Il sistema capitalistico per fuoriuscire della crisi deve trovare nuove strade, come meglio si vedrà, visto che forse i tempi non sono, purtroppo, maturi per una fuoriuscita dal capitalismo, anzi non sono mai stati così lontani. Quello che non è possibile praticare è il tentativo di correttivi parziali, non in grado di mutare il quadro economico generale, e proposte in questo senso ne esistono diverse. Prima di analizzare l’ottica complessiva
che può produrre un cambiamento tutto interno al sistema basato sulla proprietà privata, vediamo alcune di queste proposte, riduttive o addirittura controproducenti.
8.1. La decrescita
La teoria della decrescita, nata in Francia ad opera di Serge Latuoche, offre spunti interessanti di critica alla società dei consumi, mettendo sotto accusa il mito della crescita del PIL come unico parametro del progresso. “Continuare oggi a coltivare l’idolatria del PIL l significa non voler aprire gli occhi sull’assurdità di un’idea di ricchezza che non fa i conti con i costi ecologici e sociali dello sviluppo.”[24] Nel fare ciò mette il dito sulla piaga delle produzioni inutili o addirittura dannose, che rientrano ovviamente nel calcolo del Prodotto Interno Lordo: armamenti, pubblicità articoli di lusso etc.
“Non si tratta di insegnare il comportamento ideale e nemmeno di colpevolizzare i singoli atti consumistici. La sfida più importante sta piuttosto nella capacità di mettere in campo delle differenti pratiche sociali, relazionali, simboliche. evocative, più ricche umanamente e socialmente, alla fin fine più desiderabili.
[…] Questo significa anche ricostruire forme di legame con i territori, valorizzando le risorse e i beni locali, le reti di economia sociale e solidale, rispondendo in primo luogo alle necessità della comunità locale e dell’ambiente e non a quelle del mercato. Il territorio è, per noi, la dimensione appropriata da cui ripartire per costruire una maggiore partecipazione e un reale decentramento: in altre parole per favorire l’autonomia, ossia la possibilità per ciascuno di definire in modo partecipato norme e regole di governo economico e sociale delle comunità. Un’utopia dunque? Un’utopia forse sì, ma un’utopia concreta. Due scenari sembrano infatti profilarsi all’orizzonte, quello di una decrescita reale, necessaria, subita, fatta di razionamenti imposti ai più
poveri e foriera di prevedibili involuzioni autoritarie, come è del resto già accaduto negli Venti e Trenta del secolo scorso, a seguito dei fallimenti del liberismo ottocentesco, e quello, invece, di una decrescita condivisa, sostenibile e responsabile che al contrario può dischiudere grandi opportunità per la democrazia e l’autogoverno delle società. Vi chiediamo di unirvi a noi per aiutarci a fare sì che sia la seconda, e non la prima, l’alternativa entro cui possa confluire il corso della storia del XXI secolo.”[25]
L’accento è fortemente anticapitalistico, ma i problemi, dal nostro punto di vista, sono tanti. Prima di tutto, al di là della dichiarazione di non voler colpevolizzare i singoli comportamenti, in realtà la responsabilità del cambiamenti, più che ad una radicale revisione del sistema, si orienta verso una modifica dell’etica dei gruppi locali formati di pochi individui spesso impotenti di fronte alle scelte generali. Secondariamente, se
l’Occidente industrializzato è malato di crescita, la grande maggioranza della popolazione mondiale vive sotto i limiti di povertà: se è vero che la crescita del PIL della Francia poco aiuta i diseredati del quarto mondo, è anche vero che per essi la decrescita è uno slogan senza senso. Va poi considerato che dismettere alcune produzioni (francamente inutili e dannose) in assenza di un cambio globale di sistema economico, produce solo ulteriori disoccupati, e quindi decrescita sì, ma dolorosa.
Infine la critica più teorica. La teoria della decrescita è a parole “anticapitalistica”, ma perché identifica “capitalismo” con “capitale”. Ora non c’è società umana priva di capitale (umano, di mezzi di produzione, di infrastrutture, di Welfare). Il problema del capitalismo non è il capitale, ma il suo utilizzo, la sua gestione in regime di proprietà privata, in ultima analisi il “profitto” e non la sua utilizzazione sociale. Sulla proprietà
privata e sul profitto la teoria della decrescita nulla ha da dire.
