Ha detta di molti commentatori politici propensi a costruire una narrazione servile della storia, a tutto beneficio degli inquilini della Casa Bianca, l’avvento di Trump alla Presidenza degli Stati Uniti apre ad una nuova era salvifica che vedrà contemporaneamente la grandezza degli Stati Uniti e la pace: come le due cose siano compatibili rimane un mistero.
È opinione comune che la dimensione imperiale degli Stati Uniti è giunta alla fine e la storia dimostra che le convulsioni di un impero morente sono come quelle di un serpente che si dibatte disperatamente, e così facendo distrugge di qua e di là. Da ciò
deriva la nostra convinzione che il tramonto dell’egemonia americana e lo sviluppo della
transizione verso un mondo multipolare sarà segnato da lutti e rovine: eventi come la
guerra d’Ucraina e il conflitto in Medio Oriente sono solo due dei più di 50 sparsi per il
mondo che stanno lì a testimoniarlo.
Il nuovo Presidente USA, isolazionista, dichiara di volersi blindare nella fortezza degli Stati Uniti, della quale intende allargare i confini, adottando una versione modificata della dottrina Monroe, che lo spinge a chiedere al Canada di diventare il cinquantunesimo Stato dell’Unione, volontariamente, prima di esservi costretto con tutti i mezzi dei quali l’ingombrante vicino dispone; pretende di avere per sé la Groenlandia,
magari comprandosi i singoli cittadini uno a uno: rivendica piena sovranità su Panama e
sul suo canale; pensa ad una qualche forma per associare il Messico agli Stati Uniti, pur tenendolo lontano per non essere contaminato dai latinos, e per ora si accontenta di ribattezzare il Golfo del Messico come d’America. Pensa, cosi facendo, di riuscire a
risolvere i problemi dello squilibrio della sbilancia dei pagamenti degli Stati Uniti, gravata da un debito i 3.000 miliardi di dollari, trasformando il prodotto di questi Stati in
un incremento collettivo del proprio. La verità è che gli Stati Uniti hanno applicato una delocalizzazione selvaggia per cui oggi non producono più quasi nulla e quindi la loro bilancia dei pagamenti in deficit in un paese di fatto deindustrializzato.
Con le sue scelte strategiche Trump delinea una nuova politica delle aree di influenza, pronto a riconoscere alla Russia una propria area di pertinenza, avendo compreso che la guerra in Ucraina è perduta, pronto a scaricare sull’Europa i costi necessari sia se si vuole che la guerra continui o si interrompa comunque obbligando l’Europa ad assumersi il costo della ricostruzione, pronto a fare affari con le proprie imprese per beneficiarne.
Per il tramite del suo agente Musk fa la guerra al premier britannico Starmer, non in quanto laburista, ma come esponente di quella lobby interpartitica britannica che ha armato l’Ucraina, creando i presupposti per la destabilizzazione dell’Europa, l’attacco alla Russia e alla sua area di sicurezza. Per raggiungere questo obiettivo deve sconfiggere i “democratici” e le loro propaggini a livello internazionale, ovunque esse siano. Da qui il sostegno ai partiti della destra, decretando la fine di personaggi sciocchi e servili come l’attuale leadership a tutti i livelli dell’Unione europea che pur proclamandosi di sinistra o liberal e in realtà costituita da un’accozzaglia di incompetenti politici venduti agli interessi del capitale, ormai impresentabili.
L’oca giuliva
Per sviluppare il suo programma il nuovo Presidente ha bisogno di una schiera di servitori, tra i quali ha reclutato la Presidente del consiglio dell’Italia che sembra presentare idonee qualità: gode di una solidità nella sua maggioranza di governo, è prona ed obbediente, è ideologicamente convergente con il modello valoriale che ispira il Presidente, cerca di fare la furba prima, avvicinandosi ai padroni della City (si ricordi che dichiara sempre la sua vicinanza ai premier inglesi si chiamino Sunak o Starmer, siano essi conservatori o laburisti). Di conseguenza e furbescamente guerrafondaia in
quando sostiene l’Ucraina, segretando l’elenco della fornitura di armi fornite, unica in Europa. Può comodamente continuare a comportarsi così perché coperta dalla fortuna di disporre di un’opposizione inetta e imbecille, che brilla per la presenza di personaggi come la Piperno, vicepresidente del Parlamento europeo, marcata PD, una delle esponenti di punta del bellicismo miope brussellese che con le sue nefandezze copre tutte le scelte stupide e inaccettabili che la destra può assumere.
In cambio del sostegno accordato a Kiev, senza se e senza ma, il governo Meloni ha ottenuto l’accesso al salotto buono in Europa, ha potuto piazzare Fitto con un ruolo strategico nella Commissione europea, malgrado che sia la leader di una delle coalizioni di destra presente nel Parlamento europeo, Tenendo in piede in due staffe, quella della City londinese ed ora sullo zerbino della porta dei Trump a Mara Lago.
