Il monitarismo: svolta necessaria o funzionale?

Gli anni settanta del secolo scorso vedono un drastico mutamento nell’assetto delle teorie economiche utilizzate a livello macroeconomico: dopo la crisi del 1929 la teoria di politica economica di riferimento era quella di Keynes, mentre in quegli anni, appunto, gradualmente prende piede il monetarismo, che, nel declinare del decennio dilaga ovunque (accademia, governi, istituzioni internazionali, etc.) per divenire rapidamente il
paradigma unico dell’azione di conduzione del sistema mondiale. La domanda da porsi è quella annunciata nel titolo: questo cambiamento risponde solo ad un’insufficienza del modello keynesiano preesistente non più in grado di rispondere alle nuove sfide poste all’economia internazionale, oppure dietro di esso si nasconde un’esigenza politica delle classi dominanti? Il quesito non è banale, né tanto meno facile da districare; i fattori da analizzare sono molteplici, intersecantesi, a volte criptati. Quello che segue è solo un tentativo per dare una risposta parziale al quesito posto.

1. La situazione all’inizio del decennio
Ricostruire il contesto in cui la svolta è stata effettuata costituisce il primo necessario adempimento. Poiché le teorie neoclassiche hanno percorso sotterraneamente tutto il periodo keynesisno, riemergendo in quegli anni negli Stati Uniti d’America e da lì si sono irradiate, prima sperimentalmente nel Cile di Pinochet e poi nel resto del globo a partire dall’intesa tra Ronald Reagan e Margaret Tatcher, due alfieri del conservatorismo politico, l’analisi terrà ovviamente particolarmente conto della situazione interna degli Usa.

1.1. La congiuntura
Il decennio che nasce keynesiano e muore friedmaniano, è contrassegnato all’inizio da due eventi molto rilevanti. Il 15 agosto 1971 Nixon annuncia la non convertibilità del dollaro in oro e il 6 ottobre 1973 scoppia tra Israele e gli stati arabi la cosiddetta guerra del Kippur.
La scelta statunitense sanciva la fine dell’assetto monetario internazionale, scaturito dagli accordi di Bretton Woods del 1944, che facendo perno sul dollaro garantito in equivalente aureo, aveva regolato gli scambi commerciali del secondo dopoguerra. Il contraccolpo sulle altre valute fu duro, ma in realtà la natura economica degli Usa cambiava profondamente: da paese industriale ed esportatore di merci si trasformava in centro della finanza internazionale. Poco dopo la bilancia commerciale degli Stati Uniti sprofondava in un deficit irreversibile che dura tutt’oggi. (fig. 1).

fig. 1 [1] (vedi PDF)

La guerra dello Yom Kippur, con la conseguente scarsità di petrolio e le scenografiche domeniche a piedi, fu presentata come la grande crisi economica, ma da noi subito classificata come crisi indotta di ristrutturazione [2]. I dati confermano che non fu vera crisi: il PIL mondiale continuò a crescere a ritmi superiori al 4% annuo fino al 1985; il
commercio internazionale continuò la sua corsa vertiginosa; la produzione industriale non conobbe stasi. Se la libera oscillazione delle monete, conseguente alla scelta di svincolare il dollaro dalla parità aurea, fece salire il valore del dollaro, questa circostanza penalizzò i paesi importatori di petrolio, ma, come detto, affossò la
bilancia commerciale statunitense.
Gli anni settanta furono testimoni di altri fatti memorabili. L’11 settembre 1973 il governo Allende fu destituito con un colpo di Stato dei militari, con a capo il generale Pinochet, coadiuvati dai servizi segreti statuniteni. Il fatto è importante perché la giunta militare avviò il primo esperimento di politica monetarista su scala mondiale, ovviamente sempre sotto la regia Usa, ed è interessante rilevare che il golpe cileno precede di circa
un mese la guerra arabo-palestinese, scardinando l’ipotesi che la “crisi” petrolifera fosse la spinta per il cambio di paradigma economico di cui stiamo trattando.
Inoltre il 30 aprile 1975, con la caduta di Saigon, aveva termine l’avventura statunitense nel sud-est asiatico.
Mai l’amministrazione Usa era stata tanto impopolare nel mondo, ma soprattutto il paese d’oltre oceano aveva sopportato dei costi bellici di notevole entità: dal 1949 al 1975 il costo diretto della guerra in Indocina ammontò ufficialmente a 164 miliardi di dollari. Tale impegno economico fu causa non ultima delle difficoltà della congiuntura statunitense, anche se sul problema degli effetti delle spese militari converrà tornare in seguito.

