LA STABILIZZAZIONE DELL’UNIONE EUROPEA DOPO LA BREXIT

Se l’Inghilterra del dopo Brexit dovrà misurarsi con un Pil più basso del 3-4% a causa del mancato accesso al mercato unico e della minore capacità di attrarre capitali e investimenti – come prevedono la gran parte degli economisti – pochi si sono occupati degli effetti di questa scelta sull’Unione Europea, non solo e non tanto dal punto di vista economico, ma per gli effetti sulla governance dell’Unione derivanti dal venir meno di uno dei paesi forti che ne orientavano la politica.

Questa defezione avviene proprio mentre all’interno dell’Unione va assumendo posizioni sempre più autonome un nucleo di Paesi, quello di Visegrád, (Polonia, repubblica Ceca, Slovacchia e Ungheria), nato nel 1991, ben prima del 2004, data di adesione di questi paesi all’Unione, il quale dispone del Fondo d’Investimento Internazionale di Visegrád, con sede a Bratislava, che ha un budget annuale di 3 milioni di euro. Questi paesi non hanno certo la forza dei paesi fondatori dell’Unione, ma dispongono di una struttura economica di mercato relativamente solida e hanno un tasso di crescita piuttosto alto rispetto alla media europea. Pertanto, per un insieme di motivi, che analizzeremo, sembrano avere la capacità di coagulare intorno a se un gruppo di altri Paesi, riuscendo così a condizionare fortemente il voto nelle istituzioni comunitarie.
Il risultato delle recenti elezioni austriache avvicina politicamente questo Paese al gruppo e le politiche anti-russe dei Paesi baltici non fanno che accrescere la forza del gruppo, portando a 8 gli Stati europei che possono contare sul crescente peso dei partiti di destra in Europa. per le loro politiche di chiusura della fortezza europea. Se si esaminano le caratteristiche strutturali di questi paesi ci si accorge che questi costituiscono il terreno ideale per attuare il decentramento produttivo, accogliendo le industrie manifatturiere dismesse dai Paesi dell’Europa occidentale e al tempo stesso possiedono una struttura amministrativa e un apparato giuridico consolidato di derivazione asburgica e di cultura giuridica tedesca che, a differenza degli altri Stati facenti parte del blocco ex sovietico, sono stati in grado di superare i problemi del pieno ripristino della proprietà privata e di certezza del diritto nell’esercizio dei diritti proprietari.
È certamente vero che comunque la Germania e la Francia, con il sostegno di Italia e Spagna costituiscono un “nocciolo duro” capace di orientare l’unione, ma senza dubbio la ripresa della politica di allargamento dell’Unione attraverso nuovi ingressi avrebbe tre effetti: mostrare che l’Unione, malgrado la defezione britannica, può ancora crescere; veder aumentare i voti all’interno degli organismi comunitari a favore del nucleo originario dell’unione e soprattutto mostrare che vi sono territori alternativi di delocalizzazione all’area rappresentata dai paesi di Visegrád e dai Paesi baltici.

L’apertura ai Balcani occidentali

Da Bruxelles giunge la notizia che si preparano ad entrare nell’Unione l’Albania. (candidata dal 2014), il Montenegro (candidato dal 2010), la Serbia. (candidata dal 2012), la ex Repubblica iugoslava di Macedonia. (candidata dal 2004). Se l’ingresso dei primi tre Stati non sembra presentare problemi insormontabili va certamente risolto il problema della denominazione del quarto. La Grecia contesta infatti ai macedoni l’uso del nome Macedonia e soprattutto rileva che il documento fondativo della Repubblica individua come territorio dello Stato anche l’area di Salonicco. Questa rivendicazione è contraria ai trattati fondativi dell’Unione che sanciscono l’intangibilità dei confini per cui l’adesione macedone dovrebbe quantomeno essere preceduta da una revisione costituzionale in Macedonia.
L’allargamento dell’Unione in quest’area vede in prospettiva l’ulteriore adesione della Bosnia-Erzegovina che presenta ancora non pochi problemi di stabilità, mentre il Kosovo – altro potenziale candidato – non è riconosciuto nemmeno da tutti i Paesi dell’Unione. (Non lo riconosce la Spagna per non legittimare la secessione di una parte di territorio da uno Stato e cioè del Kosovo dalla Serbia, per il timore di un sostegno indiretto al secessionismo catalano o basco).

