…perseverare diabolicum

Sinceramente mi aspettavo che dopo la bocciatura da parte della Corte Costituzionale della legge da lui redatta si sarebbe chetato e non avrei mai supposto di rivedere un articolo dell’esimio prof. Roberto D’Alimonte, ed invece no, il giocondo personaggio si è rifatto inopinatamente vivo con un suo ponderoso articolo sul “Il sole 24 ore” (martedì 9 maggio 2017, a. 153, n. 121, p. 11), in cui dall’alto della propria sicumera bacchetta la suddetta Corte, a suo dire incoerente e superficiale.
Prima di tutto chi è il personaggio sotto attenzione. È l’autore della meravigliosa legge elettorale, quella che secondo il facondo valdarnotto tutti gli altri paesi ci avrebbero copiato, il cosiddetto “Italicum”, che finito al vaglio di costituzionalità è stata miseramente affondato al punto che nessuno ne rivendica più la paternità tranne lui, l’intrepido Roberto. È vero che il nostro si era già prodotto a suo tempo in spassose performance, come quando sul medesimo giornale sostenne che con la sua legge che prevedeva i capilista bloccati (aspetto sopravvissuto alla forbice della Corte Costituzionale), in parlamento i deputati nominati sarebbero stati solo 100, dato che 100 era le circoscrizioni. Al nostro eroe sfuggiva che in ogni circoscrizione le liste che ottenevano rappresentanti erano più di una, facendo così salire notevolmente il numero degli eletti direttamente collocati al primo posto della lista elettorale direttamente dalle rispettive segreteria. Fino al caso limite di un partito che ottenendo solo un eletto in ciascuna circoscrizione, risultava così composto da soli fedelissimi. Come detto, la
Corte Costituzionale ha salvato i capilista bloccati, ma ha cassato il ballottaggio tra i due partiti risultati primi al primo turno e che non abbiano raggiunto la soglia del 40%.
L’intemerato professore parte all’assalto della sentenza della Corte, facendo leva sul risultato delle elezioni francesi che hanno visto prevalere Macron su Le Pen “salvando” la Francia, e forte del “principio della uguaglianza del voto”; principio a suo dire sancito dal secondo comma dell’art. 48 della Costituzione. “Il voto è personale ed eguale, libero e segreto.” E qui cominciano i bizantinismi: occorre, dice D’Alimonte, distinguere
tra voto in ingresso (per il volgo, primo turno) ed il voto in uscita (per i profani, secondo turno). Da dove discenda questa distinzione non è dato sapere, ma tanto basta per l’assalto alla sentenza della Consulta: questa ha “malamente” utilizzato i principi costituzionali; “l’uguaglianza del voto in uscita … è un concetto confuso”; è “frutto di un pregiudizio proporzionalistico”; denuncia da parte della Corte la mancata conoscenza “della moderna teoria della democrazia”; e chi più ne ha più ne metta. C’è, per la verità, nell’articolo un momento di resipiscenza, quando il funambolo mentale si accorge che nelle elezioni francesi il doppio turno riguarda l’elezione del Presidente della Repubblica, mentre in Italia la sua discussa legge riguardava l’elezione della Camera dei Deputati e, bontà sua, riconosce che “la differenza è ovviamente rilevante”, salvo poi dimenticarsi di questa rilevanza e procedere per tutto il resto dell’articolo come essa non esistesse. Sul punto è il caso di tornare, ma prima è bene chiarire i punti deboli del ragionamento del prode accademico.