1.2. L’economia Usa
Nonostante quanto detto circa l’enorme esborso di risorse messo in atto per finanziare l’avventura indocinese, volta a fermare l’avanzata verso sud della Cina ed arginare il diffondersi delle alleanze dell’URSS nell’Asia meridionale, l’economia degli Usa negli settanta non sembra aver subito particolari traumi; i costi dello sforzo bellico venivano distribuiti in termini di inflazione sui paesi alleati, grazie alla manovra sulla collocazione del dollaro nel mercato ordinario delle valute. Il Pil ha continuato a crescere, come visto, a ritmi sostenuti e così la produzione industriale; anche l’occupazione non ha subito scosse negative, anzi nel ventennio tra il 1970 ed il 1992 è cresciuta del 49% contro il misero 9% dell’Unione Europea [3].
Sono due le novità che si configurano nell’arco degli anni settanta. Inizia il balzo dei redditi da capitali, cioè delle rendite finanziarie derivanti dal mercato azionario, che in quel decennio triplicano, per conoscere poi dei balzi prima imprevedibili: da circa 25 mld di dollari nel 1970 a circa 75 mld nel 1979; raggiungono il picco di 350 mld nel 1986. poi calano a 125 mld nel 1991, anno in cui ricominciano a crescere senza sosta toccando i
550 ml nel 1999 [4].
L’altro fatto di notevole interesse, cui si è già accennato, e l’andamento della bilancia commerciale, che entra in zona negativa per non uscirne più: ciò avviene proprio alla fine del decennio, a svolta conclusa, prima con un saldo lievemente negativo per sprofondare in un rosso profondo a metà degli anni ottanta ed ancora più
drammaticamente nella metà del primo decennio del nuovo secolo [5].

1.3. La situazione geopolitica
Gli equilibri mondiali non subiscono nel decennio in esame variazioni di rilievo. L’assetto bipolare scaturito dagli accordi di Yalta sembra sostanzialmente reggere, se si escludono le zone di frizione periferiche.
Gli Usa perdono il controllo del Nicaragua per qualche anno, ma in compenso golpi militari in Cile, Argentina, Bolivia e Perù marcano il persistere del controllo statunitense sul resto del continente, se si esclude l’esistenza mal sopportata della Cuba castrista.
L’URSS sembra estendere la propria influenza politica: se con l’avvento di Sadat in Egitto perdeva il controllo di quel paese, il suo insediamento in Siria comportava un più stretto legame con l’OLP in Palestina ed una presenza mediata nel Libano. In Africa erano in atto guerre di decolonizzazione, soprattutto nelle colonie portoghesi, in cui erano presenti movimenti marxisti. Nel sud est asiatico la vittoria di Hanoi nel conflitto
vietnamita allargava lo spettro di azione al Laos, mentre in Thailandia era in atto un conflitto con forze filosovietiche. In Afghanistan nel 1978 fu instaurata una repubblica popolare fortemente sostenuta dall’URSS.
Nel frattempo in Europa si sviluppavano lotte che contestavano l’assetto capitalistico dei rapporti sociali. Erano gli ultimi sussulti, perché le cause della crisi corrodevano da dentro l’impero sovietico.
La prima avvisaglia fu la rottura del legame con la Cina; anche questo fu un fattore all’inizio troppo trascurato che avrebbe inciso negli anni successivi, con la sconfitta della cosiddetta “banda dei quattro” e la morte di Lin Biao e l’emergere della leadership di Deng Xiaoping. Ma all’epoca la Cina era ancora un paese economicamente irrilevante, anche se già all’inizio degli anni settanta l’Amministrazione Nixon aveva avviato la distensione dei reciproci rapporti con il viaggio di Kissinger a Pechino.

