I nostri compiti

Sono ormai 10 anni che pubblichiamo questa newsletter e una delle domande più frequenti da parte dei nostri lettori, con i quali cerchiamo di mantenere un costante dialogo, è perché etichettare la pubblicazione come espressione dell’Unione dei comunisti anarchici d’Italia. La loro convinzione è che la nostra attività sarebbe molto più efficace e
potrebbe raccogliere maggiori consensi se si presentassero le nostre analisi senza peraltro nella cedere rispetto a quello che pensiamo, come il prodotto delle elaborazioni di un gruppo di militanti politici.
La risposta a questa domanda sta nelle nostre storie personali di militanti della
lotta di classe attivi nelle organizzazioni di massa e come militanti comunisti anarchici, convinti che gli sfruttati hanno bisogno di sviluppare organizzazione e di dotarsi di una lettura della realtà alla quale rifarsi per indirizzare la propria azione.

I nostri strumenti di analisi

Negli anni il nostro progetto politico organizzativo si è progressivamente esaurito per ragioni delle quali sarebbe troppo lungo dar conto in questa sede; è rimasta la scelta di continuare a combattere per sviluppare l’opposizione al capitalismo e allo sfruttamento dell’uomo sull’uomo (e sulla donna) e soprattutto è rimasto il metodo di lavoro e di analisi politica proprio del comunismo anarchico.
Siamo convinti che il movimento di classe sia entrato in un ciclo economico-sociale nel quale la sconfitta è profonda e ciò ha portato alla crisi di tutte le forze di sinistra, siano esse riformiste o rivoluzionarie. Per uscire da questa
situazione è necessario iniziare col capire la realtà che ci circonda, analizzare i cambiamenti in atto, individuare la strategia del capitale, capire quali sono i suoi obiettivi e come sta ristrutturando i rapporti di dominio e i meccanismi di
accumulazione del profitto e di estrazione del plusvalore, espropriando i lavoratori.

I nostri strumenti di analisi

Siamo convintamente non marxisti, nel senso corrente dell’aggettivo. Per capirsi meglio, crediamo che il pensatore di Treviri abbia un grande merito, frutto di una profonda cultura e di una mente molto acuta ed analitica: aver
individuato nel sostrato economico della società la molla reale del divenire umano; una realtà universalmente valida. Nel contempo rifuggiamo da quella parte deterministica del suo pensiero, di ascendenza positivistica come l’epoca comandava, che vedeva in leggi valide per sempre in grado di predire lo svolgersi della storia dalla metà del XIX secolo ad un futuro indeterminato. Questa seconda è la parte giudicata più feconda dai suoi tanti epigoni, che l’hanno spesso sviluppata in senso millenaristico, quasi che l’umanità avesse un fine determinato da leggi immanenti, ma è proprio questa parte di Marx che noi rifiutiamo, nella convinzione che non ci è possibile credere che un uomo, seppur estremamente intelligente, potesse prevedere il futuro nei secoli a venire. Sono proprio quelle leggi immanenti che ci lasciano perplessi o che non ci sembrano valide, come la famosa caduta tendenziale del saggio di profitto, quasi che l’umanità non avesse altre possibilità che seguire un destino ineluttabile.

La fine del capitalismo?

