CASINI NEL PD

“Non importa che sia un gatto bianco o un gatto nero, finché cattura topi è un buon gatto.” In questa frase, attribuita a Deng Xiao Ping, sono racchiusi da una parte, un realismo del tutto assennato (quello di Deng, per intenderci) di una forza politica che, da rapporti di forza ben precisi, è in grado di utilizzare pro domo sua anche le forze di eventuali avversari (atteggiamento del resto molto orientale), mentre dall ‘altra, un tardo togliattismo che è divenuto mero opportunismo.
Infatti, nella vulgata, appunto, post-togliattiana, questa lettura è diventata una vera deriva, che, se ancora con Berlinguer (pur nell’ambito di un riformismo di destra, ma “onesto”, diremmo oggi) poteva avere o simulare, perlomeno, una parvenza di “direzione strategica” da parte del partito, ancora “balena rossa”e dall’altro del suo 34%, si è oggi trasformata in una definitiva valanga opportunista e, forse, anche masochista.
L’aspetto ancora più singolare di questa implosione della stessa logica è che il topo è sparito dagli orizzonti. Non è più lo scopo dell’azione politica. Se Machiavelli certamente inorridirebbe di fronte a tanta deficienza, non da meno sarebbe la reazione di qualunque politico (non PCI) che avesse anche solo mosso i primi passi nella vituperata “prima repubblica”.
Il già sciagurato “compromesso storico” di Berlingueriana memoria è diventato solo compromesso, o, meglio, totale compromissione, va detto, con alcune, interessanti continuità.
È bene precisare che quel progetto pareva avere più nobili natali e anche più elevati ideali. Possiamo anche considerare la assoluta diversità di un ceto politico del tutto non paragonabile all’attuale, anche se all’epoca molti di noi la pensavano diversamente.
D’altronde, non avevamo la sfera di cristallo e non pensavamo che la situazione avrebbe potuto peggiorare fino a tale punto.
La situazione attuale, dunque, va ben al di là della idealistica concezione (strana in un partito che si dichiarava comunista) per cui mettendo insieme due partiti di massa la democrazia ne avrebbe goduto di per sé.
Questo, senza un progetto sulla strada da percorrere e la direzione dove andare e diventando, nei fatti, subalterni al progetto democristiano.
Un progetto, tra l’altro, che non era più neppure quello della fase keynesiana, ma stava trasformandosi nell’affermazione disciplinante del neo-liberismo.
Ma allora come oggi, quel partito, diminuita sempre di più la qualità dei propri dirigenti, poteva comunque contare su una tendenza davvero cieca e ottusa della propria “base”, pronta e prona ad ogni cambiamento di rotta, anche il più estremo, sull’onda di un “realismo” ormai divenuto “pragmatismo” allo stadio più basso.
Beninteso, questo “pragmatismo” era, in determinati strati del partito, ben collegato a poteri e danari reali: municipalizzate, comuni, cooperative, carriere politiche, carriere professionali. Un mondo, insomma, che viveva, gestendo in maniera, a volte, molto efficiente e anche efficace un capitalismo venduto come socialismo locale.
Quindi, a latere di tanta ottusità, vi era anche una cinica e spregiudicata consapevolezza del legame strettissimo fra carriera politica e carriera tout court.
Forse, anzi sicuramente, questo pragmatismo, ha prodotto benessere reale, ha creato una egemonia fondata su valori camuffati molto bene. Uno per tutti, l’antifascismo, il vero collante interclassista dell’ampia zona ex-rossa d’Italia.
E, certamente, questo ha prodotto vero consenso, basato su questioni reali e concrete (il lavoro, la casa, i soldi, l’avanzamento sociale).
Valori, del resto, condivisibili da qualunque ordo-liberista contemporaneo, il quale è sicuramente antifascista, antirazzista ecc..ecc…
Da questo punto di vista il cambio del nome del PCI nel 1991, non produsse un trauma così devastante come lo si racconta. La maggioranza della mozione favorevole fu amplissima e, in fondo, anche la nascita di Rifondazione non rimise in moto nessun PCI. Perché il PCI era il PDS, e lo era ormai da molti anni.
Chi scrive pensa, anche a costo di farsi rincorrere con falce e martello, che la continuità fra il PD e il PCI Berlingueriano sia molto più stretta della “narrazione” che i duri e puri ne fanno.
Se si legge la parabola di quel partito, (da non intendersi, beninteso come una teleologia. Nulla è inevitabile) i prodromi del PD renziano (ma anche Bersaniano, D’Alemiano ecc…) erano ampiamente presenti fino dalla metà degli anni ’70. Certamente in un contesto diversissimo, ma c’erano.
È illuminante leggere il saggio che nel 1987 Leonardo Paggi e Massimo D’Angelillo scrissero a proposito della politica economica del PCI.[1]
Un partito ormai convertito all’austerità, al liberismo, alla lotta all’inflazione (considerata un pericolo “fascista”) e intriso di moralismo.
Dunque perché stupirsi, oggi, se il PD (PCI-PDS-DS) candida Pierferdinando Casini nelle proprie liste? Perché stracciarsi le vesti di fronte ad un gesto del tutto in linea con la storia e la compagine da cui origina il partito?
Se Casini sta nel PD, non ci sono casini per il PD.
È il PD che è un casino per il paese.

Andrea Bellucci

[1] L. Paggi, M. D’Angelillo, “I comunisti italiani e il riformismo. Un confronto con le socialdemocrazie europee,” Einaudi, 1986 scaricabile gratuitamente qui http://docenti.unisi.it/sergiocesaratto/wp-content/uploads/sites/26/2016/02/Paggi-I-comunisti-italiani-e-il-riformismo.pdf