Prima di tutto il profondo conoscitore della moderna teoria della democrazia scambia l’uguaglianza dell’espressione del voto, sancita dalla Costituzione, con la rappresentanza che da detto voto deve scaturire nell’assetto di qualsiasi democrazia borghese. Come garantire ad esempio rappresentanza ad un partito che colleziona lo 0,2% dei voti validi? Infatti la presunta d’alimontiana uguaglianza del voto (uno vale uno) non ha mai dato adito ad una totale rappresentanza di ogni voto espresso, neppure nel proporzionale totale vigente in Italia prima dello sventurato avvento del principio maggioritario, tant’è che se una lista non otteneva il quorum per eleggere un deputato in almeno una circoscrizione tutti i suoi voti andavano persi, come successe al PSIUP nel 1972 che vide vanificati 648.571 voti ottenuti. Ovviamente meno rispettosi del voto uguale, nell’accezione datole dall’illustre articolista, sono i sistemi maggioritari: il sistema statunitense che recentemente ha portato alla Presidenza il candidato che ha preso 1.000.000 di voti in meno della rivale, come già successe per il primo mandato di Bush jr. ottenuto contro Al Gore; il sistema britannico in cui un partito che ottiene oltre il 20% dei voti gode di una rappresentanza del tutto inadeguata.
La distinzione di voto in entrata e voto in uscita, il coniglio nel cappello dell’avventuroso estensore, è capziosa non solo perché anche il voto “in entrata” non rispetta l’uguaglianza vantata, ma anche perché il voto “in uscita”, per sua natura, è concepito proprio per permettere che un elezione avvenga, cioè che il voto abbia un esito; è quanto succede nei collegi uninominali, dove al primo o al secondo turno deve risultare un deputato.
Che questo non rispetti l’uguaglianza del voto è vero sia “in entrata” e sia “in uscita” è ben noto e non è chiaro come ciò possa turbare così profondamente l’autore della legge renziana, che a mia memoria mai ha sollevato tale problema quando nel nostro paese vigeva il sistema dei collegi. Non è pure chiaro, tra l’altro che differenza ci sia se un candidato viene eletto al primo turno perché risultato vincente al primo turno con il 23% dei voti, oppure vincente al secondo con il 60%: è solo una chanche ulteriore al secondo classificato, e non scalfisce il fatto che chi viene eletto gode comunque di un consenso minoritario ed il vulnus all’uguaglianza del voto sarebbe ancora più clamorosa se l’elezione fosse avvenuta, come in Gran Bretagna o in Italia con il cosiddetto “Mattarellum”, direttamente al primo turno.
Torniamo ora al punto dirimente, già evidenziato, tra elezione del Presidente e l’elezione della Camera dei Deputati. È un fatto che il sistema del doppio turno, dove vige, vige solo per l’elezione del Presidente in un sistema presidenziale, cioè al responsabile dell’Esecutivo. Nelle elezioni della camera delle rappresentanze, il doppio turno è in vigore solo per i collegi, ma mai per l’intero parlamento. Cosa significa ciò? Significa, caro Roberto, che il doppio turno a livello locale non si estende a tutto il territorio e consente un pluralismo rappresentativo a livello nazionale, che invece il doppio turno previsto dall’Italicum non avrebbe in alcun modo consentito. L’acuto docente dovrebbe conoscere Montesquieu, e quindi la distinzione tra potere esecutivo e potere legislativo. È questa distinzione che rende improponibile un doppio turno nell’elezione dei deputati, in un sistema in cui il potere esecutivo promana direttamente da quello legislativo. In effetti nei sistemi presidenziali i contrappesi non garantiscono al Presidente eletto il controllo della camera della rappresentanza popolare: elezioni di metà mandato negli USA; elezioni della camera diverse da quelle presidenziali in Francia, tant’è che Macron dovrà cercarsi una maggioranza nel prossimo parlamento. Il problema vero, quindi, è che nel sistema predisposto da D’Alimonte il potere esecutivo e quello legislativo finivano per coincidere, auspice anche la prevista e fortunatamente sventata abolizione del Senato, con una distorsione profonda dei poteri e dei contropoteri, che forse sarà in linea con “le moderne teorie della democrazia”, note al nostro, ma molto preoccupante per coloro che alla democrazia davvero tengono.

Saverio Craparo