Ora che la nave del nocchiero della provincia toscana, nel fare l’inchino alla Merkel, si è incagliata sugli scogli della realtà, i suoi seguaci, infatuati dal suo scilinguagnolo rutilante e vacuo, cercano dei motivi per sostenerlo. Pesa la evidente dissonanza tra obiettivi mirabolanti ed a portata di mano da un lato e risultati concreti dall’altra; pesano le repentine virate di opinione che smentiscono quanto sostenuto solo pochi giorni prima; pesa la messa in soffitta della sia pur minima parvenza di ogni valore di sinistra,
pur anche il più scolorito; pesa infine la pesante subalternità dell’esecutivo ai voleri della classe imprenditoriale e finanziaria. Allora la linea assunta,
tracciata anch’essa dell’innovatore proprio di tutto ciò che non doveva essere innovato, è quella dell’ultima spiaggia, fino alla velata (nemmeno tanto) minaccia che una sua eventuale caduta provocherebbe il temuto commissariamento dell’Italia da parte della temuta “troika” delle istituzioni finanziare internazionali: una sorta di “après moi le déluge”, e ci si scusi l’accostamento ardito, ma la modestia non attiene al personaggio: “chi dopo di Lui?” ci si chiede; “chi altri lo può sostituire?” “Qual è l’offerta politica odierna di statisti?”
Non è certo compito dei comunisti anarchici indagare sulle alternative di governo, convinti che qualsiasi governo risponda, con maggiore o minore efficacia, ai bisogni delle classi dominanti e solo a quelle. Ma la situazione si presta ad alcune considerazioni sulla fase politica attuale.
Renzi è arrivato rapidamente alla Presidenza del Consiglio a seguito di circostanze eccezionali. Il paese proveniva da una disastrosa esperienza di governo berlusconiano, che, impegnato a salvaguardare gli interessi del padrone sia economici che giudiziari, non serviva a dovere quelli del capitale finanziario internazionale.
L’ondata di discredito che aveva investito il centro-destra portava ad una svolta a lungo preparata con l’arrivo al potere direttamente di detto capitale finanziario internazionale per tramite di propri agenti riconosciuti ed autorevoli: Monti e Letta. Le scelte di politica economica da essi effettuate rispondono rigorosamente ai dettami del verbo monetarista, cioè quelle stesse teorie che hanno generato la crisi economica che dilania il mondo dal 2007. L’Italia si infila in un tunnel recessivo inevitabile, perché non si può curare l’influenza iniettando nel paziente ulteriori bacilli. La ricetta economica è violenta e crudele e si abbatte sulle classi meno abbienti in modo devastante, facendo rapidamente il vuoto attorno agli esecutivi che le avevano adottate, corrodendo
velocemente l’iniziale clima di fiducia alimentato dalla fine della cappa berlusconiana e dal prestigio accademico dei protagonisti.
Il momento di Renzi non si presenta alle primarie del PD del 2012: deve ancora consumarsi la parabola dei tecnici sui quali avevano investito i poteri forti. L’anno dopo la carta giocata sullo scorcio di due anni prima si avvia al definitivo esaurimento ed occorre un nuovo cavallo su cui puntare. Il provincialotto ha molte carte da giocare: è giovane, non ha calcato troppo lo screditato panorama politico nazionale, possiede una forte capacità affabulatoria, è spregiudicato oltre ogni limite. Per sbaragliare ogni avversario non lesina colpi bassi agli avversari, promette un’inversione radicale di una politica economica invisa, dichiara di far piazza pulita della vecchia classe dirigente del proprio partito screditata da anni e anni di sconfitte e di compromissioni imbarazzanti. Dopo due mesi dalla vincita delle primarie con un abile colpo di mano sale al governo dove siede ormai da dieci mesi, il cui bilancio è presto fatto!
Il primo passo è stato l’accordo con Berlusconi, rinnovando quella prossimità con l’impresentabile contro la quale si era scagliato con veemenza fino a pochi mesi prima. Poi ha accettato quei parametri economici europei che aveva promesso di contestare e scardinare appena entrato a Palazzo Chigi; così la recessione e divenuta profonda ed i fondamentali economici sono divenuti pessimi. Ha ingombrato i lavori parlamentari con
riforme istituzionali (senato, province, elezioni) il cui unico effetto non è quello annunciato del risparmio, ma quello di costruire degli organi di governo dello Stato e del territorio più duttili ai voleri dell’esecutivo, sul quale si allentano i controlli democratici. Ha messo un po’ di spiccioli nelle buste paga dei lavoratori a reddito più basso, dimenticando vari settori molto più disagiati (pensionati e precari) e che quelle risorse potevano più utilmente essere investite per alleviare l’emergenza più grave del momento: la disoccupazione; ma l’economia non è certo il suo lato forte. Ha fatto una guerra di religione contro la Statuto dei Lavoratori, quando solo un mese prima aveva dichiarato che l’articolo 18 non era in discussione. Ha avviato una lotta senza quartiere
contro il sindacato con lo scopo di eliminare i corpi intermedi per favorire il contatto diretto tra il leader (lui) e le masse in sintonia con il più bieco populismo. Ha apparentemente snobbato sindacati e Confindustria, ma con i primi non dialoga e dalla seconda prende ordini, ricambiato con stima e apprezzamento. Ha imbarcato i peggio arnesi del vecchio partito, quelli più compromessi con gli interessi locali, innovando solo la facciata. Il partito è stato azzerato, reso ormai inutile dopo essergli servito a scalare il potere: partito “asfaltato” sia dal punto di vista numerico, sia, soprattutto, da quello degli ultimi pallidi residui valoriali.
Perché un personaggio di tale “levatura” sia insostituibile è difficile da capire. In politica non ci sono vuoti e quindi dopo di lui ci sarà un altro Presidente del Consiglio: sarà meglio? Sarà peggio? Sarà sempre un capo di un governo borghese al servizio di quella classe che lo ha insediato a difesa dei propri interessi. Ma è difficile che sia peggio, perché i risultati per i lavoratori non miglioreranno se essi non li sapranno imporre con le proprie lotte, almeno non assisteremo al continuo riproporsi di superficialità, pressapochismo, menzogne, promesse improbabili, arroganza, arrivismo retorica d’accatto, giovanilismo di maniera, elogi inconsulti della rapidità; un mix ormai davvero indigesto.
Tutto ciò senza contare il pericolo che corre la dialettica della democrazia, se pur borghese, a favore di una dinamica prettamente autoritaria che si sta instaurando subdolamente nella prassi quotidiana di questo governo, che ha posto quasi il doppio delle fiducie di quelle richieste dal governo Monti, che pure non godeva di una maggioranza precostituita. Il diluvio non è dopo di Lui, ma Lui è il diluvio.
La Redazione