Pensare oggi a una “ricetta” per uscire dalla crisi che non abbia respiro globale, che non si faccia carico delle necessità del miglioramento delle condizioni di vita alimentare, sanitaria, di sicurezza sociale per tutte le aree del pianeta significa riproporre soluzioni destinate a fallire allor quando esse impattano con i bisogni insopprimibili del resto del mondo, che, deprivato di ogni prospettiva, cercherà di migrare verso le aree ricche
del pianeta, né potrebbe fare altrimenti.
8.2. L’economia neocurtense
L’economia neocurtense si caratterizza per l’esistenza sul territorio di aggregati, o di “isole”, organizzati economicamente in modo da sottrarsi alla notevole pressione fiscale esercitata dallo Stato visto come depauperizzatore della ricchezza prodotta per voler distribuire il reddito sui suoi territori. Queste “isole” si sviluppano spesso a latere dei comprensori e si appoggiano sulla loro specializzazione e sulle capacità dei
comprensori stessi di fare rete, anche se affermano di essere autosufficienti. Spesso queste “isole” ospitano al loro interno e a margine aree dormitorio di immigrati che vengono sfruttati a livelli insopportabili mediante le locazioni. Le spese di insediamento sul territorio, fornite dalle amministrazioni locali, sono spesso con standard di qualità inferiore ai servizi destinati agli abitanti autoctoni. In tal modo gli immigrati sostengono il modello economico con il loro reddito e con il versamento dei contributi sociali, ma vivono una situazione precaria e possono essere espulsi in qualsiasi momento.
I produttori piccoli e medi ma anche i titolari di insediamenti a carattere multinazionale preferiscono codeterminare e sottomettersi alle forze locali che gestiscono uno specifico territorio per sfuggire agli oneri di natura economica contratti verso lo Stato. Il rapporto tra grandi multinazionali e piccoli e medi produttori trova fondamento nell’interesse dei primi a utilizzare soggetti sui quali scaricano i costi generali della produzione e la gestione della forza lavoro in cambio di una partecipazione al profitto. La possibilità per le multinazionali di recidere in ogni momento il rapporto grazie all’intercambiabilità delle aree e alle tecniche di delocalizzazione, pone in una posizione di perenne sottomissione le aziende di dimensioni medio piccole[26].
L’economia neocurtense caratterizza così progressivamente le aree a gestione diretta del territorio e si segnala per l’assenza di cataloghi universali di valori, in quanto rinviene nel localismo e nella “chiusura” della gestione dei rapporti sociali e produttivi, l’elemento fondante di una identità altrimenti inesistente. Esponenti della classe dirigente, che gestisce i territori, diventano i referenti per l’attribuzione di agevolazioni da parte delle entità di governo delle grandi aree produttive (Europa, Nord America Cina, India, etc, per esemplificare), traducibili in esenzione da particolari tasse o balzelli, secondo una scala differenziata di accesso ai privilegi che gioca gli uni contro gli altri. I gestori di questi territori diventano il vero e proprio arbitro della situazione,
esercitando direttamente sui loro “possedimenti” il controllo fiscale, giuridico, militare e politico e dando vita a un’economia di sussistenza, caratterizzata da una contrazione della domanda.
Si crea sul territorio un reticolo di aree a gestione autonoma e tuttavia le aree di sviluppo e di sottosviluppo si intersecano e si scambiano nel tempo. Benché si tenda a produrre il più possibile all’interno di ogni singola zona o area territoriale in un’ottica di autoconsumo non si tratta di una economia chiusa. C’è bisogno di commercio e di scambi soprattutto in una struttura produttiva come quella descritta nella quale esistono specializzazioni e nicchie produttive. Perciò le vie di comunicazioni devono essere molteplici ed efficienti (corridoi tipo val di Susa) e questo vale soprattutto per il trasporto e la distribuzione di energia ma anche per le merci. La contiguità frequente con i distretti fa il resto.
