Gli italiani travolti dall’”effetto spettatore”

Molti si chiedono come sia possibile che dopo più di un anno di governo fascista nulla sembra scuotere il paese, descritto dal rapporto Censis di quest’anno come una landa popolata da sonnambuli, ciechi e indifferenti dinanzi a ciò che avviene intorno a loro. E in effetti, a ben guardare, è questa un’impressione palpabile, in un paese che nei prossimi 25 anni si appresta a perdere 8 milioni di persone in età lavorativa. A guardare i dati oggettivi sulla natalità è del tutto chiaro che il paese Italia è in declino, mentre aleggia una rassegnazione palpabile rispetto all’inevitabilità della guerra e ad una presa di distanza possibile dell’esistente intorno a noi. Nessuno, ha certamente voluto il coinvolgimento del paese nella guerra in Ucraina, eppure è stato chiaro a tutti quanto poco conta l’opinione della gran parte della società; la risposta collettiva è stata che abbiamo imparato a convivere con la guerra. L’arrivo del covid è stato l’equivalente del passaggio di uno sciame di morte nel paese e ha mostrato anche a chi non voleva capire quanto fragile e incerto sia il futuro e quando poco si può fare per programmarlo. La risposta è stata quella individuale e si è risolta nella personale ricerca per chi ha potuto, di uno spicchio di benessere quotidiano, nel vivere alla giornata.
Se ci si guarda intorno, ci raccontano che c’è il record degli occupati, ma la crescita del tenore di vita langue. Anzi regredisce, e questo perché cresce l’inflazione ed è aumentato in modo esponenziale il salario povero: fatichi, lavori e non guadagni, non hai nessuna garanzia di riuscire ad arrivare a domani. Così ti rifugi nella ricerca di soddisfare almeno i diritti individuali e quelli legati alle nuove famiglie, ai nuovi fragili aggregati di solidarietà, che non sono fatte solo di famiglie arcobaleno o allargate, ma anche, sempre più spesso, da convivenze forzate, perché non hai la casa o non la puoi
mantenere. Cerchi di curarti al meglio e se non ci riesci ci rinunci e speri almeno di poter morire senza soffrire, malgrado che una politica sciocca e insensibile te lo impedisca, considerando un tabù all’eutanasia indotta da sé, ma non quella che
produce socialmente.
I vari segmenti della società sono frammentati e incomunicabili, tra di loro e al loro interno. e la soluzione è sempre individuale. prova ne sia il disagio dei giovani rispetto ad una società che non cresce e alla mancanza di prospettive di migliorare la propria condizione di vita che viene affrontata e risolta con un dissenso senza conflitto che si
risolve nella fuga, nell’emigrazione, nella convinzione che ovunque è meglio che in Italia.

