10. L’uscita dalla crisi

Ogni giorno viene annunciato un miglioramento della congiuntura. Il 2010 è stato meglio del 2009, si dice; ma non si dice che il 2009 ha registrato una caduta talmente profonda, che un minimo rimbalzo era ben prevedibile. Si dice anche che gli ordini sono cresciuti, salvo poi scoprire che il mercato è ancora in calo. Per anni lo stentato tenore dell’economia mondiale ha vissuto nell’eterna speranza di un’esplosione positiva,
perennemente dietro l’angolo. Ora dietro l’angolo ci sarebbe la ripresa, sempre poi rimandata per motivi contingenti, che, guarda caso, puntualmente vanificano le speranze disseminate.

10.1. Deve cambiare il paradigma
Una cosa è certa. I rimedi che vengono attualmente proposti forse possono servire a lenire gli affanni maggiori, localmente e momentaneamente, ma sicuramente non permettono il riprodursi di un nuovo ciclo espansivo. Anche quegli Stati (non l’Italia) che hanno immesso risorse pubbliche nel sistema economico, invertendo quelli che sono i dettami del neoliberismo, lo hanno fatto per la maggior parte per mettere in sicurezza i conti degli istituti bancari; solo in alcuni casi le risorse sono arrivate direttamente alle aziende produttive. E questo significa, in realtà, mettere benzina sul fuoco, alimentando quel settore del capitale che è all’origine dei mali attuali.
Il problema che allo scoppiare della crisi del 1929 un nuovo paradigma economico era già predisposto e bastava solo rendersi conto che quella era la strada da battere per invertire la congiuntura. Nel 2007 la situazione era completamente diversa. Esiste una pletora di proposte alternative al monetarismo, ma nessuna ha l’ossatura di un autentico nuovo paradigma teorico. Un ritorno indietro al keynesismo è improponibile ed il capitale è cieco e diviene quindi estremamente difficile fare previsioni sulle vie e sui tempi di uscita dalla crisi.
Quello che è possibile vedere ora è solo il perpetuarsi dei conflitti intercapitalistici per il controllo delle materie prime; fonti energetiche, prodotti alimentari, materiali strategici, materie prime, tecnologie, etc. Ad esempio, gli Stati Uniti hanno fallito il tentativo di controllare totalmente il Medio Oriente, soggiogando Irak e Afghanistan, per isolare l’Iran e poi conquistarlo; hanno constatato che il petrolio del Mar Caspio non è in
grado di soddisfare i fabbisogni, per le difficoltà connesse alla gestione dell’oleodotto che porta a Cehyan a causa delle turbolenze dell’aerea interessata dall’attraversamento; si sono resi conto che il prezzo del greggio punta a salire per la fame d’energia crescente dell’economia emergente cinese; allora non è strano che
appuntino i loro interessi sulla sponda sud del Mediterraneo, un tempo terreno di approvvigionamento privilegiato dei paesi europei. Tra l’altro la situazione nordafricana è per gli Stati Uniti un’ottima occasione per rimettere piede nel continente per tentare di arginare il dilagare della presenza cinese, un’occasione che non si ripresentava dagli anni novanta, quando fallì il tentativo di insediarsi nella dissoluzione della Somalia.

10.2. La lezione del passato
Il recente passato ci conferma ciò che doveva essere chiaro già da un secolo e mezzo: il mercato non è un regolatore automatico del ciclo economico; la concorrenza non genera benefici ai consumatori e non aiuta nuovi imprenditori ad affacciarsi alla produzione; il capitale finanziario non è in grado di gestire una strategia di sviluppo a medio e lungo periodo. Quando sopra si è detto che nella estrema finanziarizzazione dell’economia è da ricercare l’origine della crisi che stiamo attraversando non si intendeva dire che questa è una crisi finanziaria, ma solo che l’attuale crisi di sovrapproduzione trova la sua origine nella particolare concezione che il capitale finanziario ha della gestione della produzione e del profitto.
Con la crisi del 2008 è finita l’ubriacatura delle deregolazioni, degli Stati leggeri, delle privatizzazioni, delle agenzie di rating, delle incursioni speculative, delle crociate antinflazionistiche, delle monete forti, dello strapotere bancario. O meglio tutto ciò dovrebbe essere finito se il capitalismo si rendesse conto che quella sinora battuta è una strada senza via d’uscita. Dalla Cina occorrerebbe imparare che non c’è futuro se non entra in vigore un controllo globale della congiuntura economica e se non si ricostituiscono nelle zone produttive delle strategie di sviluppo in cui incanalare gli investimenti. C’è la sensazione, invece, che la lezione che il padronato intende importare dall’Estremo Oriente è proprio la parte transeunte del suo modello, quello delle condizioni di ipersfruttamento della forza di lavoro. Come detto, questo per la Cina è un passaggio capitalisticamente necessario per costituire l’accumulazione primitiva, fase che l’Occidente industrializzato ha già superato da molto tempo e che riproporre ora, nella speranza di allargare il profitto, è pura miopia imprenditoriale.

