La Convention Democratica di Chicago ha incoronato Kamala Harris, candidata del partito alla Presidenza degli Stati Uniti che, anche sulla scorta dell’emozione suscitata dall’evento, sembra viaggiare con il vento in poppa verso la vittoria, ma la vera campagna elettorale e lo scontro/confronto con Tramp comincia ora e gli esiti sono tutt’altro che definiti e certi. La Convention è stata un evento politico mediatico, tipicamente statunitense, che ha visto un partito ormai morto, schiacciato da una candidatura che aveva come frontmen un candidato palesemente inadeguato, afflitto da degrado senile, come Biden, palesemente soccombente di fronte a un avversario che, benché ottuagenario anche egli, appare ancora vigoroso e deciso a difendere i suoi personali interessi e quelli di un blocco sociale ben definito che si identifica con il paese profondo e periferico, provinciale, bianco e comunque razzista, rancoroso e violento, affetto da nostalgia per l’egemonia internazionale perduta del paese e desideroso di isolarsi per difendersi rabbiosamente, rivendicando la superiorità del modello di vita americano.
La notizia che caratterizza nel suo insieme l’evento è costituita dal fatto che alla narrazione fatta di rancore, odio e paura gli strateghi della comunicazione del partito democratico contrappongono gioia, speranza, ottimismo e visione del futuro. Trump parla alla pancia del paese e fornisce risposte aggressive al disagio sociale di spezzoni di classe colpite dall’inflazione e spaventate dal futuro, a quella parte del paese che ha visto crescere la depressione e che guarda al futuro con sfiducia e senza speranza. La Harris sembra invece puntare all’altra America, quella che guarda al futuro con fiducia e speranza, che vede nell’emigrazione una risorsa per progredire, che cerca di muoversi in una prospettiva del fare, alla ricerca della realizzazione sociale e nella convinzione che ciò che verrà sarà meglio dell’esistente e soprattutto del passato. Da una parte c’è la popolazione delle aree più dinamiche del paese, dall’altra la provincia profonda in difficoltà
crescente che vede moltiplicarsi i casi di violenza e di reazione incontrollata e rabbiosa della quale l’attentatore del tycun è stato probabilmente uno dei prodotti. Nei prossimi 70 giorni che mancano alle elezioni saranno queste le due visioni del mondo che si contrapporranno tra loro e saranno offerte agli elettori.
Relativamente ai contenuti dei programmi dei due candidati e alle proposte politiche, mentre sono note quelle trumpiane, quelle della Harris sono ancora vaghe e indefinite. Benché dopo il ritiro travagliato della candidatura Biden la Harris abbia fatto di tutto per recuperare, per imporre la sua immagine e la sua candidatura ella è stata silenziosa sui
contenuti del suo programma, soprattutto in politica estera, perché il candidato alla Presidenza degli Stati Uniti è il frutto di una lunga e complessa concertazione tra gruppi di interesse che ne sostengono economicamente la candidatura e sono loro che elaborano il programma che costituirà ciò che il candidato scelto, ovvero il frontman, prospetterà all’elettorato: un programma che è frutto della convergenza dei loro interessi e del bilanciamento delle posizioni di ognuno che sta dietro le spalle del candidato e che di fatto ne determina e ne dirige la politica.
Ben si comprende quanto affermiamo se si pensa a come è stato possibile che Biden abbia potuto continuare a governare benché fosse palesemente inadeguato e in crisi senile profonda, mantenendo la responsabilità formale della Presidenza: a governare veramente il paese è stato, come nella gran parte degli Stati oggi , un gruppo di interessi e di burocrati e portatori di interesse che, sostenendo a suo tempo l’elezione presidenziale, si è assicurata il controllo dei gangli decisionali del sistema. La partecipazione dei cittadini, il sistema democratico, le istituzioni caratterizzate dal bilanciamento dei poteri e da un’apparente partecipazione popolare, sono fuffa, specchietto per le allodole, per nascondere che il potere politico appartiene alle classi dirigenti, espressione di gruppi finanziari ed economici e centri di potere: in altre parole un intreccio complesso di interessi bilanciati, che si attribuiscono il controllo delle istituzioni e gestiscono i destini del mondo paese per paese, utilizzando forme istituzionali e strumenti diversi solo sotto il profilo formale.
