OSSERVATORIO ECONOMICO

23, settembre 2013

Debito – C’è debito e debito. Il debito pubblico, quello su cui vengono pagati gli interessi agli investitori (le banche) dell’Italia è il più alto d’Europa, se si esclude la Grecia. Ma se si fa riferimento al debito complessivo di una paese la musica cambia (Il Sole 24 ore, a. 149. n° 249, 11 settembre 2013, p. 2). Nell’indebitamento complessivo di un paese occorre considerare anche quanto siano esposte le banche, le imprese e le famiglie.
Considerando anche questi parametri il paese più indebitato dell’Europa risulta essere l’Irlanda (circa 5 volte il PIL), seguita dal Portogallo(più di 4 volte il PIL). Fin qui nulla di sorprendente, ma scorrendo verso il basso la graduatoria troviamo il Regno Unito (400% del PIL), la Spagna (oltre 350% del PIL) e sempre oltre il 300% del PIL, in ordine Belgio, Olanda, Francia e Grecia. Solo a questo punto troviamo l’Italia poco sopra il e poco sopra la media europea. Più virtuosi e con indebitamento inferiore al 300% del PIL ci sono l’Austria, la Finlandia e la Germania. È appena il caso di ricordare che il crollo dell’economia argentina, alla fine degli anni novanta, non fu dovuto al debito pubblico ma all’indebitamento accumulato per lo più dalle famiglie e che la crisi del 2007, quella attuale, si è generata negli Stati Uniti d’America per l’indebitamento del sistema bancario e per l’insolvenza dei cittadini.
Devolution – La parola d’ordine del federalismo ha prodotto nel 2001 la revisione del Titolo V della Costituzione, revisione affrettata e pasticciata che ha prodotto un contenzioso infinito tra le Regioni autonome e lo Stato: più di un migliaio di ricorsi in un decennio presso la Corte Costituzionale, vinti per lo più dalle Regioni. Ma almeno ha razionalizzato la spesa pubblica? I dati sono incontrovertibili. Il 60% delle spese statali
sono stati trasferiti alle Regioni, ma la spesa pubblica complessiva è aumentata di 66 mila miliardi. Ciò tradotto in parole semplici significa che la spesa centrale è diminuita, ma quella periferica è aumentata più di quanto non sia diminuita l’altra. Complessivamente nel decennio 2002-2011 la spesa regionale è cresciuta del 40,3%,
cioè di oltre il 17% al netto dell’inflazione nel periodo. Selezionando le voci più significative si ottiene un aumento del 42,7%, ma con alcune sorprese. Le spese per gli organi istituzionali sono aumentate del 59% e quelle per personale e acquisti sono aumentate di un terzo, sempre ben al di sopra dell’inflazione. Sono triplicati i trasferimenti alle province, segno che con essi sono aumentati anche i trasferimenti di competenze verso un ente che tutti vogliono abolire. Pure di una metà sono aumentati i trasferimenti alle ASL, quindi con una levitazione del 24% della spesa sanitaria, a fronte di un decadere dei servizi e ad un aumento dei ticket. Le spese relative agli investimenti nei settori produttivi (trasferimenti ad imprese e coop) sono invece quasi dimezzati al netto dell’inflazione (nostra elaborazione su dati di Il Sole 24 ore, a. 149. n° 248, 10 settembre 2013, p. 10).
Ripresina – “Lenta e fragile” dicono, ma comunque siamo in fondo al tunnel: questa è la ventata di ottimismo che gli organi di governo economico (quelli soliti, quelli che hanno creato la crisi, quelli che non si sono mossi di una virgola dalle loro ricettine dannose) tendono a spargere, con lo scopo di non indurci a disturbare il manovratore. Il Sole 24 ore, a. 149. n° 250, 12 settembre 2013, dedica la seconda pagina ad illustrare le speranze, ma i dati sono impietosi. Tra il 2004 ed il 2007 l’economia italiana, il PIL, cresceva in media del 1,6%, quella francese del 2,3%, quella tedesca del 2,7% e quella statunitense del 2,5%. Negli anni della crisi, dal 2007 al 