L’enigma iraniano

Dopo un primo turno elettorale che ha visto l’affluenza più bassa nella storia della Repubblica islamica, la presenza al ballottaggio di un candidato riformista Masoud Pezeshkian, cardiochirurgo e legislatore di lungo corso, ha riportato al voto una parte dell’elettorato moderato, soprattutto nelle aree periferiche del paese e questo è bastato per vincere su due candidati ultraconservatori, divisi e litigiosi. Al ballottaggio presidenziale hanno partecipato circa 30.530.157 (49,8%) dei 61.452.321 elettori aventi diritto, Sul risultato finale avrà pesato il fatto che il nuovo Presidente ha padre azero e madre curda, avrà pesato il suo impegno ad avvicinarsi all’Occidente e di ammorbidire l’applicazione della legge sul velo obbligatorio, dopo anni di sanzioni e proteste che hanno diviso il paese e fatto crescere l’inflazione al 33%.
Ciò detto l’eletto è stato selezionato sulla base delle rigide regole della Repubblica islamica e quindi rispetterà le indicazioni del leader supremo, l’ayatollah Ali Khamenei, e di un establishment largamente dominato dagli estremisti, impegnati nel sostegno alla guerra tra Israele e Hamas nella Striscia di Gaza. Le promesse di aperture all’Occidente, per attenuare in peso delle sanzioni, trovano un limite nei timori occidentali che Teheran stia arricchendo l’uranio per la produzione di armi nucleari, e dovranno fare i conti, come tutto, con gli esiti delle prossime elezioni americane. È del tutto evidente che l’elezione di Trump comporterebbe comunque una chiusura nei confronti del paese, chiunque sia ha guidato.
Intanto il nuovo leader si è rivolto al paese chiedendo di non essere lasciato solo, consapevole che le istituzioni godono dei bassi consensi e che occorre fare di tutto per riguadagnare popolarità. L’incertezza su ciò che avverrà negli Stati Uniti rende problematico il prosieguo dei colloqui indiretti intrattenuti con l’amministrazione del presidente Biden sulla possibilità di limitare il programma nucleare di Teheran in cambio della revoca delle sanzioni.

Prigioniero del velayat-efaqih

A prescindere dalle possibili buone intenzioni del nuovo premier il suo potere è condizionato da quello giudiziario e legislativo, dominato da conservatori e ultraconservatori, fra di loro dilaniati da lotte feroci, plasticamente espresse dal
contrasto fra i due candidati conservatori Jalili e Qalibaf, che si sono fatti una guerra senza esclusione di colpi, il che ha determinato la loro sconfitta. Mentre lo scontro continua i tribunali del Paese riprendono a emettere sentenze di morte e di carcere per gli oppositori, mentre al governo dello Stato provvede l’autorità spirituale del giureconsulto il Velāyat-e faqih (in persiano: هS یقف ت S یلو , “tutela del giurisperito”) o più precisamente “autorità cognitiva (assoluta) del giurisperito”, la Guida suprema della rivoluzione. Ali Khamenei.
Quale giurista musulmano, in quanto religioso esperto della legge (shari’a), che è emanata direttamente da Dio, egli si ritiene l’interprete autentico di essa, nella sua veste di mujtahid. Perciò ha il compito di sovrintendere a ogni azione del Parlamento che deve conformarsi a quella che il giurista (faqih) ritiene essere la corretta interpretazione della shari’a.
Si tratta di un concetto antico della tradizione sciita duodecimana che riconosce il ruolo di guida (o anche di “custodia”, di “guardiani”) del faqih, il giurista islamico, sulla comunità dei credenti. Da questa intuizione nasce e prende forma un complesso sistema istituzionale che è proprio dello sci’ismo iraniano che per gestire il potere utilizza la dissimulazione e
il dualismo dei processi decisionali.