1.4. L’affanno sovietico
Passeranno altri venti anni prima che l’impero sovietico si sbricioli minato alle fondamenta, ma questo evento vede già nel decennio in esame il dispiegarsi delle proprie cause. A parte il distacco della Cina, i problemi erano tutti endogeni, relativi al modello socio-economico adottato.

  • La programmazione economica, figlia dei piani quinquennali e gestita da un centro nazionale il Gosplan, era divenuta una pura forma; in realtà i poteri economici locali da un lato gonfiavano le richieste di approvvigionamenti lucrando personalmente, dall’altro truccavano i dati di produzione gonfiandoli per fare
    carriera; nulla era più sotto controllo.
  • La coesistenza pacifica aveva fatto in parte integrare l’URSS con il mercato capitalistico, col quale risultava meno competitivo, e quindi assumendo forme di mercato libero rinunciava ai principi di collettivizzazione; inoltre i modelli dei consumi occidentali penetravano all’interno creando aspettative non soddisfacibili.
  • Il modello seguito fino ad allora aveva privilegiato l’industrializzazione di base e la produzioni di beni durevoli a scapito di quelli di consumo; l’arretratezza ereditata del passato aveva reso necessario questo passaggio, ma ora la scarsità di beni di consumo entrava in conflitto con le aspettative della popolazione.
  • Problemi laceranti ed irrisolti erano da un lato i privilegi della nomenklatura e dall’altro l’esistenza di una doppia economia col fiorire di un macroscopico mercato nero sia dei beni che della valuta.
  • Le olimpiadi del 1980 costituirono un enorme sforzo economico che ancora una volta si risolse in un’ulteriore restrizione dei consumi popolari.
  • L’origine della crisi degli anni settanta sta nella “più lenta crescita (e infine declino) della produttività” legata ad una “riduzione della pressione dall’alto” e ad un “rilassamento della disciplina” nei luoghi di lavoro; ma “la stagnazione macroeconomica” è legata anche al declino tecnologico, al “deterioramento della ricerca” e all’esaurimento delle risorse necessarie alla crescita estensiva fino ad allora praticata. [6]
  • Dopo la fase della distensione (SALT I e SALT II, volti alla riduzione reciproca tra USA e URSS degli armamenti missilistici e nucleari), Reagan dava l’avvio al cosiddetto programma di “guerre stellari”, e mantenere il passo con la capacità offensiva degli Stati Uniti voleva dire dirottare sugli armamenti ingenti risorse, ancora una volta a scapito dei consumi; “Negli anni ’70 l’URSS spende in armamenti il 15% del suo PIL, dal 1975 le spese militari aumentano del 5% l’anno, un tasso superiore alla crescita del PIL”[7].

1.5. Il problema delle spese militari
Come abbiamo visto nel decennio il problema delle soverchie spese per gli armamenti pesava sia sull’economia USA che per quella dell’Unione Sovietica. Certo è che le spese militari hanno un duplice effetto sulla congiuntura: un risvolto positivo ed uno negativo, ma il secondo è di gran lunga il più rilevante, tant’è che molti analisti, la maggior parte, limita l’effetto positivo solo a breve termini in situazione congiunturale.
Ovviamente le commesse militari sostengono quel settore di industria, settore molto importante negli Usa ed anche in Italia, con ricadute occupazionali, che poi si riverberano sui consumi, con effetti moltiplicatori sull’intera economia dell’area interessata. La crisi del 1929 è stata definitivamente superata solo con l’avvento
della seconda guerra mondiale, che ha completato l’opera avviata da Roosvelt con il New Deal. Lo stesso risultato ottenuto con il piano Marshall: il governo statunitense eroga soldi ai paesi distrutti dalla guerra per avviare la ricostruzione e questo innesta una fiorire di commesse per l’industria d’oltre oceano; a seguire la ripresa economica nei paesi interessati ha fatto ricrescere i consumi interni e con essi le importazioni che ancora una volta hanno favorito lo stesso apparato industriale; da questi due fattori la congiuntura Usa ha ricavato un evidente effetto moltiplicatore.
A lungo andare, però, sopravvengono i problemi, accentuati dall’entità delle spese sostenute. Nel 2015 gli Stati Uniti d’America spendevano ancora 1957$ pro capite per le armi, contro i 408 $ della Russia [8], e l’Amministrazione Trump intende intensificare gli acquisti. Il fatto è che la spesa militare è pubblica e quindi grava sulle finanze statali, finanze che possono essere coperte o con l’emissione di valuta che generano inflazione, o con aumenti delle imposte che generano caduta dei consumi. Si aggiunga che le stesse cifre investite in altri settori producono effetti moltiplicatori sull’economia ben maggiori e si configurano come maggior benessere della popolazione, a sua volta una spinta benefica ai consumi.

