Nel bel mezzo della crisi globale un paese, in particolare, va decisamente controcorrente, un paese che si è affacciato da poco più di due decenni al capitalismo: la Cina. Si moltiplicano le pubblicazioni e gli studi sui suoi successi economici e sulla sua crescita continua a due cifre. È un modello esportabile? È il modello su cui si rigenererà il capitalismo dell’inizio del XXI° secolo? I paesi occidentali, sede storica dello sviluppo industriale, hanno qualcosa da imparare? Gli imprenditori che hanno scelto di investirvi hanno fiutato il futuro o stanno solo sfruttando una congiuntura favorevole?
9.1. L’accumulazione primitiva
Negli anni novanta la Repubblica Popolare Cinese, uno dei pochi stati “marxisti” sopravvissuti al 1989, quello più popoloso al mondo, introduce alcune macchie di capitalismo nel proprio sistema economico statalizzato: vengono create le Zone Economiche Speciali (ZES), di cui Shenzen nel Guandong è la più famosa.
In esse si attirano i capitali stranieri offrendo condizioni di investimento e di prestazione del lavoro quanto mai favorevoli; i salari sono bassissimi, gli orari massacranti, i servizi sociali sconosciuti, la sindacalizzazione una chimera. In questa situazione non è strano che gli incidenti sul lavoro siano frequenti e devastanti. Ma in Cina la manodopera non scarseggia e la continua inurbazione dalle campagne costituisce un esercito di riserva
praticamente inesauribile.
Lo scopo è facile da capire. Fallita l’economia statalizzata, in crisi la collettivizzazione agricola, la burocrazia al comando della nazione non vede altri sbocchi che quella di avviare una transizione al capitalismo.
Per operare la transizione necessita di una buona riserva di capitale, al momento inesistente e deve quindi avviare la fase nota come “accumulazione primitiva”, quella che l’Inghilterra ha effettuato nel XVIII° secolo.
Decide quindi di attirare i capitali esteri per approntare gli impianti di produzione, fornendo ciò di cui è più ricca: la manodopera a basso costo.
La variante, però, è che questa accumulazione non deve finire appannaggio dei privati, ma deve prima o poi tornare nelle mani della casta burocratica che ha avviato il processo, che quindi lascia ampia libertà di sfruttamento nelle zone individuate, ma tende a detenere le redini del sistema complessivo.
9.2. Mercato controllato
Tenere sotto controllo la situazione, per poi intervenire ad accumulazione primitiva del capitale avvenuta, comporta per la burocrazia di partito cinese seguire una linea economica contraria a quella entrata in voga negli ultimi decenni nei paesi industrializzati; non lasciare il mercato in balia dei gruppi monopolistici internazionali,
gli stessi che parlano di “libero mercato”, ma programmare lo sviluppo industriale. Soprattutto in Cina lo Stato spende per gettare le prime infrastrutture di un Welfare finora quasi inesistente, e usa la molla del capitale estero per attivare un mercato interno in grado di assorbire la produzione e quindi farla crescere in funzione dei
bisogni che si vanno formando[29].
Lo Stato cinese, o meglio il PCC, capisce, in controtendenza col resto del mondo accecato dalla teoria economica monetarista, che per far crescere il mercato interno occorre creare una classe media, fino a trent’anni fa inesistente, classe media che nel resto del mondo viene progressivamente distrutta. Ed è così che il “marxismo cinese” non crolla fagocitato dagli oligarchi cresciuti NELL’EX-URSS all’ombra dello stalinismo, non diviene preda delle mafie infiltratesi nei gangli di una burocrazia ottusa e avvezza alla menzogna del rispetto dei piani della programmazione presuntuosamente capillare.