La natura di queste cellule produttive autonome, di questi territori, dal punto di vista istituzionale assume il volto di piccole patrie che trovano una loro ricomposizione in entità sovranazionali di dimensioni continentali, gestori della forza militare che ha funzioni di polizia interna all’area, più che di difesa esterna. Il modello descritto è comunque un modello miope, perché, come già sottolineato, alla lunga si rendono sterili i mercati. Un primo segnale viene dall’incapacità del modello di reggere il sostentamento dei soggetti deboli, anziani e malati, che riversano sul volontariato il peso del loro mantenimento o cercano rifugio in aree dell’Est Europa dove mettere meglio a frutto l’ammontare delle loro pensioni.[27]
8.3. Le divisioni etniche
Nel quadro suddetto il sorgere di ostilità tra appartenenze linguistiche, religiose, consuetudinarie diverse, che appaiono a chi le pratica l’orgogliosa affermazione della propria identità e della propria autonomia, risultano essere invece, in ultima analisi, funzionali alla visione del mondo che il capitalismo ha fin ad oggi praticato. Dalla “fine della storia”[28], con la caduta del muro di Berlino e la nascita del mondo unipolare, con
la proterva imposizione di un pensiero unico, sono sorti nuovi Stati quanti altri mai in un lasso di tempo analogo; tutti frutto di divisione di entità nazionali fino ad allora convissute in una onorevole armonia.
A questo aspetto fa da apparente controaltare la civiltà realmente multietnica che i forti flussi migratori determinano non più solo nella grandi capitali, ma anche nei piccoli paesi. Le “isole della purezza” vengono contaminate dalle culture più distanti che si possano immaginare. Ma ciò non rappresenta una contraddizione.
Prima di tutto perché l’afflusso di manodopera a basso costo riempie i vuoti lasciati nei mestieri più faticosi e meno appetibili e, soprattutto, calmiera il costo del lavoro; a beneficio di coloro che agitano le acque della preservazione dell’identità culturale di un territorio. Poi perché contribuisce a formare l’immagine di un nemico invasore, venuto a rubare il posto di lavoro o a delinquere; così le classi subalterne hanno un falso obiettivo su cui sviare la propria ostilità. C’è quindi un ritorno sia economico, che politico.
8.4. La politica sociale delle religioni del libro
Come per uscire dalla crisi del 1929 c’è stata una deriva collaborazionista tra capitale e lavoro (costituita dal fascismo e dal nazismo), anche ora esistono soluzioni di questo tipo ben rappresentate dalle “dottrine sociali” di alcune religioni, in particolare di quelle cosiddette del libro.
I precetti sociali dell’ebraismo hanno subito una notevole trasformazione a causa della nascita dello Stato di Israele, che ha fatto si che le attività delle comunità e delle lobby ebraiche fossero indirizzate al sostegno di questo stato e della sua economia. L’effetto è stato quello della distruzione della cultura ebraica, della solidarietà che ha origini veterotestamentarie e si concretizzava nella remissione dei debiti dopo sette anni e nel
ripristino quindi dell’uguaglianza nelle condizioni di vita reale. Questa pratica arcaica, sopravvissuta nella cultura del ghetto come un frammento culturale di una concezione solidale della vita di relazione, spiega l’adesione di molti provenienti dalla cultura ebraica nei movimenti di classe di sempre.
L’Islam ha invece ereditato strutture di solidarietà dall’esperienza romana e bizantina e ha poi trasformato questi istituti. Tra i cinque pilasti dell’Islam figura una tassa obbligatoria – la Zakat – affiancata da enti tipo fondazioni – i Waqf – dediti alla protezione del popolo dei credenti attraverso la corresponsione di servizi di carattere sociale. Nell’islamismo classico questi istituti, oggi sopravvissuti, anche se parzialmente mutati nella loro struttura giuridica, si accompagnavano in ambito bancario al divieto della corresponsione dell’interesse in cambio del mero passaggio del tempo (divieto dell’uso del conto corrente, ad esempio). Al posto del prestito che poteva dar luogo all’usura gli istituti bancari islamici stipulavano e stipulano contratti di associazione nell’investimento tra le banche – il capitale finanziario – e le imprese (il cliente). Il fondamentalismo religioso islamico deve alla sua proposta economica relativa al sistema bancario e del credito, molto simile al modus operandi delle banche tedesche, buona parte del suo successo a livello di “messaggio sociale”.