Alla luce di queste considerazioni ben si comprende perché fino ad ora la Harris abbia sostanzialmente taciuto sul suo programma economico e soprattutto per quanto riguarda la politica estera: era in attesa che, dietro le quinte, il suo comitato elettorale e le lobby di sostegno alla sua erezione mettessero a punto l’accordo programmatico che non costituisce soltanto il manifesto elettorale della candidata, ma seleziona i contenuti del patto di potere che il gruppo di sostegno alla Presidenza della Repubblica stipula nel momento in cui designa il frontman ritenuto funzionale a conseguire la vittoria. È per questo motivo che la Convention è stata prodiga di ricostruzioni della personalità e dell’identità della candidata che ha presentato sé stessa, la propria storia personale, la propria famiglia, il contesto sociale dal quale proviene e nel quale ha operato, evidenziando classi e ceti di riferimento della sua azione per essere designata e ha quindi messo l’accento più agevolmente sulla difesa dei diritti civili, primo tra tutti quello all’aborto e sulla difesa del reddito della classe media oggi in crisi, che va rifondata La debolezza della sua proposta viene dal fatto di essere restata sul vago sugli strumenti concreti per conseguire quest’ultimo risultato. È noto infatti che il problema maggiore per una politica di tutela
economica del reddito della classe media è costituito negli USA, come ovunque, dall’alto debito pubblico e dalle caratteristiche delle imposizioni fiscali che continuano a privilegiare le classi più agiate e i super ricchi. Ciò pone il problema della tassazione delle grandi Corporation, problema sul quale per ora la candidata democratica non si pronuncia nel timore di perdere il sostegno il loro sostegno, ma quel che è certo è che il rilancio dei redditi medio bassi comporta un intervento che aumenti la spesa sanitaria, l’espansione della gratuità delle prestazioni e una profonda riforma del sistema dell’istruzione, problemi per i quali vanno reperite risorse immense: indicazioni che mancano totalmente.
I candidati alla Presidenza e la politica estera
Il solo punto, e non è irrilevante, sul quale la Harris ha assunto una posizione parzialmente innovativa, è stato quello di aver ribadito, dopo il tradizionale sostegno a Israele, l’inaccettabilità di ciò che sta avvenendo per quanto riguarda il popolo palestinese, anche questa presa di posizione è stata dettata da un palese bisogno di guadagnarsi il sostegno dell’elettorato filo – palestinese degli Stati Uniti. Ciò rappresenta effettivamente una novità rispetto alle tradizionali posizioni politiche statunitensi, che deve tuttavia concretizzarsi in azioni politiche che sono fino ad ora mancate ed anzi sono state contraddette dalle concrete iniziative adottate dagli USA a sostegno di Israele.
Per il resto, mentre la politica estera trumpiana sembra essere chiara e definita, caratterizzata dall’isolazionismo, da un contrattualismo accentuato con la Russia, al quale fa da contrappunto una politica di competizione e aggressività nei confronti della Cina, le posizioni della Harris in politica estera sembrano delinearsi, in sostanziale continuità con le linee di azione dell’amministrazione Biden e quindi con una politica ostile all’Europa e ai suoi interessi.
Il riconfermato sostegno della Harris alla NATO e alla guerra in Ucraina non costituiscono certamente un segnale incoraggiante che va nella direzione di tutelare gli interessi dell’Europa che risiedono invece nella più immediata cessazione del conflitto in Ucraina, non solo a causa dei suoi evidenti danni in materia di sicurezza, non solo per le sue
molte vittime, ma perché la guerra, drenando risorse agli Stati che costituiscono l’Unione europea, ne deprime le politiche sociali e quelle relative alla soddisfazione dei bisogni delle fasce più deboli e disagiate della sua popolazione. In altre parole la guerra non solo uccide, ma nel mentre consente ad alcuni di arricchirsi porta alla rovina i più poveri e i popoli.
L’interesse dell’Europa risiede nella pace e nel ripristinare un rapporto di mercato, soprattutto relativamente ai costi dell’energia, che le consenta di sostenere la propria economia, senza scaricare su uno dei fattori produttivi, l’energia appunto, il costo delle merci prodotte, sopportando condizioni di mercato imposte da scelte geopolitiche e di potere, proprio al fine di deprimere l’economia dell’area dei paesi appartenenti all’Unione.