2013, l’economia italiana è diminuita del 1,5%, quella francese e cresciuta dello 0,1% quella tedesca dello 0,6% e quella statunitense dello 0,7%. Il 2014 sembra, a detta di OCSE, Istat e Banca d’Italia, sarà l’anno del miracolo: PIL italiano +0,7%, francese +0,8%, tedesco +1,4% e statunitense addirittura +2,7%. Tanto sfrenato ottimismo, almeno per i dati italiani, non trova facile riscontro. I prestiti del 2013 sono calati di 1,8 milioni di €; la disoccupazione è salita al 12,1% e non è prevista diminuzione (ma visto l’andamento dell’industria è facile prevedere invece un ulteriore aumento, superiore al 12,3% previsto); la pressione fiscale è salita alla cifra record del 53,5% ed essa grava per la maggior parte sui redditi da lavoro dipendente; grazie a tale livello abnorme sale l’avanzo primario al 2,3% del PIL, mentre il debito pubblico è invece salito al 131,7%; i consumi delle famiglie sono scesi del 2,8% e gli investimenti del 5,4%. Le retribuzioni sono al palo, anzi data
un’inflazione dell’1,5%, i licenziamenti in corso e il crescente alla cassa integrazione, non è un grande sforzo di fantasia ritenere che la massa monetaria interna tenderà a diminuire, comprimendo i consumi ben oltre lo 0,1% previsto. Le esportazioni sono in aumento e presumibilmente cresceranno ancora, ma ciò non è in grado di per
sé di reggere la congiuntura. Su cosa si basi tanto ottimismo è difficile capirlo, ed anche la situazione internazionale non brilla, tanto che pure i rampanti paesi emergenti (BRICS), perdono colpi. Le stime del 2013 (Il Sole 24 ore, a. 149. n° 244, 6 settembre 2013, p. 2), infatti, vedono un calo generale dei tassi di crescita, all’origine del quale sta la decisione della FED (la Banca Federale degli Stati Uniti d’America) di contrarre gli
stimoli alla crescita erogati negli anni passati. Mentre Italia e Francia sono gli unici paesi del G-20 ancora in recessione, Gran Bretagna e Germania vedono crescere il proprio PIL di poco. Una crescita tra l’1% ed il 3% per la maggioranza dei paesi, ma significativamente il Sudafrica cresce del 2%, la Russia del 2,8% come il Brasile.
Sopra il 3% si attestano Turchia (+3,4%), Arabia Saudita (+ 4,4%), India (+5,6%), Indonesia (+6,3%) e Cina (+7,8%). Sono performance positive, ma non ai livelli degli anni ruggenti, quando il PIL della Cina volava oltre l’11%, quello dell’India a quasi il 10% e quello degli altri (Brasile, Russia e Sudafrica) ben al di sopra del tasso di aumento del 2013. Se anche queste economie iniziano a rallentare la crescita è difficile sperare che le esportazioni (unico settore forte dell’economia italiana) continuino a reggere. Anche perché l’Euro si rafforza, attirando capitali finanziari e non di investimento, per il semplice fatto che la competitività delle merci dell’area della moneta unica giocoforza tende a decrescere. L’effetto è un circolo vizioso: più l’Euro si rafforza, più attira capitali dai paesi emergenti, in contrapposizione al dollaro, e più l’Euro si rafforza. L’origine risiede nel fatto che mentre la FED può stampare moneta e quindi controllarne il valore sui mercati valutari, la BCE non ha statutariamente questa facoltà. È così che gli Stati Uniti d’America hanno potuto mettere sul mercato una quantità ingente di dollari e sostenere la congiuntura nel periodo difficile e al riparo dell’inflazione grazie alla
centralità della propria moneta nei mercati valutari. L’Europa dell’area della moneta unica non ha potuto fare la stessa scelta, inasprendo in tal modo la politica del rigore dei bilanci. Ora che l’Euro tende a scalzare il predominio del dollaro riesce più rischiosa per gli USA la politica volta a stampare moneta, perché ciò potrebbe comportare una reviviscenza inflazionistica.

chiuso il 15 settembre 2013
saverio