Riforme e autonomia regionale

La crisi covid ha messo in evidenza i tanti problemi irrisolti del paese, primo fra tutti il rapporto tra Stato e regioni, come è plasticamente emerso dagli disastri accumulati della sanità lombarda prima della crisi portata a modello dell’efficienza del governo regionale e della necessità quindi di ampliare la sfera di competenze delle autonomie regionali: prova ne sia che Lombardia, Veneto e Emilia Romagna erano giunte a chiedere l’allargamento delle competenze fino a comprendervi 28 materie e le altre regioni si apprestavano ognuno – chi più e chi meno – ad allargare la loro sfera d’azione (V: newsletter 132 “La morte dell’autonomia differenziata”; 123 “Autonomia vo’ cercando ch’è si cara”). Quello che è avvenuto ha dimostrato limiti e disastri che ha prodotto la riforma del titolo V della Costituzione votata, in scorcio di legislatura, con un voto di maggioranza dal centrosinistra allora egemonizzato dal PDS.

I prodromi del disastro

La riscrittura del titolo V venne fortemente voluta per ragioni elettorali da Rutelli allora candidato in pectore del centrosinistra e fatta approvare da Amato con un voto a strettissima maggioranza. La riforma entrò in vigore con la legge costituzionale n. 3 del 2001, preparata dalla legge costituzionale n. 1 del 1999 (piena autonomia statutaria alle regioni, elezione diretta dei presidenti regionali) e avrebbe dovuto essere facilitata nella sua applicazione dal peculiare e forte ruolo riconosciuto alle istituzioni comunali (dopo la legge 59 del 1997) e anche alle istituzioni provinciali (e alle autonomie c.d. funzionali). Queste norme, che si proponevano la trasformazione in senso federale dello Stato, hanno di fatto creato una grande confusione istituzionale, tanto che la Corte Costituzionale ha dovuto intervenire negli anni immediatamente successivi più di 120 volte per dirimere conflitti di attribuzione tra Stato e regioni.
Il principale problema era ed è costituito dal fatto che – come abbiamo cercato di chiarire nel nostro editoriale della newsletter 131 “Federalismo decentramento e noi”- più che di decentramento, autonomia e federalismo si sono costruite delle strutture regionali che tendono ad operare come Stati in miniatura, assorbendo tutti i caratteri negativi della
struttura statale sia nelle forme di governo sia per quanto riguarda le metodiche decisionali e gestionali.
In questi anni abbiamo visto crescere gli sprechi di spesa, l’assenza di coordinamento tra centro e periferia, la nascita di una casta di politici regionali che si spartiscono i centri di potere sul territorio. Ripercorrere l’attività dei comitati d’affari, degli scandali e delle ruberie emerse nella sanità lombarda fa capire che questi fatti rappresentano la cartina di tornasole più efficace per dimostrare quale sia l’entità del disastro e come e quanto la cosiddetta “regione virtuosa” abbia sperperato risorse a vantaggio di un settore quello della sanità privata che ne ha fatto un polo di eccellenza dell’industria privata nel settore per accumulare profitto a spese degli stessi lombardi e sfruttando il deficit sanitario delle
altre politiche regionali, con il risultato di sguarnire il sistema sanitario pubblico sul territorio.

