Il fine è noto

“Un gruppo di gangster si è impadronito
del Partito socialista italiano.
Questo fatto è destinato a modificare
in profondità la politica italiana”
(Enrico Berlinguer 1979)

Il nostro è un partito serio
disponibile al confronto
nella misura in cui
alternativo
alieno ad ogni compromesso
(Rino Gaetano, “Nuntereggae più”, 1978)

Premesso che non sono tra i massimi estimatori di Enrico Berlinguer, anche se devo, ex-post e obtorto collo, riconoscergli una statura politica che appare ormai rara come la pietra filosofale.
Al di là delle sue capacità, più o meno discusse e più o meno discutibili, la frase che egli pronunciò nel 1979 (al netto delle motivazioni legate allo scontro interno in atto al PCI di allora) appare estremamente significativa e soggetta ad essere usata anche fuori dal contesto specifico che la originò, e anche fuori dalla sua riproposizione 20 anni fa, al tempo della inchiesta “Mani Pulite”.
Il c.d. sistema “Mafia capitale”, infatti, che sta sommergendo Roma e il Paese in uno tsunami di melma non è la punta di un qualche iceberg di malaffare nascosto chissà dove ma è la logica conseguenza del trentennio appena trascorso e che pare, nella ideologia dominante, non finire mai.
Quello che Berlinguer, 35 anni fa, con occhio attento, aveva compreso in merito alla trasformazione del Partito socialista, è divenuto poi discorso comune nelle sorti della sinistra italiana: l’eliminazione di ogni riferimento alla propria natura originaria per diventare parte integrante del sistema (come si sarebbe detto una volta).
Se il “compromesso storico” vedeva la neutralizzazione del PCI attraverso la partecipazione al pranzo dei commensali in qualità di cameriere o sottocuoco (dovute ricompense per il ruolo di cane da guardia che aveva assunto a partire dagli anni ’70), il modello PSI dimostrava invece che a quella tavola sarebbe stato possibile sedersi al pari di tutti gli altri.
Saltando a piè pari ogni “deviazione” socialdemocratica (non sia mai, lo stalinismo senza Stalin rimarrà una delle caratteristiche di quel partito e di tutti i successivi brand) la quale avrebbe perlomeno potuto portare una ventata di efficienza e funzionalità dentro al sistema capitalistico, il PCI-PDS-DS-PD si diresse, fin da subito, verso l’ideologia tipica della destra liberista.
Come infatti stava succedendo in Europa e fuori, furono proprio quei partiti eredi della tradizione “progressista” (laburisti in GB, democratici in USA) che divennero i paladini del neoliberismo (spesso declinato in neo-liberalismo) al quale fu data una colorazione “progressista” con l’inserimento delle lotte per i c.d “diritti civili”, facendo così tabula rasa di una delle acquisizioni fondamentali del marxismo.
Ovvero che in mancanza di uguaglianza economica i diritti civili sono una cortina fumogena esattamente come quelli elettorali e di cittadinanza. Ma l’eguaglianza era una parola ormai definitivamente abbandonata dai rottamatori di 25 anni orsono.
E’ evidente, a meno di non avere davvero abdicato alla propria intelligenza, che il renzismo attuale, se pur non fosse un punto obbligato di arrivo, avesse comunque ottime probabilità di realizzarsi già tenendo conto di quelle premesse.
Non dimentichiamo che il culto della personalità, il conformismo, l’ottusa adesione agli ordini del capo, la capacità di mettersi in gioco per realizzare “cose” (vedi le stratosferiche feste dell’unità negli anni 70 e 80) ma senza domandarsi il fine, la voglia di vincere (i numeri per i numeri), sono sempre state componenti tipiche del PCI, trasmigrate allegramente da una sigla all’altra.
Anche perché l’ideologia difettava da almeno un quindicennio rispetto alla fin troppo famosa “svolta” della bolognina[1].
Difettava fin da quando quel partito scelse di stare dalla parte dello Stato. Non lo stato della partecipazione, delle mobilitazione, dei diritti, del lavoro, ma lo stato Hobbesiano, facendo il deserto attorno alla trasformazione del paese, rifiutandosi di poterne indirizzare gli esiti (non scontati) e preparando, nei fatti, il trasmisgramento al “fatti i cazzi tuoi”, come avrebbe detto Gaber.
La trasformazione del PCI (fatti salvi i tributi post-mortem a Berlinguer, oggi pronto per la santificazione) ebbe fin da subito, dunque, come modello il PSI Craxiano. Quel decisionismo, quella destrutturazione totale e criminale delle proprie origini del resto non sono una novità nel panorama della sinistra italiana e non.
Basti pensare al fascismo, che prese le origini non dalla destra reazionaria ma dalla dirigenza del Partito Socialista o allo Stalinismo (quello vero, con Stalin) entrambi fenomeni complessi e non riducili a presunti “tradimenti” di una qualche originaria purezza rivoluzionaria. Si trattò invece dell’adesione (cinica o meno, giustificata o no) al principio della “realtà”.
Dunque, della deriva che il PCI prese a partire dalla metà degli anni ’70 si è detto abbastanza e non il caso di tornarci ancora.
Quello che ancora, da molte parti non si è ancora compreso, è quale bestia strana sia diventato attualmente quella compagine politica.
