La sinistra e la questione migratoria

Come ampiamente dimostrano le scadenze elettorali, in tutti i paesi il tema dell’emigrazione è uno di quelli sui quali si giocano la vittoria o la sconfitta elettorale di una forza politica e soprattutto i destini della sinistra. Si può anzi affermare che la capacità della destra di cavalcare le tematiche connesse a questa problematica costituisce la chiave attraverso la quale essa mette a segno le proprie vittorie che utilizza per mettere in atto una trasformazione in senso autoritario e illiberale degli ormai vecchi e usurati regimi liberali, trasformandole in democrature autocratiche. Gli esempi si sprecano e vanno da Orban a Bolsonaro, da Milei alla Meloni, per finire, ma solo da ultimo, a Trump.
I partiti di sinistra non sembrano avere soluzioni credibili al problema o semplicemente delle proposte percorribili e capaci di fornire, anche se in prospettiva, delle soluzioni, né tanto meno si dimostrano in grado di elaborare strategie di inclusione e integrazione efficaci, che riescano ad evitare i conflitti tra migranti e popolazione autoctona. Ancora meno si dimostrano capaci di gestire e formulare proposte credibili per quanto riguarda le ripercussioni della presenza di popolazioni migranti sui problemi di sicurezza e ordine pubblico.
Si rifugiano, quindi, in continue critiche alle politiche adottate dalla destra, accusata delle più terribili nefandezze al riguardo; criticano giustamente le iniziative di esternalizzazione sul tipo dell’Albania o del Ruanda del problema migratorio attraverso la creazione fuori dai territori nazionali di campi di detenzione dei migranti; si rifugiano nel sostegno ad una politica dell’accoglienza di tipo caritatevole, certamente utile nell’alleviare le sofferenze dei migranti, per attenuare il dramma costituito dalla condizione migrante, ma che non incidono assolutamente nel fornire soluzioni
strutturali del problema.
Eppure i sistemi produttivi dell’occidente, e quello italiano in particolare, hanno bisogno di migranti, sia per ragioni produttive che per esigenze demografiche, a fronte della caduta verticale della natalità, problema rispetto al quale non è possibile adottare rimedi a breve termine capaci di sopperire al fabbisogno di forza lavoro e a sostenere i sistemi
pensionistici e di welfare. Tutto questo anche se studi documentati dimostrano che l’emigrazione non incide nel tempo sulla possibilità di fornire soluzioni strutturali al problema demografico, perché con il procedere dell’integrazione, anche il tasso di natalità delle donne migranti si abbassa inesorabilmente, uniformandosi a quello della società ospitante e finendo per costituire un indice del tasso di integrazione. Questo dato di fatto la dice lunga sull’incidenza dell’assenza di servizi nel produrre la caduta della natalità per l’impossibilità delle famiglie di procreare e al tempo stesso disporre delle possibilità economiche e dei servizi necessari a gestire la prole.
Questa incapacità della sinistra di fornire soluzioni al problema migratorio dipende, a nostro avviso, dal non aver voluto capire quale sia il profondo legame tra questo problema e la legislazione sul lavoro e la regolamentazione del mercato del lavoro, fattori che determinando le condizioni di utilizzo della forza lavoro e incidono sul rapporto tra mercato legale del lavoro, salari, esercito industriale di riserva modelli schiavistici o para-schiavistici di utilizzo della forza lavoro, politiche di gestione del costo del lavoro, il tutto posto in relazione alla gestione complessiva dei diversi fattori produttivi, al fine di determinare la compatibilità economica di un sistema produttivo.

