OVVERO
ABORTIRE IL FIGLIO DEL BAGNINO
E POI GUARDARLO CON DOLCEZZA
1. UN FILM LUNGO 40 ANNI
Non ho visto l’ultimo film di Segre “la grande ambizione” dedicato alla figura di Enrico Belinguer (fino al 1978) e, non essendo uso parlare di ciò che non conosco nell’articolo si tratterà di questo film in maniera del tutto generica.
Come innesco per una riflessione più ampia.
Avendo però il lavoro di Segre riacceso una discussione abbastanza vivace (per quanto possa esserlo una discussione del genere) credo sia utile parlare, come dicevo, non tanto del film (rispetto al quale ognuno ha il diritto di avere la propria opinione) ma del contesto nel quale collocare le periodiche Berlinguer-Renaissance.
Allora, sgombriamo subito il campo dagli equivoci, sia noi, che abbiamo criticato anche in maniera pesante (ma sempre dal punto di vista politico) le scelte del Pci berlingueriano, sia chi, abbia invece ritenuto tali scelte condivisibili, apparteniamo ormai al passato.
Sarebbe veramente ridicolo e fuori luogo riprendere oggi le diatribe di 50 anni fa. Diatribe, tra l’altro, che una buona parte dei cittadini italiani non solo non ha vissuto, ma delle quali non avrebbe neppure la più pallida idea di cosa siano state.
Quindi, mi pare evidente, sia opportuno agire e scrivere con maggiore aplomb rispetto a quando le vicende di quegli anni ci investivano direttamente e facevano parte del nostro vissuto e della nostra lontana giovinezza.
Tuttavia, questo non impedirà certo asprezze e critiche serrate, anzi, la distanza dovrebbe permettere di andare a toccare anche i luoghi e gli dei della storia sacra.
Allora partiamo dal contesto.
Da quando il PCI, con decisione presa da una classe dirigente (all’epoca) giovane, rampante e spregiudicata, decise che la sua ora “storica” fosse terminata, ad ogni passo in cui questa discesa agli inferi del neoliberismo precipitava senza paracadute (e senza neppure toccare la socialdemocrazia-ovvero PDS-DS-PD) Il culto mistico di Berlinguer proliferava in maniera sempre più metafisica.
Sembrerebbe un paradosso e forse lo è, ma se lo guardiamo dalla prospettiva storica del PCI non è neppure tanto sorprendente.
2. IL “BRAND” BERLINGUER
Ad esempio, e qui apro un non brevissimo inciso, c’è stata grande discussione nei mesi passati, sui social, sia su quelli da vecchi che su quelli più trendy, in merito alla nuova tessera che il PD ha voluto dedicare ad Enrico Berlinguer. Agli strali di “tradimento” si sono aggiunte interessanti analisi politiche e battute, alcune divertenti altre molto serie e corrucciate.
Francamente a me sembra che molta parte della discussione non abbia tenuto conto di un dato. Quello raffigurato nell’effige *non c’entra nulla con Berlinguer, quello vero, vissuto e morto nel 1984.
Quel Berlinguer lì era un uomo del’900, comunista, sicuramente molto seguito dal proprio popolo di riferimento, ma soprattutto era un politico di professione, scaltro, preparato, e non una specie di “San Francesco” laico. Un uomo collocato nel suo tempo, dentro le contraddizioni di quel periodo storico, dentro gli scontri anche duri sia nel partito che nella società.
Quello della tessera è invece un brand. Una foto che richiama una frase (e una fase) completamente estrapolata dal contesto (ma tanto il contesto ormai è una battaglia definitivamente perduta).
Un personaggio del quale non è necessario sapere nulla se non le leggende metropolitane a sfondo misticheggiante della sua “morte” quasi in odore di santità e prive di ogni connotazione politica.
Un brand utilizzato forse per riattivare vecchie glorie (ma ormai sono poche e in via d’estinzione naturale) attraverso quel meccanismo di difficile interpretazione psicologica, per il quale è più utile citare De Andrè “abortire il figlio del bagnino e poi guardarlo con dolcezza”.