1.6. Un ciclo di lotte
Gli anni settanta ereditano dallo scorcio del precedente decennio una instabilità sociale che percorre i paesi capitalistici. L’assetto delle libertà collettive ne risulterà profondamente mutato. I movimenti studenteschi, le lotte femministe, lo stesso movimento hippy provocarono un irreversibile cambiamento di mentalità: il sistema
capitalistico si liberava delle ultime scorie della società patriarcale, facendo emergere in primo pieno i diritti individuali e legittimando in via definitiva la più spietata lotta per il successo delle singole persone. Ma gli effetti non furono solo quelli appena descritti: anche il movimento dei lavoratori, risvegliatosi già negli anni sessanta, trovò nuova lena, saldandosi in alcune aree con gli altri movimenti emergenti ed in questo caso gli
effetti non si realizzarono solo nell’ambito degli assetti sociali, ma investirono in pieno anche e soprattutto la sfera economica.

1.7. La dinamica profitti-salari
“Tuttavia in alcuni Paesi (e l’Italia ne è un esempio) la forza delle rivendicazioni operaie aveva portato i lavoratori ad ottenere aumenti percentualmente superiori a quelli riportati dalla controparte. I profitti crescevano meno dei salari, un fatto anomalo nell’intera storia del capitalismo, dovuto principalmente alle condizioni di forza sindacale e politica sviluppatesi nel secondo dopoguerra.”[9]
L’affermazione è ricorrente ma merita alcune specificazioni. Tra gli anni sessanta si sviluppò, come visto, un ampio ciclo di lotte, che in alcuni paesi, Francia e Italia in particolare, assunse un carattere più marcatamente sindacale, prima di sfociare quasi ovunque in tentativi di lotta armata. Ma la crescita del peso dei salari fu più marcata altrove, mentre in Italia ebbe una flessione, addirittura un crollo negli Usa.

(vedi PDF per immagine)

Sraffa [10] considera antagonista il profitto con i salari, se i secondi crescono il profitto deve calare perché entrambe costituiscono il surplus complessivo derivante dal
processo produttivo.
In effetti il saggio di profitto in quegli anni conobbe una flessione rilevante, perché è a questo che bisogna riferirsi nel rapporto coi salari. L’interazione non funziona più
se il volume della produzione e del mercato non resta costante. Gli anni settanta, nonostante la “crisi” asserita conobbe uno sviluppo notevole del commercio mondiale e quindi della produzione complessiva; ne discese che il profitto globale del settore manifatturiero continuò a crescere. Casomai conobbe una riduzione negli anni
ottanta in corrispondenza dell’emergere prepotente dei profitti finanziari, prima pressoché inesistenti (fig. 2)[11].

fig. 2 (vedi PDF)

2. I problemi strutturali
Se questo è il quadro riassuntivo del decennio in analisi, quali sono i nodi strutturali che l’assetto capitalistico si trovava ad affrontare? E la loro soluzione di quale cambio di paradigma necessitava? Il vecchio paradigma keynesiano, che tanto bene aveva risposto alle esigenze della fuoriuscita dalla crisi del 1929 e che aveva ridato slancio agli interessi del capitale, era ormai obsoleto?

