Come tutti, o quasi, sappiamo, Thomask Kuhn, nella sua opera fondamentale “La struttura delle rivoluzioni scientifiche”[1] sottoponeva a forte revisione l’idea che la scienza lavorasse per innovare, quando invece quello che normalmente fa è di consolidare le conoscenze già note.
Quello che invece costringe la scienza a rivolgersi verso nuove strade è il cambio di paradigma, ovvero quando le credenze, le motivazioni, le spiegazioni che hanno dato
vita ad un determinato corso interpretativo non riescono più a sostenere le mutate condizioni della realtà.
Il lungo periodo monopolare finisce lasciandosi dietro la stessa scia di sangue del
suo inizio. Una caratteristica del nostro tempo è la velocità con cui gli avvenimenti si
susseguono. E, se nel mondo premoderno la durata degli imperi si misurava in secoli,
adesso siamo passati ai decenni.
Nel gran parlare di multipolarismo si tace, spesso, su una evidenza. Il passaggio
da una fase all’altra, il cambio di paradigma, non è mai un processo indolore.
Del resto è assolutamente difficile capire, standovi all’interno, le caratteristiche di
un’epoca. Riusciamo a vederle, quando va bene, solo quando quella fase sia completamente superata. Ma quello che possiamo dire, allo stato attuale, è che certamente stiamo dentro un percorso di cambiamenti strutturali il cui orizzonte è
ancora assolutamente ignoto.
Alcune questioni però paiono emergere, nel caos sistematico [2] in cui siamo immersi ormai da molto tempo.
1. La guerra come soluzione dei problemi interni, esterni e come normalità
È bene essere chiari, non è che nel periodo 1945-1989 i conflitti siano mancati, ma, con la loro consueta crudezza e violenza, essi stavano in una specie di mondo “altro”[3], che non toccava l’Occidente, in particolare l’Europa. In poche parole, come era già successo nell’Ottocento, una specie di illusione ottica scambiava per “pace” quello che era una “esternalizzazione” della guerra. Tuttavia, all’interno dei paesi europei, in particolare in Italia, la parola rimaneva ancora tabù. Troppo vicine le ferite del secondo conflitto, delle stragi, della guerra partigiana. Lasciando da parte la guerra a bassa intensità combattuta in Italia a suon di bombe (la c.d “strategia della tensione”) esisteva tuttavia una ripulsa e uno spirito anti-imperialista e anti-colonialista che non era il ripudio della violenza o “l’amore per la pace”, ma un sentimento che oggi è difficile da spiegare e che coincideva con una lettura passionale dell’art. 11 della Costituzione. Certamente, in una temperie non certo pacificata, le classi dirigenti si astenevano dal celebrare o parteggiare per qualche guerra in giro per il mondo. I telegiornali paludati, che all’epoca ci apparivano insopportabili, visti alla distanza sembrano essere tutt’altro. Quelle che rimangono in mente, al massimo, sono le truppe italiane in Libano nella missione di pace nel 1982.
Dopo il crollo del muro di Berlino tutto cambia. Appena 2 anni dopo, anche l’Italia si imbarca in quella prova generale del mondo unipolare. L’Iraq allevato e armato dagli USA (per il quale ha combattuto nel 1980 una guerra inutile e sanguinosissima) aveva osato mettere in atto un’azione autonoma, invadendo un paese a forma di distributore di benzina.
Risultato: una guerra spropositata con centinaia di migliaia di morti fra civili e militari, un paese moderno distrutto e riportato indietro di secoli, e la consueta narrazione del “nuovo Hitler” che la stampa ormai embeddeb utilizzerà ad ogni
tappa successiva. La guerra rientrava dalla finestra come “normalità” con tutto il suo carico di propaganda sfacciata, impensabile fino a pochi anni prima. Si era aperto il vaso di Pandora e aveva funzionato. Le manifestazioni per la pace,
che in quegli anni ancora portavano in piazza molte persone, erano in realtà l’ultima testimonianza di un mondo che stava per scomparire. Sbeffeggiate, derise, accusate di vigliaccheria e tradimento. Le parole del ventennio fascista, ripulite e rese “democratiche” ritornavano nelle mani di una “nuova” generazione di giornalisti marci fino al midollo, star della informazione e amanti ben pagati ed al sicuro del brivido e il rischio degli altri. Casomai, quando queste manifestazioni
avessero superato il livello di guardia, come nel 2001, una ferocissima repressione (che negli anni ‘70 avrebbero dato il via ad una guerra civile) sarebbe stata sufficiente a frantumarle.