Nei fatti il PD non esiste più, se mai è esistito. Un partito che perde 700.000 voti nella regione “rossa” per eccellenza e vede la scomparsa dei tesserati senza che questo allarmi la dirigenza di quel partito (anzi) è evidente che sia ormai diventato qualcosa d’altro.
A questo punto si comprende bene che il sistema delle primarie aperte ha ottenuto il risultato desiderato: ha demolito quel che restava del partito trasformandolo in una melassa gelatinosa e litigiosa nella quale Renzi è e sarà il deux-ex-machina, il mediatore fra le mille guerre interne fra potentati locali, ras di quartiere. Il partito è evaporato (s’è svampato direbbe Guzzanti).
Fanno impressione, ancora, le parole che Berlinguer pronunciò nel 1981: “ I partiti di oggi sono soprattutto macchine di potere e di clientela: scarsa o mistificata conoscenza della vita e dei problemi della società e della gente, idee, ideali, programmi pochi o vaghi, sentimenti e passione civile, zero.
Gestiscono interessi, i più disparati, i più contraddittori, talvolta anche loschi, comunque senza alcun rapporto con le esigenze e i bisogni umani emergenti, oppure distorcendoli, senza perseguire il bene comune. La loro stessa struttura organizzativa si è ormai conformata su questo modello, e non sono più organizzatori del popolo, formazioni che ne promuovono la maturazione civile e l’iniziativa: sono piuttosto federazioni di correnti, di camarille, ciascuna con un “boss” e dei “sotto-boss”.
Ma Berlinguer parlava ancora di partiti come strutture organizzate e la sua analisi era rivolta contro la DC e il PSI. Non avrebbe certo pensato (o forse sì? Visto che il PD attuale non perde l’occasione per incensare quotidianamente il segretario sardo) che quella disamina sarebbe diventata adatta per i suoi eredi.
Soprattutto, sarebbe stato incomprensibile, per lui e per tutta la politica italiana, potersi figurare una Italia totalmente in balia del populismo, dell’uomo solo al comando, del partito della nazione.
Bene, se il partito che fu, appunto, di Berlinguer si è trasformato, de facto, in una struttura a guida carismatica[2] che ha abdicato all’idea dell’organizzazione (le farse del direttivo in streaming rafforzano l’assoluto nulla che vi sta dietro), è necessario che tale farsa venga nascosta sotto un’apparente democrazia.
Qui diventa fondamentale il ruolo delle minoranze interne: i vari Civati, Bersani, Cuperlo. Non credendo ai complotti posso francamente affermare che tali personaggi, rappresentativi di pochi individui sono funzionali, spesso a loro insaputa, alla tenuta dell’intero carrozzone.
Il loro ruolo (che non mette mai in discussione i punti cardine del PD) riesce sì a contenere la parte “vecchia” del partito (che secondo me è del tutto insignificante) ma soprattutto comunica all’esterno un dibattito che non c’è. Questo meccanismo permette così anche di poter aumentare gli elettori (non gli iscritti). Il gioco in “accordo” con la stampa borghese “progressista” che crea lo spauracchio di turno (prima Grillo poi Salvini) permette che alla fine o l’elettore non vada a votare (voti persi per gli altri) o che voti, per il principio del meno peggio, il PD.
PD che, comunque, alla fine ha dentro anche il “compagno” Cuperlo o il “compagno” Fassina (che vanno entrambi alla manifestazione di una CGIL imbarazzata e impaurita dalla collocazione attuale. Renzi sarà un cialtrone ma sa bene quali cassetti potrebbe aprire….).
Chi si stupisce dello scontro “aperto” dentro il PD o pensa (come i rimasugli di una sinistra d’accatto; SEL, PDCI, PRC) di poter usare quel conflitto ha capito ben poco.
Anche nella struttura totalitaria esistono e sono esistiti scontri e conflitti (così era per il PNF per lo NSDAP per il PCC). Scambiare lo scontro interno per qualcosa d’altro vuol dire davvero essere alla frutta della propria capacità interpretativa della realtà. Tanto più che quello scontro è una mera rappresentazione.
Qualcuno a questo punto potrà obiettare cosa c’entri il discorso su MAFIA/CAPITALE. Bene, proprio il nome che è stato dato a quel binomio, mi suggerisce una lettura del tutto opposta a quella che ci viene fornita dai mass-media mainstream.
Quello che è successo a Roma è lo specchio del paese, certo, ma è anche lo specchio della fase attuale del capitalismo. La privatizzazione dei servizi pubblici e il loro affidamento alle “cooperative sociali” (le quali, ormai, e mi prendo la responsabilità di affermarlo, sono quasi tutte macchine di sfruttamento, illegalità e autoritarismo. Altro che articolo 18) permette la crescita abnorme di mercati virtualmente infiniti. La messa a profitto del disagio e delle “nobili cause”[3] è in grado di produrre surplus economici e di potere inimmaginabili.
Secondo i principi del moderno marketing si crea offerta dove non c’è. Emergenze immigrati, emergenze rifiuti e chi più ne ha più ne metta.
E cosa si invoca per risolvere la “Mafia/capitale”? Riforme che ridurranno del tutto la possibilità per il cittadino comune di conoscere e decidere alcunché: listini bloccati di nominati (legge elettorale), eliminazione di una camera (riforma del Senato), eliminazione delle Province (di fatto sono stati eliminati gli elettori), riduzione delle Regioni.