È per questo motivo che, da parte nostra, non vi è alcuna empatia con il dibattito politico che avviene negli Stati Uniti, non abbiamo nessuna ammirazione per la cosiddetta democraticità del sistema politico statunitense, nessun amore per le sue dinastie politiche, esibite – in particolare – in occasione della Convention del partito democratico, nessuna enfasi per i futuri destini degli Stati Uniti, non apparteniamo a nessuna tifoseria che si batte per uno dei due schieramenti, anche se siamo consapevoli che gli USA rappresentano il centro dell’impero del quale il paese in cui viviamo fa parte e che quindi ciò che avviene in quel paese si ripercuote inevitabilmente nelle società nelle quali viviamo, condizionando le
politiche economiche e quelle sui diritti civili, inducendo partiti, politici e gruppi di potere a uniformarsi agli orientamenti che vengono dalla capitale dell’impero.
Consapevoli di ciò, riteniamo che sia giunto il tempo di emanciparsi da questa dipendenza economica e culturale e comprendere finalmente che si tratta di vivere ed operare in un mondo costituito da grandi placche economico – politiche, in competizione tra loro; l’Europa è una di queste e il nostro interesse – nel mentre sosteniamo le ragioni di una
vita dignitosa e la difesa più elementare dei nostri diritti – è quello di promuovere ed auspicare una convivenza possibile, pacifica e collaborativa, fra le diverse espressioni politiche istituzionali che governano le diverse aree del pianeta, consapevoli che ci troviamo di fronte a sistemi di potere controllati da classi dirigenti contrapposte da interessi diversi, in competizione tra loro, delle quali i popoli rischiano di restare vittime.
Ciò detto la campagna elettorale negli Stati Uniti comincia ora: per comprendere l’evolversi dei rapporti di forza tra i due candidati è sbagliato guardare ai sondaggi, facendosi condizionare dalle percentuali di voto attribuite a livello nazionale. Ad eleggere il Presidente provvedono i grandi elettori, votati ed eletti Stato per Stato, il cui numero deve essere
pari al numero complessivo di membri del Congresso degli Stati Uniti che quello stesso Stato elegge e che sono complessivamente 538. Questo sistema fa sì che in una situazione politica nella quale il voto dell’elettorato è stabile ad assumere importanza nella determinazione del risultato siano quegli Stati nei quali l’attribuzione dei grandi elettori ai due schieramenti è incerta. La novità del voto di novembre è che l’instabilità politica è cresciuta e con essa il numero degli Stati in bilico, salito secondo alcuni sondaggisti, a 10. Tra questi vanno annoverati il Michigan, il Wisconsin, la Pennsylvania, l’Arizona, il North Carolina, la Georgia e perfino il Texas. Ne consegue che per tastare il polso
all’elettorato bisogna monitorare l’orientamento degli elettori di questi Stati e molte cose possono accadere nei due mesi che separano dal voto.
Al di là delle apparenze e delle grida mediatiche perciò i giochi sono ancora aperti e la forza e capacità politica di Trump non va sottovalutata. Per lui si tratta dell’ultima battaglia, perduta la quale, c’è il fallimento ed è a rischio la sua stessa libertà personale, quindi si può essere certi che condurrà una guerra senza esclusione di colpi e cercherà fino
all’ultimo di imporsi con ogni mezzo. Il suo insistere sulle paure più profonde dell’elettorato ci dice che siamo di fronte a un animale politico che ben conosce il ventre molle del paese, la sua periferia il mondo rurale, le concentrazioni di aree depresse, presenti nel paese a macchie di leopardo. Con questi elettori ed elettrici Trump gioca la carta dell’esperienza e del vecchio saggio, cercando di volgere a suo favore ciò che rimproverava a Biden: essere un ottuagenario. Inoltre Trump bypassa le questioni di genere e la tutela dei diritti e rivolge la sua attenzione più concretamente alla crescita percepita dell’inflazione che mette in discussione il tenore di vita degli elettori.
La Redazione