Se questa è la struttura articolata e complessa, occorre spiegare come si sviluppano i processi decisionali. Ebbene essi sono frutto di continue e costanti mediazioni tra le diverse componenti e fazioni del clero, della politica dei pasdaran e di altri gruppi di pressione. Si tratta di dinamiche che in Occidente descriveremmo di tipo consociativo, che cercano di bilanciare i rapporti tra i diversi gruppi di potere in modo tale da dissimulare il diverso peso delle componenti e delle fazioni, per presentare un’immagine unitaria degli organi di gestione della società.
In effetti continue riunioni e incontri si susseguono in una logica che diremmo tipica del clero, al punto che è difficile percepire e ricostruire i processi decisionali. Il risultato finale di questa tecnica istituzionale è che sono pochi, circa 45-50 gli individui, in gran parte ecclesiastici, coloro che fanno parte del circolo ristretto che effettivamente detiene
il potere esecutivo, senza troppi formalismi e rigidità istituzionali, anche se ufficialmente non ricoprono importanti cariche istituzionali.
Alla luce di queste considerazioni si comprende come il potere di fatto del presidente sia molto labile: in questo l’Iran è un Paese moderno e “occidentale” perché anche in Occidente a gestire effettivamente il potere sono circoli economici e lobbistici che operano indipendentemente dall’occupazione di cariche istituzionali (si veda come emblematico ciò che sta accadendo negli Stati Uniti). La natura consociativa della struttura di governo fa sì che all’interno dei diversi organi sia rappresentato quasi tutto lo spettro politico iraniano, dal moderato riformismo al più esasperato radicalismo conservatore. Queste forze hanno storicamente condiviso un valore comune che ne ha favorito la durata nel tempo ai vertici dello Stato: quella di proteggere la Repubblica Islamica e i suoi principi rivoluzionari
attraverso la parziale, costante chiusura rispetto all’esterno. Da qui la necessità di continui “incontri ristretti e separati” finalizzati a raggiungere un punto di accordo e di equilibrio. Ciò dovrebbe indurre gli osservatori esterni a evitare di leggere nei risultati elettorali, la vittoria più o meno determinante di conservatori o progressisti, di componenti laiche o
clericali.
Se questo è il quadro d’insieme, la Guida suprema della rivoluzione svolge una duplice funzione: in quanto esponente del circolo ristretto e anche mediatore super partes tra le fazioni, mettendo in atto una gestione collegiale del potere che di fatto confligge con la teoria totalitaria del velayat-efaqih. Inoltre, il circolo ristretto di potere che il Presidente non condiziona è espressione di una struttura articolata delle componenti di carattere economico e sociale della società che si dividono il controllo degli affari. Si tratta di un sistema di attribuzione verticale di potere che dovrebbe impedire l’emergere di aree di conflitto o di sovrapposizione, consentendo una gestione controllata dell’economia di
mercato nella quale operano le bonyad. Ci riferiamo alle “fondazioni” – l’equivalente nel mondo sciita dei waqf o hubus, propri dei Paesi sunniti – di fatto gestite da persone provenienti dall’ambito dei pasdaran che hanno in mano circa il 70% dell’economia iraniana. Si tratta di membri della milizia popolare dalla forte impronta religiosa, voluta dal clero al momento della rivoluzione, che oggi gestisce il potente e l’articolato sistema militare ed economico che rappresenta la spina dorsale dell’impianto istituzionale rivoluzionario.
Come avviene con tutte le milizie rivoluzionarie, una volta finita la fase “eroica” della rivoluzione e acquisita la gestione del potere questa organizzazione si è progressivamente “imborghesita” e ha prodotto un ceto manageriale e burocratico che vive in modo sempre più indipendente dal progetto politico e ideologico che lo ha prodotto, in questo caso il sistema teocratico iraniano. In questo ambito vanno oggi individuate le forze che spingono per una graduale normalizzazione in senso“moderato” della rivoluzione iraniana, una volta che sembra esaurita la fase “eroica” e radicale rappresentata da Mahmud Ahmadinejad, Presidente della Repubblica dal 2005 al 2013 e impersonata oggi dai due candidati conservatori Jalili e Qalibaf.
