LA CRISI DELLE SINISTRE

Se c’è una crisi indiscutibile in tutto il mondo è quella della sinistra, (socialdemocratica e/o riformista) nonché di classe. La socialdemocrazia classica, declinata nelle sue varie articolazioni non esiste più. Sono stati abbandonati completamente i suoi punti di riferimento classici quali: l’accettazione dell’ordine legale delle democrazie liberali, la democrazia parlamentare, il rispetto dei diritti individuali di libertà (inclusa la libertà di mercato); è stato abbandonato, dichiarandolo non più “sostenibile”, il welfare State; i diversi partiti hanno sposato il neoliberismo, divenendone gli alfieri. Le leggi elettorali maggioritarie stravolgono la rappresentanza, rafforzano i poteri degli esecutivi a scapito del l Parlamento facendo venir meno ogni bilanciamento dei poteri tra i diversi organi costituzionali.
I partiti della sinistra hanno accettato la destrutturazione della legislazione del lavoro, costruita in anni di lotte e frutto dei precedenti cicli economici, per imporre una società precarizzata a livello sociale, squilibrata nel rapporto tra ricchi e poveri, la riduzione dei livelli salariali in nome della competitività, accettando che la ricchezza si concentrasse nelle mani di pochi, distruggendo completamente la classe media e ora si lamentano del fatto che sono scomparsi i loro elettori. In tal modo sono venute meno le ragioni stesse della loro funzione di rappresentanza, e ciò spiega la perdita inarrestabile di consensi ovunque.
Oggi uno Stato, che vorrebbe essere etico, impone ai cittadini le proprie scelte; i migranti costituiscono un “esercito industriale di riserva” privi della cittadinanza e quindi impossibilitati ad incidere sulla composizione delle strutture politico-amministrative che gestiscono il territorio, sono ridotti alla funzione di schiavitù sociale senza diritti di rappresentanza. Accettando le politiche di austerità i partiti cosiddetti socialdemocratici hanno distrutto l’elemento qualificante della loro stessa teoria politica: il welfare State.

Il socialismo riformista e i “riformisti populisti”

La degenerazione appena descritta dei partiti non più socialdemocratici non si accompagna certamente alla rinascita di partiti socialisti riformisti. Come le ultime elezioni hanno dimostrato i transfughi dei partiti socialdemocratici degenerati (PD) non vengono premiati dagli elettori in quanto non credibili. Le loro proposte non offrono un’alternativa valida, non prospettano nemmeno una politica di profonde riforme ma solo qualche aggiustamento. Non offrono insomma un’alternativa, un progetto di società, per il quale valga la pena di battersi. Sono privi non solo di visione strategica, ma anche di proposte tattiche, immediate, almeno difensive. Costoro non riescono a costruire organizzazione politica, a proporre un sistema di analisi della realtà, di valori e credenze, finalizzato a guidare i comportamenti collettivi verso l’obiettivo di un nuovo ordine politico in grado di eliminare o almeno ridurre le disuguaglianze sociali, attraverso una qualche forma di socializzazione dei mezzi di produzione e individuando correttivi applicati al meccanismo di distribuzione delle risorse economiche. Le loro proposte suggeriscono qualche correttivo alle politiche conservatrici e finiscono per razionalizzare un sempre maggior controllo su una platea di poveri sociali in espansione costante.
Una novità nel panorama politico sembra essere costituita da quei partiti e movimenti che si dichiarano post ideologici – ne di destra ne di sinistra – e che presentano caratteristiche tra loro molto diverse. Tratto comune non è tanto e solo la dichiarazione di abbandono di un’analisi e di una collocazione ideologica nello schieramento politico, ma l’inesistenza di un progetto di società futura, una dimensione empirica dell’azione che fa di loro dei riformisti e razionalizzatori del sistema. Nella loro azione confluiscono l’insofferenza per la mala politica, il rifiuto della corruzione, la convinzione che vi sono margini di azione positiva se solo ci si muove da un’ottica efficientistica, la convinzione che si può fare di meglio anche operando all’interno delle regole stabilite e accettandole, l’idea che vi possa essere un altro ordine non è possibile.
Si tratta di proposte all’apparenza minimaliste ma che di fronte alla povertà e alle miserie della socialdemocrazia degenerata e all’inconsistenza delle proposte di ciò che resta della sinistra istituzionale e di classe, appaiono come il male minore e spesso come una soluzione dignitosa ai problemi. A rafforzare il fascino di queste proposte concorre la promessa della rotazione degli incarichi, della revisione della democrazia di mandato, il tentativo di mettere sotto controllo gli eletti, evitando che si formi un novo ceto politico burocratico dedito a vivere dalla gestione della cosa pubblica, di politici di mestiere, gestori del consenso.
Tuttavia nemmeno costoro possono sfuggire al dominio del capitale e del mercato, alle imposizioni che vengono da un sistema di gestione del potere finanziario che detta le regole di funzionamento non solo del mercato, ma della gestione politica della società.

Il ruolo delle destre populiste

Questa insufficienza delle forze riformiste alimenta una soluzione a “destra” della crisi di gestione del consenso che si sta producendo nei diversi paesi europei e negli Stati Uniti. Se il riformismo si rivela incapace di gestire il consenso proprio a causa del venir meno della sua stessa ragion d’essere, acquista consistenza la proposta avanzata dai partiti di destra che si fanno interpreti del disagio sociale, della crescita della disoccupazione, delle diminuite protezioni sociali, indicandone la causa nell’immigrazione di massa, a sua volta prodotta proprio da una gestione dissennata del mondo di quello stesso capitale finanziario e di quelle forze monopolistiche che questi dicono di voler combattere.
Così mentre i gestori attuali dei governi investono sull’immigrazione di massa per alimentare un consistente esercito industriale di riserva e per contrastare gli effetti della riduzione della natalità nei paesi dell’Europa le forze della “destra” politica si fanno carico della conflittualità nascente nei territori, delle insofferenze razziali, dei problemi identitari e sociali proponendo soluzioni di contrasto e contrapposizione che attraggono non pochi operatori economici e finanziari, preoccupati del crollo di consenso imputabile a quelle forze politiche “riformiste” alle quali hanno appaltato la fase attuale della gestione della società.

L’insufficienza della sinistra di classe

Se il riformismo, in tutte le sue accezioni non ride, se la destra accumula successi, la sinistra di classe non esiste e tanto meno esiste un’alternativa rivoluzionaria in questa fase economica e politica. Manca il progetto, sono assenti le idee cardine di riferimento, manca ogni idea sulle alleanze, sull’organizzazione politica, su una proposta anche minima di carattere strategico, mancano perfino proposte tattiche di breve periodo e di limitata ampiezza territoriale. Un silenzio assordante giunge dalla sinistra sulle vertenze aziendali, sulla scuola, sulle pensioni, sull’assistenza sanitaria e il welfare, sul problema istituzionale.
Quello che occorre è ripartire dal basso. Dai luoghi di aggregazione e di lavoro, dalle lotte esemplari autogestite in grado di dare corpo e anima all’autonomia sociale, sostituendo alla mediazione dei corpi intermedi che peraltro non esiste più l’azione diretta e la costruzione di alleanze tra lavoratori, migranti e non nella comune difesa di condizioni di vita e di lavoro. Nessuna alternativa è possibile se non si parte dalla ricomposizione degli interessi dei lavoratori, indipendentemente dalla loro collocazione nel mercato del lavoro.

G.C.