Modello di produzione europeo è italiano e gestione del mercato del lavoro

Le economie dei paesi dell’area economica dell’Unione, poste di fronte al problema della concorrenza tra i mercati, si sono trovati di fronte alla necessità di rivedere i costi dei diversi fattori produttivi, al fine di creare le condizioni di competitività di sistema, in modo da garantirsi quote sempre maggiori di mercato e quindi di profitti. In particolare la Germania aveva costruito il proprio sistema produttivo sul basso costo dell’energia, riuscendo a realizzare competitività e profitti e al tempo stesso a garantire attraverso salari adeguati, ad una larga parte della propria classe operaia e impiegatizia un’accettabile tasso di benessere, anche se il mercato del lavoro tedesco si è alimentato in parallelo di forme di lavoro precario e occasionale e di una larga presenza di lavoro migrante, stagionale e spesso irregolare e clandestino, che grazie alla particolare struttura del mercato del lavoro tedesco e fino a quando l’economia ha continuato a crescere, ha gradualmente – seppur lentamente – assorbito parte di questo mercato irregolare del lavoro, sostenendo il sistema produttivo e il processo di accumulazione e la crescita dei profitti.
Venuta meno la disponibilità di energia a basso costo, a causa della crisi ucraina e della rescissione del cordone ombelicale che legava la Germania alla Russia – e questo anche come conseguenza di un preciso disegno dei competitors che fanno capo all’area capitalistica anglosassone – il sistema economico tedesco è entrato in crisi, trascinando con sé le economie collegate, e tra queste quella italiana.
Tuttavia l’economia italiana disponeva e dispone di una relativa elasticità dovuta a due fattori: da un lato vi è una parte dell’economia italiana, soprattutto relativa al settore agroalimentare, ma anche di quella dell’abbigliamento, della cantieristica e di altri settori, che non è strettamente dipendente, come quella della meccanica e dell’automotive, dall’economia tedesca e poi perché l’Italia dispone di un mercato del lavoro che può beneficiare di una legislazione del lavoro completamente destrutturata, chiamata a gestire non solo un mercato del lavoro paralegale, costituito dal lavoro, ottobre 2024 dichiarato, ma anche da mercati del lavoro paralleli, come quelli del lavoro a contratto, a progetto, a somministrazione.[1]
occasionali, e soprattutto, disponendo di un vasto, immenso, mercato di lavoro illegale e clandestino, a sua volta suddiviso in specifici settori, che vanno da quello semplicemente a nero, a quello finalizzato al lavoro nell’economia a nero e illegale, al mercato del lavoro di tipo para-schiavistico, particolarmente connesso alla produzione alimentare ed agricola, al mercato del lavoro irregolare e occasionale dei servizi, ed ancora altri segmenti economicamente significativi.
Un’attenta e compiuta analisi della composizione del mercato del lavoro manca totalmente alla sinistra, la quale è ferma ad opporsi giustamente al Jobs Act e ai suoi effetti di deregulation del mercato del lavoro e della legislazione di tutela di esso, ma dovrebbe occuparsi di indagare la composizione ben più complessa dei diversi segmenti che compongono oggi il mercato del lavoro nel paese, e ai quali abbiamo fatto riferimento, e che determinano le condizioni della domanda e d’offerta di lavoro. Bisogna ammettere che il capitale in questi anni ha lavorato bene ed efficacemente, si
è dotato di tecnicalità, ha saputo gestire e giuridicizzare le forme di sfruttamento, concludendo a suo vantaggio la guerra tra capitale e lavoro da esso ampiamente vinta, contro il risultato di riuscire a sconfiggere la resistenza operaia, seminando al tempo stesso sfiducia nelle proprie organizzazioni.
Se si operasse per recuperare questo ritardo non solo le organizzazioni sindacali potrebbero svolgere con efficacia la loro funzione perduta e smarrita nel concentrarsi solamente, purtroppo e per necessità, sulle azioni difensive pur lodevoli e necessarie del lavoro esistente, strutturato e garantito, ma completamente assenti o quasi, dall’intervenire nella gran parte dei casi a difendere con una lotta finalizzata alla regolamentazione del mercato del lavoro realmente efficace, gli altri segmenti più o meno illegali delle attività di lavoro così diffuse e utilizzate dal padronato.
Il risultato costituito dall’assenza di una risposta efficace, è plasticamente dimostrato dallo sbandamento che pervade i lavoratori di tutti i settori in tutto il paese, siano essi quelli garantiti, come quelli precari, quelli precarissimi e quelli che subiscono rapporti di tipo schiavistico, i quali vivono sulla loro pelle l’incidenza competitiva della forza lavoro
costituita dai migranti illegali che sono costretti dalle loro condizioni di vita ad offrire il loro lavoro ai prezzi e alle condizioni più infime, più umilianti e degradanti pur di sopravvivere, ma che finiscono per fare loro una concorrenza spietata. che contribuisce in modo determinante a deprimere il costo del lavoro e la crescita dei salari, al punto che le retribuzioni del paese non solo non sono cresciute, ma anzi sono diminuite in valore, se poste in rapporto al tasso di inflazione.
Questa particolare condizione del mercato del lavoro crea, nel suo insieme, le condizioni affinché i lavoratori vedano nei migranti, soprattutto quelli illegali perché più ricattabili, dei nemici della loro condizione materiale e ne traggano una indicazione di profonda avversione che si va a sommare alle componenti di carattere culturale, etnico,
religioso, tradizionale, che li differenziano dai nuovi venuti, differenze artatamente alimentate da coloro che detengono la gestione del mercato del lavoro e considerano conveniente e funzionale ai loro profitti questa particolare struttura del mercato del lavoro e fanno di tutto per conservarla e alimentarla, attraverso una legislazione sulle migrazioni che continuamente fa crescere il mercato del lavoro clandestino.
La macchina di alimentazione di questo mercato è stata così perfezionata ed odiata, al punto che la legislazione riesce a far sì che si possa ridurre al minimo il bisogno di nuova emigrazione illegale, attraverso un meccanismo di trasformazione legale in illegale del lavoratore migrante. il quale appena viene espulso a causa di una ristrutturazione produttiva o di un qualsiasi altro motivo dal mercato del lavoro legale, perde la propria condizione e regredisce verso il mercato del lavoro clandestino.