Deve stare attenta perché questa ambiguità, questo barcamenarsi, non durerà a lungo, poiché gli spazi si restringono e gli Stati Uniti sembrano aver imboccato la strada di una rigida difesa dei loro interessi, anche e soprattutto per difendersi dalle insidie dei loro cugini britannici. Il governo degli Stati Uniti, impersonato da Trump, conscio della propria debolezza,ha preso esempio dalla Russia e, come Putin si è circondato degli oligarchi per poi dominarli, Trump si circonda dei big dell’economia e del biotech, i titolare dei più grandi patrimoni del mondo – ovvero degli oligarchi dell’area occidentale – consapevole che per vincere la sua battaglia ha bisogno dei loro capitali e perciò mobilita tutte le forze disponibili.
La sua sarà una battaglia durissima, perché avviene su due fronti contemporaneamente: acquisire il dominio sugli oligarchi dei quali chiedere l’alleanza, o almeno ottenere che essi si accettino la sua guida, al tempo stesso vincere il confronto con i nemici esterni, riportando gli Stati Uniti ad essere un paese produttore. Per farlo ha bisogno di ricostruire la presenza delle manifatture, delle fabbriche, del lavoro nel paese, dopo che questo ha subito una selvaggia e devastante deindustrializzazione. D’altra parte questo è il solo modo per vincere la competizione con la Cina e con le altre parti del mondo.
No alla guerra
Trump non vuole la guerra. non perché sia particolarmente buono rispetto ai suoi predecessori sedicenti democratici, perché sa che non gli conviene in quanto in questa fase gli Stati Uniti si sono indeboliti (non è un caso che dopo quella del Vietnam abbiano perso regolarmente tutte le altre guerre) ed hanno bisogno di riallacciare relazioni con i paesi BRICS, trovandosi oggi paradossalmente nella stessa situazione della Cina prima che essa entrasse nel WTO a parte invertite. Se si guarda la situazione internazionale ben sì comprende il progressivo declino dell’impero americano insidiato dalla Cina, ma anche dalla Russia che ha saputo tessere una rete di relazioni che ne permettano l’espansione pressoché incontrastata della presenza in Africa e questo mentre altre aree del mondo assurgono ad un ruolo importante nell’economia mondiale, come l’India, l’Indonesia, il sud-est asiatico nel suo complesso, l’Arabia Saudita e i suoi satelliti, e non da ultimo il rinascente impero al quale aspira la Turchi, a cavallo fra il Medio Oriente e l’Asia.
In questa nuova situazione è bene che gli Stati Uniti pensino a se stessi, si blindino nei loro confini, cercando di porre le condizioni per lo sviluppo delle relazioni internazionali che li veda in grado di spendere con parsimonia e profitto il loro peso, senza incorrere nell’avversione di chi circa cerca di contrastare il loro imperialismo economico e finanziario e quindi anche politico, volendo fare da servo sciocco ad un centro decisionale posto all’esterno del paese, ad una banda di gnomi della City che vivono perennemente nella convinzione di avere ereditato un ruolo imperiale che intendono
comunque esercitare, al di là degli elementi oggettivi e reali dei rapporti economici e di forza.
In questo nuovo contesto di relazioni gli spazi si restringono e non sarà facile per il governo italiano continuare a gestire il paese senza un progetto di sviluppo, senza un’idea di quale può essere il suo ruolo, senza risanare i suoi tanti deficit, che vanno dal declino demografico, alla deindustrializzazione, l’assenza di programmi di sviluppo, in altre parole all’idea di paese. Ecco perché c’è bisogno di una politica oculata e intelligente sull’emigrazione che alimenti secondo i bisogni del paese la popolazione, piuttosto che utilizzarla per alimentare il mercato nero del lavoro, c’è bisogno di dare
opportunità di lavoro ai giovani, perché non emigrino, c’è bisogno di investire, programmare e aumentare i salari, c’è bisogno di ripristinare relazioni di lavoro corrette ripristinando i diritti negati. Da qui l’importanza per la sinistra di ripulirsi, di rigettare la guerra ponendovi fine, di prepararsi non tanto e non solo alle scadenze elettorali regionali, ma soprattutto a quelle referendarie ,abrogando il Job Act per ripristinare i diritti del lavoro violati.
Bisogna inoltre prepararsi a combattere contro l’autonomia differenziata, avendo chiaro che anche qualora questo Parlamento riesca nella sua incapacità anche tecnica, a mettere a punto una nuova legge su questo tema che rispetti le indicazioni della Consulta occorrerà avere la forza per contrastare comunque la sua attuazione, magari formulando una nuova richiesta referendaria e dimenticandosi che fin da ora bisogna attrezzarsi contro l’introduzione del premierato.
Anche se, per ora, il disegno di legge per la sua introduzione non è stato presentato e quello predisposto si caratterizza per confusioni, contraddizioni e incongruenze dobbiamo avere coscienza che gli atti autoritari di questo governo stanno preparando le condizioni per il suo avvento. Ne sono un segnale la “riforma della giustizia”, le scelte in
materia di ordine pubblico e le politiche securitarie, le scelte relative alla gestione del mercato del lavoro e alla politica salariale.
La Redazione