Un richiamo identitario come le foto di Che Guevara nelle camere degli adolescenti.
Quale Berlinguer dunque è quello che in quello strano percorso viene costantemente celebrato?
3 IN “ODORE DI SANTITÀ”
È significativo che della lunga, articolata vita politica di Berlinguer si ricordino ormai solo 2 o 3 frasi staccate dal contesto di una intervista e poi la morte, quasi come destino inscritto in un percorso di penitenza.
Malgrado l’amplissima bibliografia, gli articolatissimi pensieri e azioni di uno degli ultimi dirigenti politici in senso stretto, rimane qui solo una specie di martirologio banalizzante e offensivo, che sottrae un personaggio storico alla sua dimensione complessa, e quindi lo colloca nell’iperuranio della quasi santità.
Quando si parla di revisionismo storico, più che pensare a Nolte o De Felice, bisognerebbe anche ricordare questi fenomeni mediatici di massa che ritagliano personaggi mai esistiti (come è successo, ad esempio, con Gaber) e che consegnano alla memoria delle “prossime generazioni” (a cui sembriamo “tenere” tanto) vere e proprie falsificazioni storiche.
Come quelle che fanno innalzare una statua a Moro con l’Unità sottobraccio. Una melassa tanto indigeribile quanto consolatoria di un mondo irreale
4. UN UOMO DEL NOVECENTO
Questo Berlinguer post-moderno è innanzitutto una offesa allo stesso personaggio politico, che tutto era fuorché una specie di sprovveduto ingenuo circondato dai cattivi. Non ha mai funzionato così, figuriamoci se poteva funzionare nel mondo terribile, ma letteralmente immerso nella politica, del secolo scorso.
“Si iscrisse fin da giovane al gruppo dirigente del PCI” pare abbia detto Pajetta e la frase è rivelatrice sia di un’epoca nella quale la battaglia politica non faceva né sconti né santi e, soprattutto, di come veniva visto Berlinguer nella realtà.
Il Pci di Berlinguer era un partito che non riuscì a cogliere i cambiamenti strutturali che la società italiana stava vivendo.
Soprattutto, e per un partito comunista non è esattamente una cosa da poco, non vide le trasformazioni economiche della seconda metà degli anni ‘70 del secolo scorso.
Troppo impegnato a cercare un posizionamento governativo, non colse le enormi conseguenze sulla società di un sistema che stava cambiando rotta e dove la finanza e il liberismo stavano riconquistando posizioni che parevano definitivamente superate appena qualche decennio prima.
È bene ricordare, ad esempio, che la nascita di un quotidiano come Repubblica, non a caso nel 1976, i cui fondatori intuirono per primi (ed, anzi, furono i propalatori principali della nuova ideologia) che bisognava intervenire sull’egemonia – al fine di superare la lotta di classe – proponendo soluzioni interclassiste e dichiarando superata la lotta di classe, è stata un tassello fondamentale per questa “reconquista” padronale.
Nel mentre il PCI sognava impossibili compromessi storici, non solo come lettura profondamente politicista del golpe cileno, ma come posizionamento che precedeva, e di molto l’uccisione di Allende. Una idea di democrazia di vertice nella quale i due partiti di massa organizzavano la società.
La conseguenza, abbastanza intuibile e forse voluta, fu l’emarginazione e poi la criminalizzazione di intere aree sociali, che, se non rappresentano la maggioranza, certamente erano una minoranza significativa che si preferì perdere.
Una minoranza attiva come tutte quelle che, da quando esiste una cosa chiamata “sinistra”, riescono poi a trasferire le lotte e le rivendicazioni nella società.
Poi, come era abbastanza evidente, la DC di Moro, non un altro beato evangelico, ma un politico scaltro e, cosa ancora più importante, soprattutto anticomunista, mise il PCI all’angolo.