La presenza turca nei Balcani occidentali

Malgrado queste difficoltà l’ingresso di questi paesi nell’Unione è urgente per un ulteriore e forse più importante motivo: occorre contrastare in tutti i modi la penetrazione economica culturale e politica della Turchia nell’area balcanica che rischia non solo di sottrarre mercati e aree di investimento all’Europa, ma soprattutto di radicare in un territorio certamente europeo una presenza islamica rinnovata nella forma, nella strutturazione culturale, nella lingua, nella cultura e nella formazione.
Già ora gli investimenti turchi in questi Paesi sono massicci e articolati. Da tempo l’industria turca, facilitata nel costo del lavoro da un esercito di riserva di manodopera a bassissimo costo (i profughi dai conflitti mediorientali) colloca sul mercato le proprie produzioni, accompagnandole con una penetrante presenza culturale e propagandistica, con un dichiarato sostegno alle comunità islamiche di questi paesi. Questo sostegno si manifesta nell’editoria ma riguarda anche il campo della programmazione e trasmissione televisiva con produzioni specificamente dedicate a questo mercato che propagandano valori e modelli di vita neoislamici, un una lettura neoconfessionale propria dell’attuale governo del Paese. Inoltre la Turchia fornisce servizi come ad esempio in campo medico-sanitario, attraverso la creazione di strutture in loco con personale formato nelle università turche ma anche dirottando ad esempio verso la Turchia i malati per le cure più importanti e costose. La conoscenza della lingua, non solo a livello di minoranze, tra le popolazioni balcaniche fa il resto e veicola verso la Turchia un flusso di interessi crescenti.
Vista alla luce di questi elementi strutturali l’adesione della Turchia all’Unione (candidata fin dal 1987) sarebbe oggi quanto mai funesta e carica di conseguenze non certo positive e non solo per motivi economici. Il regime turco attuale è certamente irriformabile ed è importante mantenere le distanze da uno Stato che vuole reintrodurre la pena di morte, che si confessionalizza sempre di più, che reprime le minoranze, prime fra tutte quella curda, che abroga le libertà civili incarcerando e condannando la stampa critica verso il regime.
La politica aggressiva turca è tanto più preoccupante per il fatto che le scelte europee non limitano in alcun modo le sue attività aggressive. Del resto basta viaggiare per i Balcani per constare la comparsa recente di piccole e grandi moschee, con doppio minareto (tipiche dell’islam turco tradizionalista) accanto alle moschee con un solo minareto che sono quelle tradizionali dell’islam balcanico, oppure assistere, come a Tirana, alla costruzione della grande moschea con quattro minareti sul modello delle “cattedrali” turche e questo con il consenso del governo albanese ! Questa politica di penetrazione dell’islam turco rischia di compromettere il delicato equilibrio religioso dei Balcani occidentali “regalandoci” future guerre di religione e pulizia etnica dell’una e l’altra parte.

Per una nuova politica dell’unione vero i Balcani occidentali

Non si tratta qui di rilanciare solo il programma PHARE per fornire assistenza finanziaria ai paesi partner affinché essi raggiungano un livello tale da poter assumere i propri obblighi in quanto membri dell’Unione europea. Il problema non è di promuovere “forme di sostegno al processo legislativo, allo sviluppo di nuove strutture e istituzioni amministrative e tutti gli elementi di una società civile e democratica compiuta” come era nell’intento anche del programma TACIS (PTDP). Occorre che l’Unione capisca che non basta promuovere il rispetto dei Criteri di Copenaghen, adottati nel 1993 quali: istituzioni stabili che garantiscano la democrazia, lo stato di diritto, i diritti umani, e il rispetto delle minoranze l’esistenza di un’economia di mercato funzionante e la capacità di fronteggiare la competizione e le forze del mercato all’interno dell’Unione, la capacità di sostenere gli obblighi derivanti dall’adesione, inclusi quella all’unione politica, economica e monetaria, adattare la propria struttura amministrativa e giuridica per fare in modo che la legislazione europea possa essere efficacemente fatta propria dalla legislazione nazionale di questi paesi.
Occorre promuovere i valori dell’Europa sociale, consentire lo sviluppo di istituzioni partecipative e di strumenti di difesa delle collettività, come organizzazioni sindacali, organizzazioni territoriali di base, di difesa di cittadini e residenti, promuovere politiche di protezione delle minoranze, di assicurare le libertà individuali e collettive, promuovere la solidarietà sociale. consentire la crescita di una società partecipata che sola può garantire il superamento di quelle barriere che fin’ora hanno portato guerre e distruzione all’interno dell’Europa.
Perché tutto ciò sia possibile l’Europa deve rivedere le sue scelte in materia di tutela dei diritti, ma anche abbandonare le sue scelte a sostegno del neoliberismo imperante, rendendosi conto che una politica di sostegno alle aree deboli e di sviluppo equilibrato dei territori è il migliore antidoto al radicalismo per fare dello spazio europeo un luogo di crescita dei diritti
Occorre essere coscienti che il pericolo di riproposizione di politiche di pulizia etnica non è scomparso anzi è quanto mai attuale con il riproporsi di vecchi e nuovi fascismi che solo la solidarietà di classe può permettere di sconfiggere alla radice

Gianni Cimbalo