2.1. Il saggio di profitto
Il problema del saggio di profitto, cioè il guadagno che l’imprenditore ottiene dal proprio investimento, è uno dei tormentoni che affliggono la teoria marxista, da quando Marx (meglio Engels) ne previde l’inevitabile ed ineluttabile declino. C’è chi lo rivendica come assolutamente vigente e fornisce tabelle e grafici che ne dimostrano l’effettiva esistenza e c’è chi lo contesta e fornisce altrettante tabelle ed altrettanti grafici che ne smentiscono l’esistenza. Sta di fatto che la formula con cui viene teoricamente previsto è molto rozza e priva di efficacia [12]. Ma questo è un altro discorso: quello che interessa al momento è verificare se nel corso del decennio in esame, o anche prima, tale saggio sia effettivamente sceso sotto il limite di sopportabilità per l’interesse dell’imprenditore e se ciò, essendosi verificato, trovi causa nell’assetto di politica economica keynesiano, determinandone la necessità dell’abbandono, oppure se le cause vadano ricercate altrove.
La fig. 3 [13] mostra effettivamente un andamento calante del saggio verso la metà degli anni ‘70, ma non tale da giustificare un cambio di paradigma talmente drastico come quello avvenuto effettivamente. La successiva risalita è, per il momento, al di fuori dell’interesse del presente scritto e verrà presa in considerazione in seguito.

Fig. 3 (vedi PDF)

La successiva fig.4 [14] mostra più o meno lo stesso andamento. Infine la fig. 5 [15] si riferisce specificatamente agli Stati Uniti d’America ed evidenza una flessione più spostata verso gli anni ‘80. Il problema però è che, a mio parere, questa riduzione temporanea, più che nell’assetto delle politiche macroeconomiche, possa trovare
giustificazione in altre cause.

Fig. 4 (vedi PDF)

Come affermato nel & 1.7, l’aumento dei salari più che incidere sui profitti globali incide nel saggio di profitto, perché aumentando l’investimento in capitale variabile aumenta il denominatore della famosa formuletta e quindi abbassa il valore del ricavo ottenuto dall’investimento globale, in quanto il plusvalore ricavato non è variato per l’aumento dei salari. Le rivendicazioni della classe lavoratrice sembrano quindi essere un più che
ottimo movente per il cambio dell’assetto di politica economica. Soprattutto occorre ricordare la fig. 2 con la rincorsa dei profitti finanziari rispetto a quelli manifatturieri ed il loro definitivo sorpasso avvenuto nel corrente decennio, dopo l’iniziale shock derivante dalla crisi del 2007: l’attività finanziaria doveva guadagnare uno spazio che precedentemente non le era concesso.

2.2. Le nuove tecnologie
Il crescere della conflittualità operaia trovò un ostacolo imprevisto nell’implementazione di nuove tecnologie nei processi produttivi. All’inizio la rigidità della catena di montaggio, rigidità che la rendeva vulnerabile alle azioni di protesta in grado di interrompere la linea in qualsiasi punto bloccando tutto il processo a valle fu temperata da sistemi meccanici: i polmoni acquisivano pezzi semilavorati negli snodi della catena, ed essi potevano reimmettere nella linea successiva gli oggetti ricevuti precedentemente e così far lavorare la catena a valle anche se a monte si verificava un’interruzione. Si cominciò anche ad introdurre il lavoro ad isole, con relativi incentivi di gruppo.
Ma la tecnologia venne in aiuto al padronato con gli sviluppi della computerizzazione. Nel 1971 fu approntato il primo microprocessore, l’Intel 4004, e lo sviluppo dei calcolatori si riversò nei processi produttivi negli anni ottanta, rendendo flessibile il controllo sulle lavorazioni in maniera sempre più spinta, con una conseguente
perdita di posti di lavoro, ma soprattutto con la definitiva perdita di consapevolezza da parte della classe operaia del reale svolgimento complessivo della produzione.

2.3. La crisi del fordismo
Il fordismo è nato prima delle politiche economiche keynesiane, ma queste ultime vi hanno aderito come un guanto, tanto che Keynes e Ford sono divenuti quasi due fratelli siamesi. Il fordismo non è solo catena di montaggio, e nemmeno solo la nascita della produzione di massa e l’ampliamento del mercato ai consumi delle classi lavoratrici.
Il complesso delle azioni di sistema che va sotto il nome di “regolazione fordista” [16] rappresenta un intero assetto sociale. I salari operai devono crescere tramite la contrattazione collettiva per permettere ad essi di comprare le merci prodotte ed allargare il ciclo produzione-distribuzione-consumo, garantendo una spirale ascendente alla produzione ed ai profitti. Il credito deve essere garantito dalle banche commerciali agli imprenditori per tenere alto e stabile il tenore degli investimenti. Nel contempo la sicurezza sociale (Welfare) deve svincolare quote di reddito dai bisogni primari per dirottarle sui consumi.
L’ascesa del capitale finanziario ha rapidamente reso insostenibile questo modello, entrando in conflitto con i suoi presupposti e così il sistema sociale che nel periodo tra le due guerre mondiali ed il periodo successivo alla seconda fino agli anni settanta era quello di riferimento, garantendo uno sviluppo ampio e veloce della congiuntura economica, è finito sotto attacco ed è stato rapidamente smantellato.

