Finanza über alles

La crisi sta producendo effetti paradossali e, nel contempo, inquietanti e inconcludenti. Ricapitoliamo.
Nel 2007 la catena di sant’Antonio attivata dalle banche americane, avallata dalle “imparziali” agenzie di rating, adottata dagli istituti di credito di tutti i paesi occidentali si è spezzata: i crediti facili concessi a clienti potenzialmente insolventi venivano immessi sui mercati creditizi come effettivamente esigibili, generando così profitti doppi per chi li emetteva; sono i tristemente noti mutui subprime, altrimenti conosciuti come titoli tossici. Quello su cui però si è scarsamente riflettuto non è però quanto questa pratica fosse alla lunga nociva e costituisse un autentico boomerang per la finanza internazionale, ma da dove si originasse l’interruzione della catena. Per capirlo occorre fare un passo indietro.
Rudolf Hilferding già nel 1919 aveva posto l’accento sull’affermarsi del capitale finanziario nei confronti di quello di rischio, ma i tempi non erano ancora maturi per un suo completo dominio e la produzione continuava ad esercitare il ruolo centrale nello sviluppo economico mondiale. Era per di più convinto del respiro puramente locale del capitale finanziario, legato alle banche centrali ed agli Stati nazionali, in contrapposizione alla crescente internazionalizzazione del capitale industriale. La crisi del 1929 portò alla ribalta le teorie economiche di Keynes, che segnarono una forte battuta di arresto nella crescita del potere della finanza. La moneta eretta a fulcro della fuoriuscita dalla bassa congiuntura, con tutto il suo portato inflativo, metteva al centro non essa ma la produzione ed il lavoro.
Occorre arrivare alla svolta monetarista degli anni settanta ed ottanta del secolo scorso per veder tornare alla ribalta la finanza, quale unica regolatrice del ciclo economico, una finanza ormai totalmente internazionalizzata. La lotta all’inflazione, individuata quale nemico principale da battere, ha imposto politiche restrittive del credito e con esse manovre sempre tendenzialmente recessive. L’occhiuto controllo esercitato
sulle aziende finanziate ha spinto ad un continuo abbattimento dei costi di produzione, di quello del lavoro in particolare, con la continua ricerca di luoghi del pianeta dove reperire manodopera al costo più basso possibile.
Il credo neoliberista ha piazzato i propri uomini ai vertici delle istituzioni finanziarie nazionali ed internazionali, nelle accademie, nei consigli di amministrazione, negli organismi di controllo, dovunque si prendessero decisioni importanti.
Le conseguenze di un decorso economico basato sul profitto a breve termine, conseguito con ogni mezzo, ha comportato una costante sottovalutazione del momento produttivo, visto come un investimento dal rendimento troppo dilazionato del tempo. Negli anni ottanta gli Stati Uniti d’America hanno attraversato una stagiona passata alla storia come “deindustrializzazione”. Ne sono derivate un accrescimento smisurato
dell’accumulazione delle ricchezze in poche mani ed un’erosione progressiva dei redditi dei ceti medi ed un impoverimento generalizzato delle popolazioni. I confini dei mercati si sono, pertanto, continuamente ristretti, mentre si è puntato sulla valorizzazione dei “beni immateriali”.
Per far fronte alla mancanza di risorse dei consumatori un tempo parte del circuito delle merci e che ne venivano progressivamente esclusi, si è fatto leva sul credito non sufficientemente garantito. L’elica ascendente dei crediti che crescevano sui crediti, in un giro vorticoso privo di basi materiali appropriate, ha per oltre un ventennio occultato la debolezza del modello teorico attuato dagli istituti finanziari. Lacerazioni della
tela ottimistica stesa sul vuoto, perché le informazioni nascondessero le tare del sistema, sono di volta in volta emerse: tigri asiatiche, Giappone, Brasile, Argentina hanno conosciuto crisi più o meno profonde, ma ogni volta un pietoso cerotto ha preservato l’economia internazionale dal tracollo. Fino al 2007, quando la crisi di liquidità dei ceti più deboli ha spezzato i piedi d’argilla dei giganti finanziari.
Si dice che i popoli avevano vissuto al di sopra delle loro possibilità; da un certo punto di vista è vero, ma occorre intendersi. I consumatori erano stimolati a consumare per sostenere un mercato drogato, nella convinzione che il giro successivo avrebbe generato altre risorse in grado di garantire la ripartenza dal gradino superiore della scala del benessere. Ovviamente si trattava di un’illusione, ma era un’illusione delle banche e non dei cittadini. Il caso Argentina è paradigmatico. Dopo il deprezzamento del Real brasiliano, che in pratica frantumava il fragile Mercosur, il governo argentino ha pertinacemente perseguito la politica del Peso forte, agganciato con valore uno a uno al dollaro statunitense. Con ciò coltivava l’illusione che con una moneta forte la popolazione poteva continuare ad acquistare quanto desiderava. Ma la concorrenza delle merci brasiliane, che ha consentito a quel paese di riemergere della crisi e divenire una delle economie più dinamiche del pianeta, ha minato l’economia argentina e le reali disponibilità finanziarie dei consumatori sono diminuite.
Fiduciosi in un futuro ciclo ascendente gli argentini compravano tutto a “quotas” (rate), persino i pasti al ristorante, fino a che sono divenuti insolvibili ed l’Argentina ha fatto bancarotta, danneggiando i risparmiatori che, auspici le banche di tutto il mondo, avevano investito nei titolo di Stato di quel paese.