Oggi il paese è in mano ai pasdaran che gestiscono un enorme e complesso sistema di industrie militari, di industrie che producono beni di consumo ed erogano servizi sociali; nel suo insieme il sistema costituisce una sorta di Stato nello Stato, con una capacità di orientare il voto e di esercitare un’influenza senza pari nel Paese. Nonostante la fedeltà al vertice dello Stato non sia mai stata messa ufficialmente in discussione, molte e sempre più evidenti sono le posizioni politiche all’interno dei pasdaran, tra i quali, negli ultimi anni, è prevalsa la moderazione e il pragmatismo. Si può parlare di una svolta moderata fra coloro che sono impegnati nella gestione delle attività economiche, con l’appoggio di una parte importante degli appartenenti alla struttura puramente militare e soprattutto di quella inserita nei gangli amministrativi del Paese.
Rimangono su posizioni sempre più conservatrici e ostili le unità “di nicchia”, cellule e gruppi radicali propensi a sostenere le scelte fondamentaliste e i principi rivoluzionari islamici. Tra questi spiccano i gruppi legati alla Ansar-e Hezbollah, forza paramilitare “in borghese”, tristemente nota perché utilizzata per sedare le proteste e le tendenze riformiste; la Brigata Gerusalemme e le milizie volontarie basij, istituite per portare a termine operazioni militari speciali e segrete, ad esempio offrendo sostegno a Õizbullåh in Libano, oppure per intervenire in Iraq e Siria contro le milizie sunnite e le truppe del Daesh, per sedare le rivolte interne e ogni opposizione al regime.
Ma per capire quanto sta avvenendo oggi, occorre ricordare che la rivoluzione iraniana non è opera di tutto il clero sciita, ma solo di una minoranza che potremmo definire “combattente”, radunatasi intorno a Khomeini, il quale non fece ricorso al vertice del clero sciita, ma ai suoi membri più giovani e politicamente attivi, sotto la guida di un ayatollah.
Il “clero combattente” non operò quindi come espressione di un movimento religioso sciita unitario e di impronta nazionale, ma come una costola separata e dissidente. Ancor oggi sono numerosi gli alti esponenti del clero sciita iraniano che biasimano o apertamente condannano sia la commistione tra politica e religione sia il principio stesso del velayatefaqih, cardine spirituale, istituzionale e costituzionale della Repubblica Islamica dell’Iran.
Oggi questa componente, se non altro per ragioni anagrafiche, sembra destinata all’estinzione, mentre non si vedono emergere delfini o giovani ayatollah capaci di raccoglierne l’eredità anche a causa del fatto che il gruppo di comando della componente religiosa del regime si è progressivamente sempre più isolato. Esso non dispone più, come al tempo di Khomeini, di un personaggio capace di personificare marja’iat, ovvero la Guida suprema della rivoluzione. Ali Khamenei è stato acclamato ayatollah, ma la sua ijtihad (credenziali giuridiche) è oggetto di critiche e ritenuta poco autorevole sul piano religioso.
D’altra parte, la componente più erudita del clero sciita ha sempre dimostrato una contrarietà, parziale, quando non totale, alla visione totalizzante del velayat-efaqih. Ancor più controversa è la rappresentatività dei marja (ovvero letteralmente di coloro che sono “fonti di ispirazione”), e di conseguenza dei grandi ayatollah, o ayatollah-uzma. Ne
consegue che l’alternativa nella gestione del potere e i nuovi leader avrebbero potuto provenire dall’ambiente dei pasdaran – in maggioranza tendenzialmente laico e costituito da tecnocrati – i quali avrebbero finito per liberarsi del velayat-efaqih, che costituisce già oggi un ostacolo alle loro ambizioni a divenire classe dirigente. Così la rivoluzione
iraniana – come tutte le rivoluzioni fattesi potere – sarebbe stata sommersa dalla tecnocrazia e dagli apparati gestionali dello Stato e dell’economia. D’altra parte, alle origini la rivoluzione iraniana era solo parzialmente “islamica” e prevalentemente laica e secolare nella composizione delle forze che la determinarono. Alcune delle motivazioni che avevano genuinamente spinto milioni di persone a ribellarsi allo Scià sono state tradite, imponendo al Paese un esperimento politico e religioso regressivo rispetto al suo sviluppo.