2.4. Gli interessi del capitale finanziario
L’ascesa della finanza giustifica ampiamente il cambio di paradigma. Il monetarismo ha un nemico giurato nell’inflazione, mentre nel modello kenesyano l’inflazione non è un problema e da essa devono guardarsi coloro che prestano denaro, cioè le banche. Solo due decenni dopo il sistema bancario si svincolerà dai limiti che gli erano stati imposti nel periodo precedente: promosso dal Presidente Clinton nel 12 novembre 1999 fu
abolito il Glass-Steagall Act, che impediva la commistione tra banche commerciali e banche di investimento per controllare l’attività finanziaria degli istituti di credito, dando così avvio al libero sviluppo della speculazione finanziaria.
Di fatto la regolazione fordista comportava dei costi per la finanza pubblica (Welfare, sistema previdenziale, assistenza sanitaria, servizi pubblici, istruzione) tendenzialmente inflazionistici e come tali da ridurre o smantellare; le politiche di restrizione di questi istituti sociali hanno preso corpo nei paesi industrializzati e sono divenute il verbo degli economisti di regime. C’era, comunque, un altro aspetto dell’assetto economico e
sociale fordista che occorreva destrutturare: la contrattazione collettiva. In Italia fu proprio il segretario generale della CGIL Luciano Lama, che il 25 ottobre 1978, poco dopo l’approvazione della cosiddetta “strategia dell’EUR” in un’intervista a La Repubblica diede la stura all’attacco al salario, dichiarando che esso “non era una variabile indipendente”; ciò costituiva il necessario completamento della nuova strategia sindacale e stava a significare che il salario non poteva più crescere sulla base della combattività proletaria, ma doveva rispondere al quadro economico nazionale e ad esso restare subalterno.

3. L’evoluzione dei decenni successivi
Certamente la storia successiva in un primo momento dà ragione ai vincitori. Inizia un nuovo ciclo espansivo che dura fino al 2007. Ma se l’approccio keynesiano aveva avuto ragione della grande crisi del 1929, garantendo mezzo secolo privo di significative compressioni dell’economia mondiale, il ritorno a teorie che affermavano la priorità del marcato e la sua salvifica funzione di unico regolatore della congiuntura se lasciato
libero nel suo evolversi, non poteva che riservare al mondo capitalistico l’esplosione di una nuova devastante e profonda crisi entro la quale sta ancora dibattendosi.

3.1. Il saggio di profitto
Torniamo alle figg. 3, 4 e 5. Come si vede il tasso di profitto, dopo un lieve declino negli anni settanta, è tornato a risalire verso livelli precedenti. Va ricordato che lotte operaie si svilupparono, anche se in misura minore che altrove, anche negli Stati Uniti d’America a cavallo tra gli anni sessanta ed il decennio successivo[17]. La domanda da porsi e se questo ricostituirsi dei margini di profitto sia il frutto del mutato paradigma di politica economica, oppure derivi da altri fattori, quali la dinamica salariale.
La successiva fig. 7 risulta abbastanza esplicativa. Se prendiamo in esame gli Usa si vede chiaramente che mentre i salari operai, nei decenni successivi, risultano stabili, anzi leggermente declinanti, la produttività del lavoro conosce un balzo senza fine, il che rende ampiamente ragione dell’andamento del saggio di profitto.
Ovviamente dinamiche più consistenti risultano laddove la compressione dei salari ha conosciuto un andamento molto più accentuato, come in Italia.