Sonnambulismo dilagante o sindrome Genovese

Se solo ci si guarda intorno, la sensazione prevalente è quella della dominanza di una crescente irresolutezza che coinvolge tutti a livello generalizzato: è mancata in molti la consapevolezza che una guerra senza esclusione di colpi si è combattuta tra capitale e lavoro e che il capitale ha vinto, lasciando sul campo i resti di quella che fu la sua classe antagonista, la classe operaia, uscita ridimensionata, trasformata e deportata verso altri paesi e altre aree geografiche, dallo scontro principale che avveniva nei paesi a capitalismo avanzato. La globalizzazione non è stata solo un fenomeno caratterizzato dalla forsennata circolazione delle merci, ma anche una fase di lotta di classe nella quale la classe operaia è stata esternalizzata da ampie aree produttive che costituivano il cuore dello scontro di classe. La deportazione verso altri paesi di attività produttive ad alto impiego di manodopera, come ad esempio lo spostamento nel ciclo dell’acciaio, completamente esternalizzato verso paesi di nuovo sviluppo, ha spostato la classe operaia in altri territori dove era necessario creare dal nulla l’organizzazione di classe, senza il supporto della memoria storica della conoscenza dei cicli produttivi che fa della classe operaia un’entità cosciente che conosce i processi ed è in grado di governarli.
Mentre questo gigantesco spostamento di attività avveniva, la classe operaia dei paesi avanzati, e tra questi quella italiana, vedeva progressivamente ridursi la propria capacità di contrattazione a causa del diminuito ruolo nello svolgimento delle attività produttive, dell’introduzione del lavoro a distanza e da remoto e perdeva quindi capacità
politiche di organizzazione, di rappresentanza e di progettazione di una strategia sociale e di vita, di un progetto collettivo di società futura. Veniva così a mancare la speranza di un futuro migliore, potenziata dall’insipienza dei partiti della sinistra che non trovano di meglio che sposare la fase di sviluppo capitalistica in atto, nell’illusione di governarla e di riuscire a dirigerne gli sbocchi politici e sociali, al punto di candidarsi a gestirla.
Per quanto riguarda l’Italia questa fase ha addirittura un inizio preciso individuabile il 2 giugno 1992, quando Mario Draghi, Allora direttore generale del Tesoro salì a bordo del Britannia, il panfilo dei reali d’Inghilterra preso a nolo.
Non a caso come location emblematica, per annunciare hai centinaia di banchieri presenti che l’Italia era pronta a svendere il suo patrimonio di industrie di Stato per agganciare l’Europa e liberare finalmente la sua economia dalla presenza dello Stato.
Sotto l’occhio attento e interessato degli emissari della Goldman Sachs, Draghi tenne un discorso introduttivo all’operazione, nel quale ebbe cura di chiarire che vi erano quattro ragioni per privatizzare i beni pubblici dello Stato italiano: diminuire il debito pubblico, aumentare la produttività, migliorare e consolidare la credibilità dell’Italia sui
mercati, e tutto al fine di consentire al paese di rientrare nei parametri di Maastricht.
Trent’anni dopo il debito pubblico ha superato i 2755 miliardi; dal 2001 l’Italia ha la più bassa produttività tra i paesi industrializzati (dato Ocse) e negli ultimi 20 anni la produttività è calata dal 5%, mentre i redditi reali sono diminuiti del 3,8% a fronte di un aumento del 50% della Germania; l’Italia inoltre detiene il record dei salari più bassi.
Malgrado le privatizzazioni la crescita non è stata superiore complessivamente al 2% e anche recentemente il paese ha fatto l’ultima finanziaria a debito, indebitandosi a tassi altissimi. L’economia italiana è sempre più un’appendice di quella tedesca. ed ora che questa è in crisi le prospettive per la crescita economica del paese sono quanto mai incerte è improbabili.
Questi dati di fatto, benché sottaciuti, sono noti a tutti e condizionano i comportamenti individuali e collettivi, spingendo le persone ad arrangiarsi piuttosto che a perseguire strategie razionali per migliorare le proprie condizioni di vita e di lavoro. Mescolando libertà di azione a livello individuale e collettivo, capacità personali e bisogni sociali, si
mettono in atto micro strategie individuali non collocabili all’interno di un disegno strategico complessivo di carattere sociale per cui ognuno cerca in modo disordinato e caotico di disegnare un proprio percorso di sopravvivenza, alla ricerca del benessere, della ricchezza individuale e familiare, al più estesa alla propria piccola impresa, cercando la sola soluzione che sembra possibile, quella individuale con l’aggravante che nell’ultimo anno anche questo meccanismo di promozione e mobilità sociale sembra essersi usurato.
In mancanza di un obiettivo comune e condiviso ci si attacca a piccole rivendicazioni, di scarsa efficacia ed effetti pratici, non considerando in alcun modo il ruolo che potrebbe essere svolto da un’azione collettiva. In questo quadro desolante lo studio, l’impegno personale, perdono di significato come requisito indispensabile al miglioramento del
benessere, della condizione di vita, della qualità della partecipazione alla gestione collettiva dei problemi. La mancanza di lucidità nell’analisi dei problemi trasforma le grandi questioni etiche e politiche, come ai conflitti etnici o religiosi, in un groviglio indistinto per sciogliere il quale si propone tutto e il contrario di tutto.
È evidente che manca, tanto nel pubblico quanto nel privato, la capacità di assumere decisioni e proporre soluzioni e ancor più adottare riforme, innescare processi produttivi e investimenti. Pandemia e problemi della salute e della cura, crisi energetica e ambientale, guerre ai bordi dell’Europa, inflazione, flussi migratori, il prevalere e
l’affermarsi di modelli di sviluppo diversi da quello occidentale, l’aggravarsi dei problemi demografici e dei nuovi bisogni di tutela sociale, appaiono come problemi che ci sovrastano, ci schiacciano, rispetto ai quali non riusciamo collettivamente a mettere a punto delle strategie, rifugiandoci nella risposta individuale, che non può essere altro che necessariamente debole e insufficiente.
Eppure sarebbero necessari investimenti pubblici e privati per la messa in sicurezza del territorio e delle infrastrutture. La transizione energetica ha superato la prima stazione di arrivo e appare evidente che serve un bilanciamento tra sicurezza degli approvvigionamenti, innovazione tecnologica, riduzione dell’impatto delle attività
industriali, dare una soluzione al problema del caro-energia.
Prevale invece l’inerzia più assoluta e solo a momenti qualche evento mediatizzato provoca un sussulto di reazione emotiva che induce ad un impegno collettivo, che produce un riemergere improvviso di sensibilità e coscienza sociale, presto sommerso e annacquato dalla routine degli annunci mediatici di eventi utilizzati dalla politica come
strumenti di distrazione di massa, atti a distogliere l’attenzione dai problemi reali, i quali d’altra parte appaiono difficili e pesanti da affrontare e quindi cadono vittima della pigrizia mentale collettiva, Senza voler rendersi conto di quando il paese sia sommerso dalle sue arretratezze e dai suoi ritardi. Un paese non può vivere di emozioni di brevissima durata, avere paura del confronto, fermarsi ogni volta che c’è una difficoltà da affrontare, interrogandosi e dividendosi sulle cose da fare, anche quando queste riguardano interventi irrinunciabili di buon senso per correggere gli effetti di una deriva
individualistica, di discriminazioni di genere, di differenze di classe che colpiscono le frange più deboli e marginalizzate della popolazione.

