TRUMP L’IMMOBILIARISTA

Dopo 16 mesi dall’attacco di Hamas ad Israele e dall’intervento israeliano a Gaza l’assetto geopolitico del Medio Oriente è completamente cambiato e non solo per effetto dei 1200 morti israeliani del 7 ottobre e dei 70.000 morti palestinesi a Gaza, ma anche per le altre migliaia di morti in Cisgiordania, Libano, in Siria, nello Yemen e in tutta l’area del Medio Oriente investita dal conflitto. Ai morti vanno aggiunti i feriti, stimati in più di 400.000. Ad essere ridotta ad un cumulo di macerie non è solo la Striscia di Gaza ma anche il Libano meridionale, tante abitazioni in Cisgiordania fatte saltare dall’esercito israeliano e dai coloni, per non parlare delle rovine in Siria da anni dilaniata dalla guerra civile.
Mentre una fragile tregua ha permesso a una parte dei 250 ostaggi in mano ai palestinesi di ritornare ad abbracciare i loro cari in cambio della liberazione di prigionieri palestinesi si discute sui futuri destini di Gaza e del popolo palestinese e il ri-Presidente degli Stati Uniti, palazzinaro esperto, formula una proposta che a prima vista appare
assurda ed inaccettabile tanto che da essere giudicata da tutti gli interlocutori internazionali irricevibile, meno che dagli israeliani: Gaza verrebbe amministrata dagli Stati Uniti, magari rispolverando la formula del mandato (o forse Trump vorrebbe che fosse venduta agli USA da Israele che l’ha acquisita quale bottino di guerra!). Il popolo gazawi, verrebbe sgomberato in Egitto, Giordania o dove preferisce e il territorio della Striscia, rimosse le macerie, verrebbe trasformato in una “riviera” che costituirebbe il nuovo resort di lusso del Mediterraneo, dove – a detta del Presidente statunitense – “tutti
ambirebbero possedere una residenza.”
Probabilmente, nelle intenzioni dell’inquilino della Casa Bianca, si accentuerebbero i processi di esproprio e lottizzazione anche in Cisgiordania, in modo da far sì che l’espulsione dei palestinesi dalla Palestina sia totale e definitiva, realizzando i piani dei fanatici integralisti religiosi israeliani che progettano un Israele secondo i confini biblici, dal Giordano al mare. Non è un caso che il governo di Tel Aviv goda dopo la proposta di una solida maggioranza, forte del sostegno dei partiti religiosi e che Netanyahu viaggi con il vento in poppa.
Tutti gli altri Stati del mondo, sia pure con formule diverse, hanno espresso la loro contrarietà al progetto e hanno ribadito che l’unica soluzione possibile è quella dei due popoli, due Stati.[1] Il presidente statunitense, nel formulare la sua proposta non si dimentica di sottolineare che si tratterebbe di un investimento economicamente molto redditizio, che comporterebbe centinaia di migliaia di posti di lavoro e impiego di capitali così sostanziosi da garantire sicuri profitti ai paesi del Golfo, Arabia Saudita, Stati Uniti, allo stesso Israele e a chiunque voglia investire nell’area.
È questa la sostanza politica ed economica dei Patti di Abramo che già prima dell’azione di Hamas il 7 ottobre costituivano il contenuto degli accordi intercorsi tra la prima amministrazione Trump e i suoi interlocutori sia arabi che israeliani. L’infrastruttura che a livello geostrategico dovrebbe giustificare e supportare questo investimento è costituita dalla realizzazione della cosiddetta via del cotone [2] che si contrappone al progetto cinese di via della seta.

La via del cotone

Ora che l’ostacolo maggiore alla realizzazione di questa infrastruttura, costituito dalla presenza dei russi in Siria è stata rimossa da una provvida e discutibile sollevazione “rivoluzionaria”, sollecitata e sponsorizzata dalla Turchia, interessata ad acquisire una parte del territorio siriano, il controllo delle sorgenti delle acque dei grandi fiumi, ma anche di compartecipare nell’investimento, sembrano esservi le condizioni che garantiscono la realizzazione dell’infrastruttura.
È innegabile che il controllo turco sulla Siria garantirebbe militarmente sul fianco l’investimento, impedendo le interferenze iraniane sul traffico che la percorre.

La “via del cotone” è articolata su due collegamenti: uno ferroviario tra l’Europa e il Golfo persico (Emirati, Arabia Saudita, Israele, Giordania), l’altro portuale, tra India e Golfo persico; prevede anche la posa di cavi per la trasmissione dei dati e dell’elettricità e tubature per l’idrogeno verde. Il valore economico di questa infrastruttura ma anche i profitti che ne deriverebbero sarebbero enormi e consisterebbero alle merci prodotte in India di raggiungere l’Europa con un percorso breve e a costi contenuti, incomparabilmente minori rispetto al trasporto attraverso il canale di Suez oppure mediante la circumnavigazione dell’Africa. Sarebbe inoltre possibile far passare per lo stesso percorso i cavi che attualmente passano nel Mar Rosso e attraverso il canale di Suez supportano le comunicazioni tra l’India e l’Europa.
Il percorso attuale che subisce gli attacchi provenienti dallo Yemen e dai pirati del Golfo arabico verrebbe bypassato da un’infrastruttura totalmente controllata da paesi amici e non sottoposta a ricatti o ai continui attacchi, sfuggendo così ai condizionamenti del traffico marittimo imposti attualmente dall’Iran e dai suoi alleati.
L’amministrazione Trump pur concentrando la sua attenzione sulle Americhe, secondo una versione rivisitata della dottrina Monroe non intende trascurare le altre aree geostrategiche in funzione di contenimento dell’espansione economica, politica e militare di quella che considera il suo principale competitor, ovvero della Cina.