Già nel 1925 il PCUS aveva intravisto la fuoruscita dalle secche della statalizzazione totalizzante nella reintroduzione della proprietà privata e nello stimolo dell’interesse del singolo: il primo piano quinquennale fu attuato sotto l’egida dello slogan “Arricchitevi!”. Ma poi prevalse l’accentramento assoluto di Stalin ed in Unione Sovietica una classe media non si è mai formata. Il successore di Mao, Deng, è stato più lungimirante
ed in Cina la transizione a forme reali di capitalismo è effettivamente avvenuta, forme però non coincidenti con quelle occidentali della distruzione del controllo statale, della supply-side economy e della mano libera al capitale finanziario. Lo Stato cinese detiene il controllo delle banche e quindi del credito e non sono le banche a detenere il controllo delle politiche statali e sovranazionali
9.3. Preminenza della produzione
Il modello brevemente sopra descritto, in cosa può essere riprodotto nello schema di funzionamento del capitalismo occidentale? Non certo le condizioni di sfruttamento della forza lavoro che si possono verificare nelle ZES. È vero che in molti paesi, per non dire in tutti, le conquiste dei lavoratori sono state in gran parte riassorbite e ciò è successo fin dall’avvento del monetarsimo nella Gran Bretagna della Thatcher. Ed è
altrettanto vero che la crisi ha fornito una potente accelerata al processo di degradazione della prestazione lavorativa. La cesura generazionale tra posto “garantito” e posto di lavoro precario è dilagata negli anni novanta e nel primo decennio di questo secolo, ma ancora non era successo che in una stessa fabbrica esistessero due contratti e due retribuzioni diverse tra un lavoratore anziano ed un neoassunto, come alla Chrysler di Detroit[30]. Ed è infine vero che i nuovi contratti che verranno sottoscritti tra gli assunti e i nuovi germogli della vecchia FIAT delineano un asse di potere tra imprenditore e lavoratore inedito da oltre un secolo. Ma tra tutto ciò e le condizioni lavorative di un operaio cinese c’è ancora un abisso incolmabile. Per di più anche nelle ZES si iniziano a verificare le prime aggregazioni operaie, le prime rivendicazioni salariali e le prime prese di coscienza ambientale e se questo avviene in un territorio vergine per la sindacalizzazione, c’è buona speranza per quelli di più antica tradizione.
Quello che il capitalismo nostrano dovrebbe apprendere dalla Cina è che il mercato non può da solo regolare automaticamente il ciclo produttivo e che, quindi, è impensabile destrutturare i controlli centrali nazionali per lasciare mano libera ai distretti, soggetti deboli sottoposti ai voleri delle multinazionali.
Un altro ammaestramento utile è quello relativo alla sopravvivenza della classe media; se ovunque si punta alla riduzione dei costi di produzione, il circolante diminuisce, tutte le classi si impoveriscono ed in particolare la classe media, ossatura del mercato interno, tende a ripiegare abbassando consumi e risparmi. La merce prodotta trova sempre meno compratori e la congiuntura si avvita su se stessa.
Ne discende, infine, che il potere finanziario va ridimensionato e riportato sotto un controllo programmatorio che gli è estraneo, pena il non uscire dalla situazione creatasi. Il più grande insegnamento del modello cinese è che, anche in una logica di profitto, quella che conta non è l’arricchimento speculativo a breve, ma la produzione, che prima o poi si riprende la propria rivincita.
9.4. Il controllo delle terre come materie prime
La Cina è consapevole delle proprie debolezze. Sa che malgrado le politiche demografiche tese al controllo delle nascite le richieste alimentari del paese cresceranno più del bisogno di materie prime e di energia e perciò – imitata da altri paesi in crescita come l’India – che hanno analoghi problemi, si dedica con particolare
attenzione all’acquisto di terre. Cina e India sono due paesi in crescita, con una classe media in espansione e una dieta che si arricchisce di derivati del latte e di carne e ciò vuol dire maggior consumo di cereali. In questa strategia Cina e India vengono emulate dalla speculazione internazionale che lavora per fare dei diritti di coltivazione una “merce” da negoziare sul mercato finanziario e speculativo. I protagonisti sono i fondi
d’investimento e i Paesi con grandi ricchezze finanziarie, ma scarsa dotazione di terra come Arabia Saudita, Emirati Arabi, Kuwait.
.Questa tendenza si è accentuata dopo l’impennata dei prezzi dei generi alimentari di due anni fa, per effetto della diminuzione della produzione dovuta alla conversione delle coltivazioni alla produzione di generi adatti a sviluppare energia. In meno di due anni, tra il 2007 e il 2009, almeno 20 milioni di ettari di terreni coltivabili – pari all’Italia dalla Val d’Aosta fino a Napoli – sono stati oggetto di negoziati e accordi tra governi e società
private Questi terreni da comprare e seminare a grano, soia, riso sono ubicati soprattutto in Africa. Gli acquisti – ma si tratta nella gran parte dei casi di affitti fino a 50, anche 99 anni – sono fatti formalmente da aziende private, che nascondono governi che operano mediante fondi sovrani o agenzie di credito, con transazioni a meno di 1 dollaro all’ettaro.
Il rischio di una futura prossima bolla speculativa su questi diritti di sfruttamento non è da escludere.
[29] LORETTA NAPOLEONI, Maonomics, Rizzoli, Milano 2010.
[30] Fino ad ora i lavoratori prestavano servizio nella stessa azienda con due contratti diversi, sottoscritti con due datori di lavoro diversi, e temporaneamente (lavoro in affitto).