazione barese, è anche possibile che il centrodestra, se escluso dal ballottaggio, decida di sostenere al secondo turno quello fra i due contendenti che risulterà loro più gradito, magari dopo l’ennesima trattativa più o meno palese per una convergenza trasformistica sul nome di uno dei due candidati.
Quest’ultima ipotesi tra quelle possibili sarebbe la più squallida.

G.L.