Ne è da meno nel proporre una propria visione dell’economia il cristianesimo, e in particolare il cattolicesimo, attraverso la sua dottrina sociale, incentrata sulle famiglie, su una società modulare e corpuscolare, caratterizzata dalla negazione e dal superamento del conflitto tra capitale e lavoro, strenua sostenitrice della cogestione delle imprese. Come si vede un programma sociale non molto lontano dalle
teorizzazioni e dalle pratiche della CISL in Italia. La politica di cattolica oggi in realtà si articola nel richiedere il sostegno alle famiglie più che agli individui, in una forte presenza nel volontariato sociale, pesantemente finanziato attraverso fondi pubblici, nella ricerca in tutti i settori e soprattutto a livello scolastico, di rapporti di sussidiarietà con lo Stato e i poteri pubblici. Ne risulta un privato sociale ideologicamente caratterizzato e condizionato dalle appartenenze religiose.
Da qui una convergenza nei fatti dello schema religioso cattolico di gestione dei rapporti sociali e produttivi e quello dell’economia neocurtense; prova ne sia che i movimenti politici che sostengono quest’ultimo modello sono fortemente percorsi dall’appartenenza religiosa cattolica, la dove la religione e i suoi simboli vengono intesi come un marcatore culturale del territorio.
Il ruolo economico delle religioni, la loro proposta di sistema economico finanziario e di gestione sociale andrebbe oggi più attentamente indagata. Inoltre i modelli sociali e culturali religiosi di gestione dei rapporti tra capitale e lavoro impongono al movimento operaio e a tutti i lavoratori subordinati, a causa della generale subordinazione al capitalismo, il rigoroso rispetto del principio di laicità e la separazione tra Stato e confessioni religiose di ogni tipo.
8.5. Localismo contro globalizzazione
Le risposte locali alla globalizzazione sono illusorie, quando non sono ad essa funzionali. Prima di tutto perché il mercato globale non è un’invenzione artificiale, ma l’evoluzione di una tendenza intrinseca allo sviluppo del capitalismo; tra l’altro iniziata col capitalismo stesso. Il capitale finanziario, poi, ha sempre conosciuto un’estrema mobilità, facilitata ed accentuata nello scorcio dello scorso secolo dalle innovazioni
tecnologiche. I territori vengono attraversati dalla globalizzazione con moti alterni, come un’onda e la sua risacca.
E qui interviene il secondo punto. Pensare che sia un’economia locale quella che può fare da argine all’estendersi dei mercati non solo è perdente, ma facilita la mobilità degli investimenti, rendendo inoperanti vincoli di solidarietà tra classi subalterne di territori diversi. Mentre il capitale finanziario accentua la propria vocazione internazionalista, l’internazionalismo non rientra più nell’immaginario degli sfruttati.
[24] In Per un Manifesto della Rete italiana per la Decrescita. http://www.decrescita.it/joomla/index.php/chi-siamo/manifesto-.
[25] Ivi.
[26] Lo sviluppo imprenditoriale delle economie locali. I comprensori del Medio Valdarno Inferiore, di Ponsacco e di Empoli. Crescita e sviluppo regionale: strumenti, sistemi, azioni, (a cura di Dino Borri e Fiorenzo Ferlaino), Franco Angeli, Milano 2009. PACE G., Crescita e sviluppo regionale: strumenti, sistemi, azioni, Franco Angeli, Milano 2010.
[27] L’inchiesta commissionata nel 2009 dalla regione veneta sulla presenza dei veneti in Romania si è sviluppata soprattutto sull’emigrazione storica svoltasi a partire dagli inizi del 1900 e non si è soffermata su quella recentissima di pensionati, tuttavia
testimoniata da messaggi sulla rete relativi alle modalità di trasferimento della pensione in Romania a causa di un avvenuto trasferimento della residenza.
[28] FRANCIS FUKUYAMA, The End of History and the Last Man, Penguin, 1992; trad. it., La fine della storia e l’ultimo uomo, Rizzoli, Milano 1992.