Non solo non si fece entrare il PCI al governo (non c’era un ministro che fosse uno non solo comunista ma neppure minimamente di area nella lista stilata da Moro, facendo arrabbiare perfino Zaccagnini) ma, con Moro in mano alle BR (che di politica probabilmente c’acchiappavano ancora meno), Il partito comunista, spinto dai giornali della borghesia e, soprattutto, dalla Repubblica di Scalfari, divenne l’alfiere della fermezza, per dimostrare di essere attendibile, di essere pronto al governo.
Ovviamente, a Moro nella bara, quel PCI lì non serviva più. La DC era salva e stava arrivano a gran carriera il PSI craxiano con il quale governò per anni, lasciando Berlinguer solo di fronte alle fabbriche.
Ecco, io non so se il film di Segre riuscirà ad affrontare almeno questi bivi storici. Ma sarebbe l’ora di parlare di tali eventi come si parla di storia. Appartengono al passato, ma non per questo, e anzi soprattutto NON per questo, possiamo continuare a raccontare storie senza alcun rapporto con la realtà. Si dice che i giovani non conoscano la storia. Ma se continuiamo a raccontarla in questo modo forse è davvero meglio che non la studino neppure.
Ovvio che, oggi, di fronte alla pluridecennale distruzione di ogni proposta socialista e di superamento del capitale, una figura come Berlinguer si stagli come (cosa che sicuramente fu) l’ultimo grande leader comunista. E da queste latitudini anche il compromesso storico non pare più quell’obbrobrio che ci pareva all’epoca. Anche perché quello era comunque un incontro, si di vertice, ma di due partiti diversi e non certo l’idea completamente post-politica della riunione in un unico soggetto politico di realtà con visioni e storie completamente diverse.
E poi perché in quegli anni, ancora, i partiti erano davvero organizzazioni di massa e quindi il contesto dove operavano i leader e le strutture politiche, pur se criticabili (come è normale che sia per ogni realtà politica) era completamente diverso dal panorama attuale che potremmo senz’altro definire cleptocratico e antidemocratico.
Non è il caso qui di ricostruire percorsi storici che richiederebbero studi di una complessità enorme. Non sappiamo se la scomparsa della sinistra in Italia sia dovuta al declivio governista che il PCI intraprese a metà degli anni ‘70 o alla generazione dei 40enni che demolirono tutto, presi da una furia iconoclasta che potremmo definire “giacobinismo” reazionario, oppure, se sia in realtà il portato di tutto questo più molte altre cose, non tutte verificabili, misurabili e razionali.
Certo, il Berlinguer che il PD continua ad esaltare non aveva alcun tratto che possa anche solo avvicinarlo a una realtà che ormai da decenni ha saltato ogni ostacolo, e, nella scia di una tradizione liberale fuori tempo massimo, continua a porsi a difesa soprattutto dei diritti civili senza quelli sociali, pienamente inserita in un contesto atlantista (rispetto al quale molti democristiani del passato apparirebbero oggi come dei radicali) e in appoggio alle guerre dirette o per procura della NATO. Per tacere del silenzio assordante sul genocidio a Gaza.
Non credo che il Berlinguer in carne ed ossa si troverebbe molto bene in quella compagine. Anche però, per quanto possa essere stato un nostro avversario politico (e ripeto politico) in quegli anni, rimaneva un comunista (con tutti i difetti e i pregi di questa definizione).
Sarebbe bene che chi ha scelto un’altra strada mettesse la parola fine a quel quarantennale funerale che celebra da 40 anni.
Anche perché a ben vedere, quella bara è ormai vuota.
Andrea Bellucci
Bibliografia minima
Su Berlinguer la bibliografia è amplissima, ma si potrebbe partire dall’agile lavoro
– Giuseppe Fiori, “Vita di Enrico Berlinguer”, Laterza, 1989.
Sul compromesso storico
– Enrico Berlinguer, “Per un nuovo grande compromesso storico”, Castelvecchi, 2014.
Sul rapimento Moro il lavoro più interessante, ma bloccato a causa del sequestro di materiale operato dalla magistratura presso gli autori è:
– Marco Clementi (a cura di) “Brigate rosse. Dalle fabbriche alla «campagna di primavera»”, Deriveapprodi, 2017