Flop referendum ed elezioni amministrative

Il flop dei referendum sulla giustizia in Italia induce a riflettere sul merito del problema e sul meccanismo referendario. Che il sistema giudiziario italiano sia malato terminale non ci sono dubbi, come ci sono dubbi che i quesiti (peraltro poco chiari) fossero risolutivi dei problemi della giustizia. Quel che è certo è che la riforma Cartabria, approvata dal Parlamento, è una schifezza che non risolve nulla e per molti aspetti aggrava i problemi.
L’assenza di quorum e la partecipazione al voto del 20,5 % hanno quindi molte cause che non dipendono dal fatto che si è votato in un solo giorno e certamente hanno risentito delle modalità con le quali il referendum è stato indetto: su richiesta di 9 Consigli regionali, su indicazioni della Lega, in parte per far fronte alle difficoltà della raccolta delle firme, ma soprattutto per la volontà di annettersi l’iniziativa dal punto di vista politico.
Inoltre, i proponenti contavano sulla forza trainante di altri due referendum, quello sull’eutanasia e quello sulla legalizzazione della cannabis che, si presume, avrebbero indotto gli elettori a partecipare, votando anche sugli altri quesiti. Ma a disinnescare il pericolo che avrebbero rappresentato queste tematiche fortemente sentite a livello sociale, i cui quesiti erano nello spirito referendario, ci ha pensato il “dottor sottile”, Presidente protempore della Corte costituzionale, costruendo una interpretazione giuridica che escludesse dall’ammissibilità i due quesiti, rendendo le motivazioni ineditamente e irritualmente noti, attraverso un’intervista, ben prima della pronuncia della Corte.
In quanto ai quesiti ammessi, tre dei quali caratterizzati da una complessa tecnicalità, tale da renderli non comprensibili, questi non rispecchiano i reali problemi della giustizia in Italia e non avrebbero risolto nemmeno uno dei problemi sollevati dalla Riforma, che resta caratterizzata dalla canalizzazione delle risorse del PNRR verso la realizzazione dell’informatizzazione degli uffici giudiziari e la costruzione di nuove carceri, e una modifica delle alchimie elettorali per designare il Consiglio Superiore della Magistratura, continuando a lottizzarlo.
La disaffezione degli elettori dalle urne è quindi più che giustificata e accresciuta dal fatto che la strumentalizzazione dello strumento referendario ha finito per radicare la convinzione dell’inutilità di recarsi alle urne. I partiti che i referendum hanno voluto, si sono a loro volta, defilati, quando si sono resi conto che nel frattempo, i problemi
della guerra, dell’inflazione, della crescente povertà, sono divenuti quelli che principalmente interessano la totalità degli elettori. E così si sono chiusi nel silenzio, di fatto prendendo le distanze dalla scadenza politica che loro stessi hanno voluto, per non vedersi addossata la responsabilità della sconfitta.
Guardando al numero dei votanti si rileva una sostanziale coincidenza (in verità al ribasso) tra l’elettorato accreditato alle forze proponenti, Lega, + Europa insieme a Calenda e i radicali, per non parlare di Italia Viva: ben si comprende che lo spazio del Centro è quello di un centrino, il che la dice lunga sulla consistenza elettorale del vaticinato centro dello schieramento politico, proposto da + Europa e Calenda, col peso morto di Italia Viva.
Non andando in maggioranza a votare gli elettori non hanno pensato che la giustizia fosse sana, ma ritenuto che sia i quesiti posti che la riforma in discussione non danno alcuna risposta condivisibile ai problemi di una giustizia giusta.

Astensionismo e voto amministrativo

Il voto amministrativo è stato caratterizzato dall’astensionismo, malgrado che si trattasse di eleggere i sindaci delle città, problema che avrebbe dovuto interessare gli amministrati. L’elettorato residuo che ha partecipato al voto, si è diviso secondo le convenienze locali sul sostegno a questo o quel gruppo di potere: a dirla lunga sulla situazione delle forze politiche del paese basta la cronaca di ogni giorno che racconta della crisi di rappresentanza, dell’inconsistenza programmatica, della mancanza di proposte, dell’incapacità di rappresentare gli interessi di ceti e classi. Lo squagliamento dei 5Stelle e della Lega, la morte senza funerale, per carenza di partecipanti, di Italia Viva, il rampantismo fascista di FdI, l’atlantismo dei pariolini perbenisti del PD, dimostrano con evidenza il fallimento del ceto politico italiano, compreso il demiurgo al Governo.
Solo la riscoperta del conflitto sociale e le lotte possono salvare il paese.

La Redazione