L’esternalizzazione albanese specchietto per le allodole

Se inserita nel contesto, per come lo abbiamo ricostruito, l’esternalizzazione di un certo numero di migranti nel lager albanese di Gjader. costituisce soltanto uno degli espedienti utilizzati dai gestori del sistema di sfruttamento dei migranti per distogliere artatamente e dolorosamente il dibattito e l’attenzione verso un falso problema e ancor più verso false soluzioni, in modo da continuare ad avere mano libera nella gestione del mercato del lavoro, che nel suo complesso è funzionale a permettere al governo in carica di vantarsi di avere conseguito una crescita significativa degli occupati, ottenuta drogando e sottacendo forme e modalità di gestione criminali e inaccettabili del mercato del lavoro, spacciando per rapporti di lavoro prestazioni orarie e occasionali peraltro retribuite con pochi spiccioli.
Detto tutto questi questo va bene che l’opposizione si impegni a contrastare in ogni modo il trasferimento dei migranti in Albania, che contesti dal punto di vista giuridico ed economico le scelte di esternalizzazione dei migranti messe in atto dal governo, ne denunci l’inefficacia, la disumanità e quant’altro, ma non si creda in tal modo di essersi
liberati del problema e di aver salvato la propria coscienza, e questo anche perché rimane facile per la destra accusare i critici della sua politica verso l’emigrazione di non avere proposte e di non prospettare soluzioni.
Questo è uno dei motivi, ma solo uno, per i quali è necessario che la sinistra intervenga in modo prioritario sulla regolamentazione del mercato del lavoro, perché solo attraverso essa può far crescere nella società e nel paese una soluzione reale del problema che vada verso una sana integrazione, sia nella società che nel mercato produttivo e del lavoro dei nuovi migranti che vanno visti e trattati come i cittadini a pieno titolo, posti a competere in modo sano e trasparente e con regole precise, uguali per tutte, sul mercato del lavoro.

[1] Destrutturazione del lavoro e classi sociali, Newsletter Crescita Politica, n. 190

Gianni Cimbalo