E ancora più privatizzazioni

Così, si dà ad intendere di curare il male con il veleno che lo ha prodotto. In dosi sempre maggiori.
Preparando un paese senza elettori, senza iscritti ai partiti, senza cittadini, ma diretto come un treno verso un Italia del neoliberismo più feroce e competitivo.
Renzi coglierà poi anche l’occasione dello scandalo per fare pulito e così passerà per il grande innovatore togliendosi definitivamente dai coglioni l’apparato romano.
Qualcuno, a sinistra (quale?) cerca ancora di dialogare con questo partito. Bisognerà dirglielo una buona volta che non c’è più nessuno con cui dialogare. Li vedo andare alla ricerca delle “brave persone”, che sono state, da che mondo e mondo, in tutte le compagini (anche fra i nazisti), ma per dirla con Gaber: “Sarei severo come all’inizio, perché a Dio i martiri non gli hanno fatto mai cambiar giudizio”.

[1] La quale somiglia alla conferenza del Wansee del 1942 dove il nazismo mise nero su bianco quello che stava mettendo in atto ormai da tempo: ovvero lo sterminio degli ebrei.

[2] Questo concetto weberiano, come sempre, va declinato nella realtà. Renzi non è un vero capo carismatico (se mai è esistito l’ideal tipo) ma è un personaggio costruito e rinforzato dall’uso spregiudicato, violento e criminale dei media. Media che sovraccaricano la comunicazione rimandandosi l’un l’altro notizie e fatti del tutto inutili e superficiali ma che contribuiscono, facendo massa critica, alla costruzione dell’eccezione di turno. Senza dimenticare ovviamente gli interessi concreti che hanno permesso l’ascesa del demagogo. Tuttavia l’attuale compagine governativa, seguendo il percorso discendente della selezione della classe dirigente che il paese sta seguendo da trenta anni, sta ai livelli minimi mai toccati dal dopoguerra. Una allegra brigata di giovani rampanti del tutto incapaci di alcunché, se non di gestire e rinforzare il potere esistente nel vuoto pneumatico. Le loro uscite pubbliche, che Renzi giustamente riduce al minimo (vedi Crozza), dimostrano la totale inconsistenza, ignoranza, supponenza e superficialità. Viene da pensare qui, più che ai governi fascisti (che ebbero comunque tecnici e qualche ministro di non secondarie capacità) al vuoto rappresentato dal regime nazista, dove ministeri guidati spesso da ministri psicopatici e del tutto incapaci (tanto che Goebbels veniva chiamato dottore essendo l’unico laureato), in perenne litigio fra loro, venivano ricondotti alla ragione e all’unità dal capo.

[3] Vedi il testo della ferocissima “Il potere dei più buoni” che Gaber scrisse nel 2003

Andrea Bellucci