L’affermazione dell’unipolarismo, esattamente come nei regimi totalitari, aveva bisogno di masse sempre eccitate per difendere la “way of life” occidentale e capitalista: “democrazia, libertà, elezioni, poter dire quello che si vuole” (eccetto mettere in discussione il sistema economico) contro il cattivone di turno che voleva impedire di farci scegliere quale carta di credito usare. Si solidificava un vero pensiero “totalitarista-liberale” che, a dire il vero, capovolgeva l’illuminismo trasformandolo in fanatismo. Bisognava scegliersi nemici adatti alla bisogna ma che non ci intimorissero troppo. Tipo Saddam Hussein, Milosevic, i Talebani. Oddio, la totale incapacità USA a rapportarsi con la guerriglia comunque li mise e li mette ancora in serie difficoltà. Ma in qualche caso più che di guerre si trattò di stragi a senso unico con o senza il beneplacito dell’Onu. Ad esempio l’invasione dell’Iraq del 2003, secondo i principi di quella strana cosa chiamata “diritto internazionale”, sarebbe stato un crimine di guerra. Ma chi mette sotto inchiesta chi si erge a giudice e poliziotto? In quel contesto, i veri e propri massacri di civili vennero derubricati ad “effetti collaterali”, morti senza nome “potenziali terroristi” fin da bambini. Vero è che anche in Vietnam i 3 milioni di morti Vietnamiti non hanno mai avuto un volto. Nell’impero del bene solo chi è buono tiene famiglia.
2. fine del primo tempo
Ma l’unipolarismo americano segna il passo. Nel giro di questi decenni della glorificazione del “migliore dei mondi possibili” altre teste si sono alzate per pretendere il proprio posto a tavola, o, per portarsela via. Non è più faccenda di nazioni del terzo mondo da intimorire, dittatorelli da condannare. Paesi con miliardi di persone, dotati di eserciti potenti, armi nucleari e sistemi economici performanti giocano allo stesso gioco inaugurato alla fine degli anni ‘70: globalizzazione e liberismo. Con l’aggiunta di strutture politiche autoritarie ma attente alla coesione, feroci ma in grado di ridare dignità nazionale (la Russia) o di togliere un miliardo di persone dalla miseria (La Cina), oppure, di cominciare a levarsi di dosso il fiato occidentale (l’India). Con l’elezione di Trump si entra in un’altra fase. La globalizzazione andava bene finché, per così dire, il resto del mondo faceva il buono. Con la comparsa dei nuovi attori. Attori di peso. Le cose cambiano. Si dice “basta”. Il problema è che il “basta” è ormai completamente fuori tempo massimo. I “player” extraoccidentali sono ormai ben cresciuti e non trattabili come i “cattivi” di secondo piano “puniti” dai guardiani della libertà nel mondo. Il percorso unipolare, che adesso si trova inceppato dalla presenza, soprattutto, della Cina, ha però proseguito nella propria corsa cercando di inserirsi in Russia con l’enclave dell’Ucraina. A questo punto però l’avversario si è dimostrato non un sottoprodotto novecentesco, ma una potenza nucleare, in bilico fra oriente e occidente. Quella guerra, in atto da quasi 2 anni ha in pratica dimostrato che la storia non è solo finita, ma ha ripreso a correre in maniera evidente. Nel frattempo però gli USA hanno ottenuto almeno qualche risultato: spegnere qualunque velleità dell’Unione Europea,
ormai davvero il “ciabattino” americano, utilizzare l’enorme aumento della produzione di armi come keynesismo militare (che, pare, abbia funzionato). Ma la Russia ha dimostrato invece che esiste un campo avverso all’occidente in grado di candidarsi per l’egemonia mondiale. Ed è su questo punto che si produrrà lo scontro futuro.