Il confronto con i BRICS

In questi giorni il Segretario di Stato Rubio ha dichiarato: “Entro cinque anni, ci saranno così tanti Paesi che utilizzeranno valute diverse dal dollaro che non saremo in grado di imporre loro sanzioni”. Già ora le sanzioni adottate su richiesta degli Stati Uniti sono in grado di mettere in crisi piccoli paesi, come ad esempio Cuba, ma non certamente
grandi potenze come la Russia, prova ne sia che attualmente è previsto un tasso di crescita del PIL russo del 4% per il prossimo anno. Questo perché è ormai nato un circuito economico e finanziario internazionale così vasto e articolato, costituito dai BRICS che funziona da circuito commerciale e finanziario alterativo e che dal 1° gennaio 2025, dispone di nove nuovi Stati “partner”, associati al gruppo. Considerati nel loro insieme, i membri e i partner del gruppo rappresentano ora più della metà della popolazione mondiale e il 40,4% della ricchezza globale (in termini di parità di potere d’acquisto). La nuova categoria di “Stati partner”, adottata a partire dal vertice di Kazan nell’ottobre 2024 ha esteso l’area BRICS a Bielorussia, Bolivia, Indonesia, Kazakistan, Cuba, Malesia, Thailandia, Uganda e Uzbekistan) ma potrebbe ampliarsi ulteriormente nel corso del 2025.
La nuova configurazione rafforza notevolmente i legami fra i partner, anche perché i nuovi Stati che sono entrati a far parte del gruppo potranno partecipare alle sessioni straordinarie dei vertici del gruppo, nonché alle riunioni dei ministri degli Esteri, rafforzando la coesione dell’organizzazione. In questa situazione sarà sempre più difficile per i paesi del G7 e per gli Stati Uniti stabilire relazioni privilegiate con l’India, tanto più perché gli Stati Uniti si stanno ritirando da molti organismi internazionali, mentre i Brics privilegiano il mantenimento dell’apertura del gruppo ai paesi del Sud del
mondo, continuando a investire nella lotta al cambiamento climatico, alla fame e alla povertà, oltre a garantire l’accesso ai vaccini e ai farmaci per i paesi in via di sviluppo. Ma c’è di più: l’India dipende in misura crescente dalla Russia per le forniture energetiche, sia di petrolio che di gas in particolare; non solo, ma ricava notevoli profitti vendendo il petrolio russo che raffina immettendolo sul mercato e aggirando le sanzioni.

La questione identitaria

Ma il terreno nel quale, a nostro avviso, il piano trumpiano presenta le maggiori debolezze è costituito proprio da quel nucleo centrale che nelle intenzioni del proponente dovrebbe costituirne la forza. La strategia trumpiana conta sulla prevalenza degli interessi economici e sulla ricerca del profitto come motore razionale delle decisioni e delle scelte dei popoli non tenendo conto del fatto che non è solo l’interesse materiale a muovere le scelte e ad orientarne le decisioni.
Anche le élite sono costrette a prendere atto che la normalizzazione dei popoli in nome della sopravvivenza, il loro sradicamento dal territorio, dalla tradizione, dai costumi, dalla religione, dalla loro memoria ancestrale, non è percorribile perché se c’è sempre una parte di persone disponibile, in nome del profitto, a cancellare ogni altro valore ciò
non costituisce una scelta universale, tanto meno nelle società di cultura e tradizioni islamico-arabe.
Ancora una volta gli Stati Uniti cadono vittima della loro visione del mondo che pone al primo posto una perversione del protestantesimo trasformata in teologia della prosperità che li induce a ritenere che l’interesse economico e il profitto siano l’unica sola vera pulsione che dirige e orienta le scelte degli esseri umani.
Questa visione perversa del sentire collettivo e sociale, della dimensione della psicologia di massa generalizzata ed estesa a tutto il genere umano, li porta a ritenere di poter far prevalere su ogni scelta espulsione umana l’interesse economico e del profitto. Vi sono popoli “meno giovani”, rispetto a quello che abita attualmente il territorio degli Stati Uniti, che sono dotati di tradizioni e memoria storica, caratterizzati da un attaccamento radicale alla terra, all’ambiente nel quale si è sviluppata la loro storia, sono state coltivate lingue e tradizioni, religioni e appartenenza, combattute guerre,
versato sangue, edificati i cimiteri e sepolcri, identificati luoghi della memoria che costituiscono parte essenziale e irrinunciabile della loro identità e che perciò non sono disponibili a rinunciarvi a nessun prezzo, neanche nella prospettiva di realizzare una “riviera”, moderno resort per ricchi su una delle sponde più belle del Mediterraneo.

[1] Sulla posizione dei comunisti anarchici sul conflitto arabo israiliano si veda: I comunisti anarchici, la questione ebraica e quella palestinese, Newsletter Crescita Politica, n. 178, nov. 2023;
[2] L’accordo per la realizzazione di un corridoio India-Medio Oriente-Europa (IMEC) è stato sottoscritto dai leader di Stati Uniti, India, Arabia Saudita, Emirati, Francia, Germania, Unione europea. Si tratta di due collegamenti: uno ferroviario tra l’Europa e il Golfo (Emirati, Arabia Saudita, Israele, Giordania), l’altro portuale tra India e Golfo che prevede anche di deporre cavi per la trasmissione dei dati e dell’elettricità e tubature per l’idrogeno verde. Il progetto è stato adottato dalla Partnership for Global Infrastructure and Investment (PGII), un’alleanza creata dal G7 nel 2022, e dal Global Gateway dell’Ue, che ha destinato fino a 300 miliardi di euro per investimenti sulle infrastrutture all’estero tra il 2021 e il 2027.

La Redazione