10.3. Riaprire la dialettica capitale-lavoro
I manager cresciuti negli anni ottanta hanno fatto del risparmio della forza di lavoro, della compressione dei salari, della distruzione del Welfare e della precarizzazione dei lavoratori un credo assoluto e indiscutibile.
Marchionne non è un isolato battitore, ma ricalca quanto già fatto da altri in altri paesi. Il problema è che il capitale ha cercato per più di un secolo le strade per allargare il mercato oltre i limiti che naturalmente lo recintavano in un dato momento storico. Il colonialismo è stata la prima risposta; poi i salari operai passarono dall’essere un costo di produzione ad essere una risorsa di mercato. Fu così che fette crescenti di popolazione videro aumentare i propri livelli di vita e ebbero accesso a consumi precedentemente impensabili; ciò non fu frutto di filantropia, ma preciso calcolo imprenditoriale e la pubblicità assurse al ruolo di impegno centrale per ogni impresa che volesse affacciarsi al profitto.
In quella visione la lotta sindacale non era solo antagonismo sociale e ginnastica rivoluzionaria, come la intendeva l’avanguardia di classe, ma anche fattore di ristrutturazione del capitale e motore della sua crescita.
Trent’anni di monetarismo hanno oscurato tutto questo. Ma se oggi i mercati interni non vengono rivitalizzati, se l’immenso fiume di denaro che molti governi hanno immesso nei propri sistemi economici vanno al salvataggio delle banche e non ai consumi dei cittadini, lo sbocco delle merci che verranno prodotte non verrà trovato né nei mercati interni, né in quelli esteri altrettanto depressi. I sindacati aziendali della Chrysler hanno
accettato di produrre con salari più bassi e, soprattutto, con salari differenziati al peggio per i neo assunti, nella speranza che una ripresa delle vendite riporti ossigeno alle casse della ditta, profitti nuovi di cui i lavoratori usufruirebbero, avendo una compartecipazione agli utili. Ma se le vendite non ci saranno il sacrificio fatto non
servirà a nulla.
Per l’Italia, ad esempio, gli accordi separati, l’esclusione di fette di lavoratori dai tavoli della trattativa per garantirsi accordi vantaggiosi, il ricatto occupazionale legato alla minaccia di delocalizzazione, il persistere nella trasformazione dei posti di lavoro a tempo indeterminato in posti di lavoro “flessibili”, la continua erosione delle stato sociale, continuano ad affondare le possibilità di ripresa e se ne è accorto anche il
Governatore delle Banca d’Italia, Mario Draghi. Il capitale non ha una via d’uscita se non riapre una positiva dialettica con i lavoratori, indipendentemente dai ragionamenti etici sulla equità sociale.

10.4. L’alternativa è il gorgo della recessione e l’emergere della Cina
I rimedi oggi in campo per superare la crisi sono inadeguati, anzi tendono a perpetuare, aggravandola, la situazione, perché non fanno altro che riproporre gli schemi economici che l’hanno prodotta. La nuova potenza cinese, che ormai cresce da anni a ritmi superiori a tutti i concorrenti, fornisce indicazioni utili, ma occorrerebbe che se ne sfruttassero le indicazioni precorribili, lasciando perdere quelle improponibili e di corto
respiro; peccato che si faccia esattamente il contrario.
Cerchiamo ora di abbozzare quella che potrebbe essere una possibile uscita tutta capitalistica dalla crisi e per farlo si riparte dallo schema del II capitolo, rivedendo la quarta riga, perché la vecchia non si è realizzata per l’esplodere della crisi. La nuova fase che dovrebbe aprirsi presenta per lo meno due incognite. Non c’è una tecnologia nuova in grado di far ripartire il ciclo, come fu il tessile per la prima rivoluzione industriale, la chimica per la seconda e l’elettronica per la terza. Ma soprattutto, come più volte detto manca una teoria in grado di stabilizzare il governo del sistema.
Un ciclo produttivo così disperso territorialmente favorisce l’illusione di un risparmio sul costo del lavoro, ma aumenta a dismisura i costi della logistica, sia per la costruzione delle necessarie infrastrutture, sia per i trasporti di collegamento (come l’eresia di assemblare a Torino pezzi prodotti a Detroit, per riportarvi successivamente i prodotti finiti), questa insensatezza dovrebbe trovare un ridimensionamento e comportare
una parziale ricomposizione del ciclo.
Non sembra matura una fase di allentamento degli oligopoli, che però dovrebbero iniziare a rispondere a logiche industriali e non puramente finanziarie. Questo dovrebbe far riemergere una struttura produttiva meno disseminata e meno soggetta a pressioni da depauperamento provenienti dalle aree di sottosviluppo che circondano i corridoi; l’esperienza dell’oleodotto Baku-Cehyan dovrebbe fare scuola; così come dovrebbero far riflettere le incertezze legate alle instabilità politiche dei territori di produzione delle materie prime, dovute alle ineguaglianze sociali alimentate dai regimi autoritari legati alle multinazionali. Dai poli di concentramento delle produzioni lo sviluppo dovrebbe lentamente diffondersi ai territori limitrofi ed alle aree attraversate dai corridoi.
Tecnologia Produzione Mercato Struttura Controllo

Tecnologia Produzione Mercato Struttura Controllo
2.1. Fino agli anni ‘70  elettromeccanica fordismo oligopoli stato-nazione moneta
2.2. Dagli anni ‘80 sei tecnologie ciclo frammentato competizione per segmenti
reticolo di aziende
aree omogenee  ?
2.3. Nuovo secolo  finanza ciclo frammentato concentrazione
oligopolistica
sviluppo
neuronale
authority
2.4. Un nuovo ciclo? ? parziale
ricomposizione
concentrazione
oligopolistica
irraggiamento
dello sviluppo
governi
sovranazionali

Infine è necessario ricostruire un controllo complessivo di sistema, almeno per vaste aree, onde evitare incursioni speculative che lasciano solo deserto produttivo. Ne risulta il quadro sottostante.
A noi non spetta tracciare una via d’uscita per il capitalismo in crisi, spetta solo prevederne, se possibile, le mosse. Queste delineate sono quelle di buon senso che comportano, nella rivitalizzazione dei mercati interni (nuovo Welfare, salari crescenti, occupazione stabile), la possibilità di un nuovo ciclo espansivo. Il perpetuare manovre recessive porta tutti verso un vortice depressionario di cui non si intravede la fine.