3. Nuovi paradigmi
Questi cambi di scenario impongono cambi strutturali e questi a loro volta portano a modificare la stessa cultura. 30 anni di guerre “giuste” (“azioni di polizia internazionale”
→ “operazioni speciali”) hanno destrutturato la sensibilità, la nostra sensibilità, per cui i morti, a migliaia, non sembrano interessarci più. Se si pensa che nel mar mediterraneo giacciono i corpi di almeno 30.000 esseri umani, che non avranno mai un nome, una sepoltura, come se non fossero mai esistiti, nella sostanziale indifferenza generale, istituzionale e umana. Se si pensa che in Iraq, in Siria, nello Yemen, in Afghanistan, i morti si contano a milioni, mentre i media organizzano trasmissioni h24 sulla vita di 1 (uno!) bambino in fase terminale, cosa penserà l’altra parte del mondo? Per la guerra in Ucraina i media unificati hanno contato bomba su bomba, facendo la storia di ogni singolo morto civile (ma tacendo sulla centinaia di migliaia di morti militari ucraini) mentre per il massacro o, meglio “quasi” genocidio che lo Stato di Israele sta commettendo a Gaza i morti sono senza volto senza nome e senza storia. Ma, c’è un di più, nel caso del massacro dei palestinesi la stampa mainstream, ovvero tutta, non solo dà una informazione del tutto sbilanciata, ma inserisce nelle notizie che fornisce un altissimo livello di propaganda. Non solo comunica, ma cerca di convincere, addestra. La stampa borghese è sempre stata così, sia chiaro, ma questa volta c’è un di più assai significativo. “Siamo schierati da una parte, la guerra non è più un tabù e siamo disposti a tutto pur di difendere il nostro mondo. I nostri valori”. Nel contempo il cosiddetto soft-power ha fatto passi da gigante, ogni azione, ogni pensiero, anche quello apparentemente più “rivoluzionario” è sussunto immediatamente, in tempo reale, dall’immensa macchina mediatica e cibernetica che macina triliardi di informazioni a getto continuo. Non c’è la Spectre a dirigere il tutto, non c’è ne assolutamente bisogno. E le battaglie più avanzate sono combattute tutte sul filo della sovrastruttura del tutto sganciata dal sistema economico, come se questo fosse uno stato di natura. In questo contesto le vecchie analisi rischiano di essere armi spuntate. Nel post-postmoderno (ovvero nella neomodernità) la società dello spettacolo è in grado di assuefare tutti all’indifferenza e all’accettazione (la famosa “resilienza” non “resistenza”) ancora a spingere il carretto di un “sogno americano” finito (ammesso ci sia mai stato) da
almeno 30 anni. Ma mai come in questo periodo le diseguaglianze sono apparse gigantesche. Probabilmente l’occidente, qualunque cosa sia o sia stato, sta passando la mano. Con che modalità questo potrà accadere lo sapranno i posteri.
[1] T.Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Einaudi, 2009 (1° ed. or. 1962) Va tenuto presente che Kuhn non sarebbe stato d’accordo con il nostro utilizzo del suo studio per utilizzi al di fuori del mondo scientifico. Tuttavia le sue ipotesi di allora hanno
trovato così tanta utilità per aiutarci a comprendere il mondo che ci circonda, che riteniamo questo utilizzo non irriverente o inattuabile, anzi.
[2] https://www.lacittafutura.it/esteri/il-mondo-nell-abisso-del-caos-sistemico [3] La guerra di Corea in cui stima la perdita di c.a 3 milioni di vite umane è oggi completamente dimenticata. Vedi G. Breccia, Corea. La guerra dimenticata, Il Mulino, 2019.
Andrea Bellucci