I FRUTTI DELL’ERRORE

Tra le tante sigle che hanno fatto recentemente irruzione nella scuola italiana, sigle che quasi sempre nascondono adempimenti inutilmente burocratici e immancabilmente farraginosi, c’è quella del Rav, che sta per Rapporto di AutoValutazione. In esso gli istituti scolastici sono chiamati annualmente ad analizzare la propria situazione interna per individuarne, come si dice in gergo, i punti di forza e quelli di debolezza. Queste autoanalisi vanno poi inviate al Ministero che le pubblica su di una vetrina nazionale che va sotto il nome di “Scuole in Chiaro”. (http://www.miur.gov.it/scuola-in-chiaro)
Tra i punti da compilare nel modello predisposto allo scopo gli “esperti” del Miur hanno inserito pure quello relativo alla descrizione della situazione socioeconomica degli allievi. Non c’è motivo di dubitare che, nella loro testa (quella degli “esperti” cioè) la disanima della fascia sociale di provenienza dei discenti (provenienza sociale, situazione familiare, appartenenza o meno a nuclei di recente immigrazione, presenza di disabilità, etc.) fosse intesa a individuare le caratteristiche dei bisogni formativi presenti nell’istituto per adattare ad essi le offerte formative, cioè, al di là dell’orrendo ed imperante didattichese, i modi e le caratteristiche degli insegnamenti da impartire e quali fossero le priorità dei problemi da affrontare.
Ora grande scandalo è stato sollevato da alcuni geni della lampada, inopinatamente assunti alla carica di Dirigenti scolastici (e forse una riflessione sulle loro modalità di assunzione andrebbe pur fatta) o da questi ultimi chiamati a redigere, sotto la loro supervisione, questi mitici Rav abbiano interpretato il punto suddetto non come un problema da affrontare, ma come ricadente nelle benemerenze dalla scuola da loro diretta, da dare in pasto al pubblico dei genitori per rendere appetibile l’iscrizione all’istituto. Ne sono nate situazioni paradossali, se non fortemente allarmanti, ad opera in particolare di “prestigiosi” licei classici di grandi città. Alcuni hanno fatto notare con soddisfazione la scarsa presenza o addirittura l’assenza di allievi extracomunitari, la scarsa presenza o addirittura l’assenza di allievi portatori di handicap e così via discriminando. C’è stato persino chi ha vantato di avere nelle proprie file solo alunni provenienti dai ranghi della buona borghesia cittadina, con purtroppo la presenza, fortunatamente irrilevante, di figli di (orrore!) portieri, segnalando questo neo con lo stesso fastidio con cui il Principe di Salina guardava la macchiolina di caffè che interrompeva “il vasto biancore” del suo panciotto.
È ovvio che questi episodi sono non solo detestabili, ma anche ridicoli, svelano il fondo di razzismo e di intolleranza, anche censitaria, che attraversa la nostra penisola. Quello che risulta meno sopportabile è lo scandalo menato dalle anime belle della politica, che ben lungi dal cercare le cause che questi avvenimenti generano, tuonano contro gli incauti che hanno disvelato il loro volto meno presentabile nell’intento di farsi belli. Lo scopo di questo articolo non è però quello di fare un’analisi sociologica di ciò che ribolle nella società italiana, sia nelle classi agiate che in quelle meno abbienti e più emarginate, analisi necessaria che viene rimandata ad altro momento, ma quello di restare nell’ambito scolastico.
Come è si è verificata questa deriva? È vero, un tempo quegli stessi “prestigiosi” licei classici avevano la stessa composizione sociale di oggi, ma non avevano bisogno di farsene vanto; la loro fama non era legata al ceto dei loro studenti, ma alla serietà della preparazione che impartivano, serietà che poteva addirittura allontanare certi poco promettenti figli di papà, che sceglievano la via dei diplomi facili impartiti da compiacenti e costose scuole private per ottenere i titoli che il liceo statale non avrebbe mai loro concesso.
L’origine di ciò che è ora sotto gli occhi di tutti va ricercata nelle scelte che un ventennio fa ha sciaguratamente operato il ministro Luigi Berlinguer, che tutt’oggi impartisce, fortunatamente inascoltato, lezioni inutili o sbagliate sul futuro della scuola, inconsapevole dei danni provocati. Gli errori allora commessi sono sostanzialmente tre; i maggiori trascurandone altri di minore importanza.