La transizione demografica

Non possiamo comprendere quando sta avvenendo intorno a noi se non partiamo dal dato di fatto costituito dall’invecchiamento della popolazione e dalla crisi della natalità che produce le trasformazioni che abbiamo sotto gli occhi e delle quale più evidenti sono le dinamiche dimedio periodo. Differenze profonde caratterizzano le modalità con le quali le società formate prevalentemente da persone giovani ragionano collettivamente e si comportano nell’affrontare i problemi rispetto a un contesto sociale costituito soprattutto da persone vieta avanzata. Mentre i primi guardano al futuro
e ricorrono alla speranza di un mondo diverso e migliore da costruire gli altri, quelli tua manda negli anni, hanno come prospettiva quella di godersi ciò che nel bene e nel male hanno costruito perché avvertono che il tempo a disposizione non è molto EI meccanismi sociali che permettono rapidi e possibili cambiamenti sono quando mai improbabili in una società che ha perduto la presenza di ascensori sociali. Gli stessi giovani oggi hanno coscienza che la loro situazione non sarà migliore di quella dei loro genitori, che le loro pensioni saranno inferiori a quelle attuali vivo ha messo che mai potranno goderne, sanno bene il futuro è incerto e si tratta di dati oggettivi che sono al di fuori della loro portata in quanto ha possibilità di mutamento e perciò la loro reazione finisce per essere un ripiegarsi su se stessi alla ricerca di una fuga individuale dal disastro annunciato.
A complicare le cose sanno che la società è in rapida trasformazione, si muove e si evolve in modo sempre più veloce, grazie all’informatica che è insieme potente strumento di trasformazione del quotidiano e strumento di realizzazione di un ambiente virtuale che si offre come sostitutivo di quello reale e che, più che quello reale consente o sembra consentire, la realizzazione di bisogni e desideri, consegnando alla fantasia compressa dalla realtà, desideri realizzati anche se solo virtualmente, ma che consentono di disporre di uno spazio nel quale vivere e svilupparsi, immaginando un futuro possibile e realizzando in una realtà virtuale desideri e bisogni.
I processi sociali forti e di dimensione collettiva hanno ceduto in favore della moltiplicazione disordinata e non convergente dei micro-comportamenti, e se gli interventi immaginati o introdotti rispondono a una logica di pura proliferazione di pretese individuali, quando non subentra e si impone la paura, il timore per un futuro che appare incerto e dai contorni indefiniti e indefinibili, costituisce uno sbocco più che reale, contribuendo a disegnare un paese sempre più allo sbando, privo di una visione comunitaria collettiva e solidale. I cambiamenti che la realtà inevitabilmente comunque
impone, con il dipanarsi del tempo e degli eventi non potranno che distruggere e ricostruire strutture e significati sociali, ma l’assetto che questi assumeranno appare quanto mai vago ed incerto.

Il ruolo del lavoro

Per cercare di ripartire non sembra esserci altra strada che assumere consapevolezza che è cambiata l’attribuzione di senso dei giovani (e non solo di essi) verso il lavoro, con un sostanziale rovesciamento rispetto al lontano, come al recente passato. Il ruolo del lavoro come espressione della vocazione e dello sviluppo della persona e delle comunità appare oggi rovesciato ed opera silenziosamente una ristrutturazione degli assetti sociali. L’innesto della robotica nelle attività produttive spesso in sostituzione del lavoro manuale fa pensare all’ipotesi possibile di una riduzione del tempo di lavoro in modo da concedere maggiore spazio alle attività ricreative e creative delle persone. È questo un processo complesso e delicato, perché presenta notevoli aspetti contraddittori, primo tra tutti la differenza nell’applicazione dei nuovi processi produttivi fra le diverse aree del pianeta e il proliferare quindi di aree a diverso tasso di sviluppo
tecnologico e nell’impiego delle nuove modalità produttive, il diffondersi quindi di un mondo sempre più diseguale tra aree e isole produttive e sociali. In altre parole siamo di fronte ad una società che, più che avviare un nuovo ciclo, sta sostituendo il modello di sviluppo costruito a partire dagli anni ’60, nel quale si rivendicava il lasciar fare, la copertura dei bisogni essenziali, il riconoscimento delle identità e dei diritti collettivi, con un modello nuovo in cui viene assicurato il lasciar essere, l’autonoma possibilità – specie per le giovani generazioni – di interpretare lavoro, investimenti, coesione
sociale senza vincoli collettivi, nella protezione di microcosmi privati costruiti su personali pretese: una direzione chiara forse verso una possibile crescita economica, ma con pochi traguardi strategici in un dibattito pubblico scarico di idee e di parole, caratterizzato dal rovesciamento di senso di alcune grandi invarianti collettive e di alcuni potenti processi sociali: il trionfo di un capitalismo individualistico giunto ad una fase matura e finale.

La Redazione