Il meccanismo si è ripetuto a livello globale ed allora la “politica” ha sollevato alte ali,
preannunciando drastici interventi legislativi volti a regolamentare la finanza responsabile dell’insorgere della crisi. Lacrime di coccodrillo, promesse da mercante! Per la verità le prime mosse dell’Amministrazione Obama erano volte a rifinanziare la produzione ed anche in Francia sono stati devoluti fondi all’industria dell’auto purché producesse senza decentrare all’estero. Erano tentativi un po’ goffi di fuoriuscire dal dominio culturale monetarista imposto dal sistema finanziario: creare reddito per far ripartire l’economia, invece di fare credito per far ripartire i consumi su di un castello di carte. Questa stagione è durata poco. Gli uomini di fiducia dell’apparato bancario mondiale hanno ben presto riconquistato il potere perso temporaneamente, pur se
qualche testa era caduta, travolta dagli scandali.
Ben presto le risorse statali sono state convogliate a salvare le banche in crisi e le nuove regole annunciate per mettere sotto controllo lo svolgersi dell’attività degli istituti di credito non hanno mai visto la luce. Nell’arco di un biennio la finanza non solo era tornata in sella, sul ponte di comando, ma vi era tornata più determinata e più forte di prima; tanto forte da cominciare a pensare di esercitare anche il potere politico in
prima persona. Il longevo presidente della Federal Riserve, Alan Greenspan, forse il maggior responsabile della crisi attuale, per esercitare la propria azione doveva confrontarsi con il Presidente degli Stati Uniti d’America, che all’epoca era Bill Clinton. Il Presidente della Banca Centrale Europea, Wim Duisenberg, doveva confrontarsi col Primo Ministro inglese Tony Blair. Erano ovviamente personaggi criticabili, ma avevano
indubbiamente una caratura politica che gli attuali leader mondiali neppure intravedono.
La debolezza dei politici che sono attualmente alla ribalta nel palcoscenico mondiale, e lo sono stati nell’ultimo decennio ha favorito il protagonismo dei grandi banchieri. Ma la crisi è stato il detonatore di un fenomeno nuovo, quello che Marx avrebbe chiamato il salto dialettico tra quantità e qualità. La Federal Riserve de Ben Bernanke ha finanziato durante questa crisi le banche in crisi di tutto il mondo con un quantitativo di denaro superiore al Prodotto Interno Lordo degli Stati Uniti d’America; e questo senza passare attraverso le decisioni della politica. Le banche, che con le loro decisioni di politica economica hanno determinato questa crisi, nonostante ciò ora impongono ai paesi le loro ricette per uscire dalla stessa crisi, ricette che ricalcano pedissequamente i vecchi sentieri che hanno portato al disastro.
È così che la Banca Centrale Europea scrive lettere ai paesi in difficoltà prescrivendo le misure necessarie per giungere alla salvazione, che poi significa onorare il debito che questi paesi hanno contratto, debito dovuto in grandissima misura proprio alle banche; ed è chiaro che in tal modo iniziava ad operare come vera e propria centrale politica dell’Unione Europea. È così che le agenzie di rating, quelle stesse che certificavano come buoni i titoli tossici prima della crisi, ancora oggi sono i punti di riferimento per orientare i mercati, favorendo in tal modo le manovre di quegli stessi investitori, le banche, che sono i loro principali azionisti.
Non ancora pago di tutto ciò il potere finanziario internazionale ha deciso di prendere sotto la propria diretta tutela, approfittando della crisi, quei paesi che non garantiscano sufficientemente i propri investimenti.
L’Islanda è sfuggita alla loro grinfie; era comunque un paese molto piccolo, ma la lezione è servita, se non altro perché gli altri potrebbero accorgersi che si può non onorare il debito e ricominciare a crescere. Per questo, quando il Primo Ministro greco Papandreu ha annunciato di voler sottoporre a referendum le manovre economiche imposte dall’Europa, gli scudi si sono levati immediatamente e lui si è dovuto dimettere per lasciare il posto a Papademos, ex vice Presidente della BCE.
L’arzillo vecchietto arcoriano non dava alcuna fiducia all’apparato finanziario europeo ed internazionale; troppo immerso nelle proprie “pene” personali e giudiziarie per poter svolgere un’azione minimamente efficace; troppo circondato da servi adulanti e sciocchi per poter portare avanti un’azione di governo minimamente credibile. Occorreva eliminarlo. E non si poteva aspettare che il “popolo sovrano”, uscito dall’ubriacatura televisiva e messo duramente a confronto con la scomoda realtà dell’economia facesse
giustizia fra poco più di un anno. Così dove nulla hanno potuto gli scandali pecuniari e sessuali, dove nulla aveva potuto la constatazione della inettitudine ed inadeguatezza più che evidenti, là è giunta la finanza. Un violentissimo attacco speculativo sui titoli di Stato italiani ha aperto la strada alla fuoriuscita del patetico signore in declino. Al suo posto un altro candidato proveniente direttamente dal mondo dell’alta finanza, Mario
Monti.
Il disegno è evidente: non permettere l’emergere di una politica economica alternativa (non perché Papandreu o Berlusconi ne potessero essere i portatori, né tanto meno i loro oppositori). Solo l’idea che la crisi non seguisse i binari che ad essa cerca di predisporre il sistema delle banche e che quindi si aprissero prospettiva nuove fa venire i brividi all’alta finanza. Anche se la soluzione prospettata è priva di speranze, perché un mercato sempre più asfittico non permetterà mai una reale ripresa dell’economia, la lobby monetarista tenta di esercitare il potere in prima persona per non perdere il controllo della macchina. Quale sarà il prossimo paese commissariato?

Saverio Craparo