Molte delle previsioni di Karl Marx si sono avverate nel breve periodo, a riprova che la lettura delle leggi di funzionamento del capitale vigenti al momento della sua analisi erano corrette: basti pensare alle crisi cicliche di sovrapproduzione. Ma poi il capitale si è evoluto, ha cambiato pelle e modalità di funzionamento. Questo è il punto! Non l’umanità nel suo complesso decide il suo progredire storico, ma chi detiene il potere reale, quello economico, ha la facoltà di cambiare ciò che dal suo punto di vista non funziona, e questo ha fatto nel corso di un secolo e mezzo e non una volta sola. Ciò non significa che i padroni esso vedano e prevedano tutto; a volta sbagliano, ma questo procedere euristico per tentativi ed errori, gli consente di sopravvivere a ogni facile e catastrofica previsione. Il fine dei padroni è uno solo: il profitto; ad esso sacrificano tutto e soprattutto la vita degli altri, che sia condotta in modo miserabile o addirittura stroncata, non importa. Per ottenere il profitto non devono avere avversari e quindi necessitano del consenso sociale, per
cui il dissenso va soppresso o annichilito con la propaganda. In casi estremi essi possono rinunciare anche ad un po’ di profitto per riconquistare il controllo sociale, come già avvenuto. Sono queste le considerazioni che ci portarono a sostenere fin dal 1875 che le possibili forme di esistenza del capitalismo fossero molto più numerose di quelle che un rigido meccanicismo potesse individuare. Le nostre analisi, quindi, cercano sempre di partire dai dati che ci appaiono più significativi, senza la voglia di inquadrarli in una necessarietà che ce li faccia costringere in una cornice predefinita, che li sacrifichi come un letto di Procuste; un approccio all’analisi senza i paraocchi di una cassetta degli attrezzi valida ab aeterno.

L’ideologia

Quanto detto non significa che non ci sia bisogno di un paradigma cui fare riferimento. L’ideologia non è una lente colorata che deforma i contorni e le sfumature della realtà, ma un complesso di idee che permette di leggerla.
Laddove questo sistema di pensiero si irrigidisca si trasforma nell’“ideologia”, nel senso comunemente spregiativo della parola e quindi tende a travisare ciò che vede par farlo rientrare in parametri artificiali. Quelli che vanno fatti salvi sono i principi di fondo, non gli strumenti che da essi di volta in volta vengono inferiti. Proclamarsi oggi comunisti anarchici significa proprio questo: credere che tutt’oggi la società sia divisa in classi, di cui almeno una sfrutta tutte la altre, quali più e quali meno, anche se oggi la divaricazione tra ricchi e poveri è sempre più marcata ed i contorni delle classi, oggettivamente anche se non soggettivamente, sempre più netti. Credere anche che la liberazione delle classi subalterne sia solo nelle loro mani e non nel salvifico intervento di un qualsiasi uomo o gruppo di uomini della provvidenza. Credere che il successo di una rivoluzione non stia nella presa del Palazzo di Inverno, ma nella costruzione di una coscienza collettiva cosciente dei propri diritti e dei propri doveri di solidarietà verso tutti i nostri simili. Credere che la salvezza del
pianeta non stia nelle mani dei governati o degli scienziati, spesso contagiati dal virus del dottor Strangelove, ma nel corretto rapporto col proprio ambiente, che solo un popolo libero e cosciente può instaurare col proprio territorio.

La necessità di un’organizzazione

Fa parte del nostro bagaglio la convinzione che tutto quanto sopra detto non si possa verificare per la spontanea evoluzione della storia, ma che necessiti per avverarsi dell’azione cosciente di una minoranza il cui scopo non sia quello
di agire per conto e nell’interesse dei più, bensì quello di fare opera maieutica per fare affiorare gli interessi reali degli oppressi e che essi ne prendano piena coscienza, assumendo nelle proprie mani il loro destino. Molti di noi hanno
raggiunto un’età ragguardevole e, spenti gli entusiasmi e le speranze del momento in cui hanno intrapreso il proprio agire politico, hanno visto via via affievolirsi le possibilità di vedere l’atteso capovolgimento dell’assetto sociale. Vari tentativi abbiamo avviato verso la costruzione di un’organizzazione nazionale dei comunisti anarchici, purtroppo andati nel vuoto.
Ora ci vediamo costretti a prendere atto che questa esigenza organizzativa vada disattesa. Ci resta il compito di lasciare traccia di un ideale e di un metodo di lavoro.
                                                                                                       La Redazione