La lotta delle donne e lotta di classe

Tuttavia l’accesa al potere del nuovo presidente coincide con un fatto significativo: la condanna a morte di Sharife Mohammadi, 45 anni, attivista sindacale, da parte del Tribunale rivoluzionario di Rasht, località nel nord-ovest della capitale, con l’accusa politica di «tradimento». Secondo la Repubblica Islamica, tale accusa si applica a coloro che sono coinvolti nella “lotta e azione armata” contro i principi fondamentali del regime. Sharife, donna e sindacalista è accusata di appartenere, al Comitato di coordinamento per la creazione delle Organizzazioni del Lavoro, fondato nell’aprile 2004 attivisti politici e sindacali. Il tribunale accusa il Comitato di essere affiliato al Partito comunista del
Kurdistan iraniano, Komleh, il quale che si oppone alla Repubblica Islamica con l’obiettivo di creare un Iran federale, progetto fortemente osteggiato non solo dal potere, ma anche dall’opinione pubblica iraniana.
A difendere Sharife è soprattutto il sindacato della Vahidi, la compagnia di trasporto pubblico di Teheran, Che ritiene le accuse false e strumentali e domanda il rilascio immediato della sindacalista molto attiva nelle rivendicazioni in azienda. A sostenerla anche un documento firmato da 16 donne prigioniere politiche rinchiuse nel famigerato carcere di Evin, tra cui Nasirn Mohammadi, premio Nobel. L’accusa non è insolita perché al di là dei capi di imputazione mira a colpire e reprimere quelle avanguardie che sui posti di lavoro, malgrado la stretta sorveglianza esercitata sia dalla polizia che dagli enti gestori, sostiene le lotte per migliori condizioni di vita e di lavoro. Il disagio crescente della popolazione fa ritenere al potere che si è aggiunta l’ora di intimidire e costringere le donne a smetterla di rivendicare i propri diritti, sia come donne che come lavoratrici, se si vuole evitare che il l movimento “Donna, Vita, Libertà” guadagni consensi sempre maggiori consensi.
Non bisogna dimenticare che l’Iran è un paese con una popolazione in gran parte giovane e giovanissima, che le tradizioni di lotta del movimento operaio e delle stesse donne sono ben radicate ed hanno prodotto la crescita economica e sociale del paese. Vivissimo e significativo è inoltre il problema dell’identità nazionale iraniana: non bisogna dimenticare
che le recenti rivolte popolari, l’acceso in piazza delle donne è cominciata nelle aree abitate dai curdi, dai belucci e dagli altri gruppi etnici e si è estesa poi a tutto il paese.
La lotta delle donne è riuscita a fare da collante e a unificare uno scontento che è presente in modo segmentato e così iraniani di diverse etnie hanno protestano per i diritti di tutti. Ciò che è importante è riuscire a vedere l’originalità e il significato storico e globale di questa lotta. Gli uomini che scendono in piazza nelle tante città sanno bene che la lotta per i diritti delle donne è anche la lotta per la propria libertà: l’oppressione delle donne non è un caso speciale, è il momento in cui l’oppressione che permea l’intera società è più visibile. Anche i manifestanti che non sono curdi vedono chiaramente che l’oppressione dei curdi pone limiti alla loro stessa libertà: la solidarietà con i curdi è l’unica via e un passaggio obbligato per la libertà in Iran. Uno sbocco positivo della mobilitazione è possibile solo a condizione di unire la lotta per i diritti civili a quelle economiche e le condizioni ci sono tutte a causa del ridursi del benessere e l’impoverirsi della società nel suo complesso.
A nostro avviso segnali significativi che Pezeshkian deve considerare, mentre tenta di formare il suo governo. Gli iraniani non nutrono grandi speranze di cambiamenti a livello di diritti sociali, ma tutti sperano che il nuovo presidente sia in grado di migliorare la situazione, soprattutto quella economica.

La Redazione