Il primo è di aver giudicato del tutto inadeguato il sistema allora vigente nell’istruzione nazionale. Invece di fare un’analisi dei pregi e dei difetti esistenti, al fine di correggere questi ultimi, egli giudicò bartalianamente “tutto sbagliato, tutto da rifare!” Non fu minimamente sfiorato dal pensiero che pure il sistema produceva risultati apprezzabili, certo non peggiori di altri sistemi altrove funzionanti e ovviamente perfettibili. Il peggio però fu che il modello preso a riferimento non era quello francese, o quello russo o quello tedesco, tutti interessanti con i loro pregi ed i loro difetti, bensì quello che in base a tutte le indagini internazionali produceva i risultati formativi e sociali peggiori: quello anglosassone.
Il secondo errore fu quello di inventare il “sistema scolastico pubblico-privato” che integrava e metteva sullo stesso piano la scuola della Repubblica con quella privata, aprendo così la strada al finanziamento delle scuole confessionali ed in definitiva alla sanatoria per gli insegnanti di religione nelle scuole statali attraverso la loro ruolizzazione.
Ma da questo secondo errore scaturì l’oggetto della nostra indagine, il terzo errore. Pensò l’illustre pedagogo che necessitasse a questo sistema pubblico in tal modo allargato un bel po’ di competizione, in modo tale da stimolare le scuole ad emularsi ed a sopravanzarsi per attirare la “clientela” (denominata “utenza”). Per far questo lo strumento messo in atto si chiamò “dimensionamento”, ovverosia la teoria che un istituto più è grande meglio funziona. La cosa così detta è palesemente assurda, ma intanto serviva a risparmiare sui costi delle dirigenze istituite nel contempo di pari passo con la creazione dell’autonomia scolastica, il secondo pilastro della concorrenza tra scuole. Ma da un punto di vista della qualità didattica disperdeva il corpo docente in un mare di “colleghi” che spesso si ignorano; così il gruppo che si costituisce in una scuola piccola e quindi più facilmente governabile si dissolve e perde quei connotati che formavano la qualità di un determinato istituto e che fatalmente si trasferivano via via ai nuovi arrivati che venivano gradualmente assimilati; è questo che ha reso ogni scuola anonima e la costringe a propagandarsi grazie ai servizi offerti (piscina, giardino, aule speciali e così via) fino ad arrivare agli eccessi di cui si è detto all’inizio.
I guasti prodotti sono ancora più profondi. Si è tanto cianciato negli ultimi anni di mission e di vision che ogni scuola deve avere, ovverosia delle prospettive formative di cui si deve autonomamente dotare; e questo in una logica di competizione con le altre istituzioni scolastiche similari. Resto della convinzione che l’istruzione della Repubblica debba fornire le stesse opportunità e le stesse prospettive in tutto il territorio. Una volta che il discente abbia scelto un indirizzo che ritiene adatto alle proprie attitudini, che differenza ci deve essere tra una scuola di Misilmeri ed una di Livigno? Ovviamente ogni aggregato di classe ha le proprie differenze, perché differenti sono gli studenti che lo compongo e differenti sono i docenti che vi afferiscono, ma questo vige per ogni classe anche all’interno della stessa scuola ed è una caratteristica di per sé ineliminabile, ma non ha nulla a che vedere con le finte, quanto spesso deleterie, diversificazioni che mettono un istituto contro un altro. Senza poi parlare del settore delle scuole del primo ciclo dove parlare di mission e di vision è un insulto ai doveri di prima alfabetizzazione e di primo approccio ai metodi di studio delle singole discipline.
C’è di più! Le scuole autonome, in reciproca competizione, necessitano di attirare “clienti”, altrimenti a causa del dimensionamento perdono la propria autonomia, non sono più opportunamente presidiate, divengono di serie B e tendono a scomparire. Per fare quindi le classi occorre una politica di facile promozione, il tutto spacciato per una scuola “dell’accoglienza”. La scuola deve essere accogliente per gli alunni in qualsiasi modo svantaggiati, per gli altri un ambiente accogliente può essere propedeutico ad un buon apprendimento, ma senza dimenticare che lo scopo dell’istituzione non è quello di accogliere, ma quello di formare; ovverosia l’accoglienza può essere uno strumento ma non il fine dell’istruzione. Purtroppo gli effetti di queste parole d’ordine sono tragicamente d’attualità: partendo dal presupposto che la promozione è pressoché garantita gli allievi tendono a non impegnarsi, non impegnano le proprie risorse per impossessarsi di un’autonoma capacità di apprendere, di giudicare, non introiettano la consapevolezza che stanno costruendo il proprio futuro di cittadini consapevoli e critici, finendo col credere che tutto sia loro dovuto come un diritto; ed in ciò sono agevolati spesso da famiglie che li proteggono da ogni difficoltà, dimenticando che prima o poi saranno i loro figli a dover affrontare in prima persona le avversità che inevitabilmente la vita prospetterà loro. I fatti di cronaca recenti sono le patologiche conseguenti di questa logica.

Saverio Craparo