Una strategia per la ricostruzione

Intervenendo ora bisogna innanzi tutto partire da una visione d’insieme dei problemi del paese, cominciando con il far tacere le cassandre alla Cacciari – aruspici del problema delle Regioni del nord e che lamentano l’esistenza di una “Questione settentrionale” e cominciare a trattare il paese come un insieme il cui territorio è profondamente differenziato in quanto a presenza di infrastrutture ed è privo di una strategia di crescita economica e sociale dei territori che coinvolga tutti sia pure tenendo conto delle specificità. Per costruirla bisogna partire da un’analisi reale dei fattori produttivi e dal
loro dispiegarsi nella società e nelle diverse aree del paese.
L’ipotesi regionalistica o di autonomia differenziata nasceva dalla convinzione che fosse necessario conferire alle Regioni del nord, o almeno ad alcune di esse, un’autonomia accentuata (differenziata, appunto) che permettesse loro di integrarsi rispetto alla velocità di crescita e ai ritmi delle regioni del centro Europa, sotto il cappello del capitalismo
franco-tedesco – insomma nel rispetto dell’asse storico dell’economia che fa perno sul capitalismo renano. Dietro questo centro propulsore sarebbero venuti tutti gli altri territori, con funzioni succedanee e di servizio rispetto ai differenti settori produttivi.
È questa una logica economicistica che considera le scelte del capitale finanziario come egemoni e verso le quali la politica non può che essere prona. Se non che quella descritta è una funzione dello sviluppo per come è disegnata nei progetti dell’ordo-capitalismo tedesco e più in generale europeo, che ha mostrato i suoi limiti da un lato con il crescere e
imporsi della strategia di riconversione ecologista e climatica dell’economia. E dall’altro ha prodotto, a causa delle politiche di austerità, una gigantesca compressione del mercato con conseguente crisi economica già nella fase ante virus.
Questi limiti sono altresì stati esaltati dalla crisi pandemica che ha mostrato il fallimento delle piattaforme di logistica, l’impraticabilità del decentramento produttivo infinito e seriale, i limiti del lucrare profitto dalla corsa al sempre maggiore all’abbassamento del costo del lavoro, che porta con sé la negazione dei diritti, la schiavitù economica. l’aumento
insopportabile delle disuguaglianze e in ultima analisi una restrizione dei consumi e del mercato.
Alcune reazioni di risposta erano cominciate già prima della crisi con il ritorno indietro di impianti e produzioni delocalizzate, ora accentuato dall’acquisita consapevolezza che è necessario che ogni area economica mantenga proprie capacità produttive nei settori strategici, in modo da non entrare in crisi ad ogni stormir di fronda dell’equilibrio
internazionale, a causa dell’interruzione del flusso di merci tra i diversi siti produttivi, sia occasionale che per ragioni politiche e strategiche.
Le disponibilità economiche messe a disposizione dall’Europa, sia pure ancora tra mille incertezze, vanno comunque nella direzione di investimenti in una economia green circolare e sostenibile. che punta a strutture che in altre occasioni abbiamo definito come struttura economica neocurtense e che abbiamo descritto per larghe linee (v. newsletter
n. 131 “Gli effetti positivi Covid 19” e n. 130 “Solidarietà sociale, sfruttamento capitalistico, lotta di classe”).
Questa in ogni caso privilegia l’ambito territoriale degli Stati, è in una qualche misura tendenzialmente autarchica, nel senso che si preoccupa di mantenere in vita filiere produttive ritenute strategiche, lasciando alla logistica solo parte dell’attività produttiva da movimentare attraverso la circolazione della produzione realizzata in remoto. Si tratta
di una globalizzazione ponderata, che cerca una mediazione tra bisogni del territorio ed esigenze della produzione, una struttura economica che non può fare a meno del territorio, perché ha come obiettivo primario il possesso e il controllo dei consumatori, prima che quello della forza lavoro, che punta all’innovazione e all’uso massiccio della tecnologia e alla dominanza tempo-vita da parte del padrone (v. il ricorso al telelavoro; newsletter 132 “Uso il virus e ti fotto”) e quindi ha bisogno di possedere i sudditi – consumatori e non può permettersi di perdere il controllo di quote anche minime di
popolazione, tenute insieme dal recinto di dominanza garantito dai confini dello Stato..
Per questi motivi la frammentazione territoriale è oggi antieconomica e perciò accanto all’attività economica il nuovo assetto capitalistico ha bisogno del rafforzamento dei poteri gestionali al centro, un centro virtuale più che fisico, capace tuttavia di una gestione ordinata delle forze produttive e soprattutto dei consumatori con il quale le autonomie,
ancorché differenziate, sono incompatibili perché non fanno gli interessi del capitale.
Anche se oggi non riusciamo a vedere in tutti i suoi aspetti l’architettura istituzionale e economica che gestisce la nuova fase dell’accumulazione capitalistica verso la quale stiamo andando, quello che è certo è che essa è incompatibile con un disegno autonomico che ampli i poteri locali e regionali, figlio della fase tatcheriana e reaganista di un ordocapitalismo al tramonto.

I riflessi politici e sovrastrutturali della nuova fase

Sul piano politico lo sviluppo dei processi appena descritti vede la destra attestarsi nella difesa spasmodica delle precedenti caratteristiche ordo-capitaliste della struttura economica, attraverso un passaggio di fase caratterizzato dal rafforzamento dei sovranismi che dovrebbero consentire la sopravvivenza di énclaves a sviluppo differenziato, nel quale ripetere il meccanismo della trasposizione continue delle attività economiche, delle isole di produzione con un costo del lavoro a bassa intensità retributiva e ad alto tasso di tempo lavoro, che continuano a divorare le aree ancora “vergini”, le
devastano, le saccheggiano, offrendo sviluppo, per poi spostarlo e abbandonarle appena il territorio è divenuto saturo ed è stato desertificato, nella prospettiva di poter ripetere il gioco all’infinito fino al totale sfruttamento del pianeta per poi ricominciare ciclicamente lo stesso gioco. E perciò creano forze e movimenti politici destinati a produrre orientamenti
nell’opinione pubblica, valori condivisi, che utilizzano razzismo, religione, xenofobie per dividere e controllare le classi subalterne, per perpetuare la dominanza capitalistica.
Le forze di classe, per ora marginalizzate e sconfitte, cercano di resistere e di approfittare della sempre maggiore proletarizzazione delle masse e cercano di usare la sempre maggiore concentrazione di ricchezze nelle mani dei pochi per cercare di ribaltare i rapporti di forza, ma mancano – al momento – di una strategia politica e di un progetto di alleanze di classe che si faccia portatrice di una società più giusta e egualitaria. Sono consapevoli che la risposta della green economy ha dei limiti e non incide affatto sulla dominanza tra capitale e lavoro, lasciando inalterati i rapporti di potere ma si rendono conto che non esiste altra via d’uscita ed optano per quella che si profila come una soluzione più accettabile meno distruttiva della qualità della vita e della distribuzione della ricchezza.
Si, perché oggi il vero problema più che la realizzazione della libertà è il perseguimento dell’uguaglianza, come porre un limite alla distribuzione ineguale delle risorse, delle cose belle della vita e della vita stessa impedendo che il capitale se ne impossessi attraverso un’organizzazione della vita che sottrae il tempo dell’esistenza alla pertinenza delle
persone rendendolo un bene nella disponibilità dei potenti; mantiene in tal modo il controllo della componente vera della ricchezza e perpetua così il dominio dell’uomo sull’uomo (e sulla donna).
G. L.