Fig. 6[18] (vedi PDF)

Resta da indagare come tale riduzione della quota salari possa essersi realizzata e se essa sia implicita nel neoliberismo, o se viceversa il neoliberismo abbia fornito un quadro di riferimento teorico per l’assalto ai salari; in altri termini occorre capire se il dilagare della teoria friedmaniana si sia reso necessario per la svolta che sottoponeva i salari alla compatibilità con la crescita dei profitti o se abbia costituito solo un comodo paravento.
Sicuramente il nuovo assetto teorico era necessario per l’esplosione dei profitti finanziari (fig. 2), ma è probabile che l’asservimento dei lavoratori poteva essere perseguito con altri mezzi.

3.2. Chiusura di un ciclo di lotte
Come abbiamo visto dopo il 1980 la quota del reddito nazionale destinata ai salari è andata decrescendo ed è difficile non collegare questo fatto con la definiva sconfitta subita dal movimento operaio al termine di un ciclo di lotte, più o meno duraturo nei vari paesi, che aveva percorso i paesi capitalistici. Dopo di allora la combattività è andata spegnendosi, le azioni collettive hanno perso la presa e si è registrato un lento ma
costante riflusso nelle dinamiche individuali. La disoccupazione crescente ha reso più debole la classe proletaria.
“Dal 1970 al 1997 la disoccupazione ha spiegato più del 70% della variazione della crescita dei salari, è in media ogni aumento di un punto del tasso di disoccupazione faceva diminuire di 2.4 punti la variazione percentuale dei salari” [19]. Questi fattori, però, non dipendono dal modello macroeconomico adottato. Meno rivendicazioni salariali, aumento della disoccupazione, contratti di lavoro meno remunerativi al di sotto del tasso di inflazione, tendenza al contratto individuale in cui il lavoratore è solo e sguarnito nei confronti della controparte datoriale, sono tutti elementi attinenti alla sfera sociale e rispondono ai contraccolpi di una sconfitta storica non ancora riassorbita e all’uso che la borghesia imprenditoriale fa dell’innovazione tecnologica.

3.3. La borghesia all’attacco
Il pendolo della storia tornava ad oscillare dall’altra parte. Non interessa in questa sede indagare sulle responsabilità della sconfitta che i lavoratori hanno subito nel corso del decennio è innegabile il fatto che gli anni si aprono con le classi subalterne che tenevano saldamente l’iniziativa e conseguivano dei frutti dalla loro azione e si chiudono con un netto ripiegamento delle lotte e con la borghesia ben decisa a riprendersi, anche con ampio margine di guadagno, il terreno perso ed a far pagare in modo salato il rischio corso. E decisa soprattutto a creare i presupposti perché ciò che si era verificato nei due precedenti decenni non si potesse più verificare. Il comando che la borghesia riuscì a ripristinare sulla classe operaia non doveva essere effimero ed il ricatto occupazionale, alimentato dall’accendersi della conflittualità tra lavoratori di zone diverse, ne era l’asse principale.
Le armi di cui la borghesia trovò a proprio sostegno furono la cosiddetta globalizzazione e il controllo statistico della produzione reso possibile dalle nuove tecnologie informatiche. Ma ci furono anche fattori culturali favoriti dall’individualizzazione dei rapporti sociali: il mito collettivo della “patria socialista”, pur con tutte le sue ambiguità, sarebbe crollato e con esso la fiducia in un avvenire diverso dall’orizzonte capitalista.

3.4. La finanziarizzazione
Se il monetarismo neoclassico fornisce solo una cornice ideologica, di per sé non necessaria, alla contrazione della quota salari, alla crescente divaricazione tra ricchi e poveri, alla decadenza della classe media, alla concorrenza tra lavoratori, alla riduzioni delle prestazioni sociali, esso però risponde perfettamente agli interessi speculativi della finanza. Come si vede dalla fig. 2, i profitti da investimenti iniziano a crescere, prima timidamente, proprio negli anni settanta, per esplodere poi venti anni dopo. La demonizzazione dell’inflazione che giustifica tutti gli effetti sociali e contrattuali sopra accennati, va incontro agli interessi della speculazione monetaria e permette i rapidi cambi di mano, spesso nell’ambito della stessa giornata, delle partite di merci, cambi che sono facilitati dalla relativa stabilità monetaria.

3.5. Il problema del salario
Questo è il problema che il capitalismo si trovava realmente ad affrontare all’inizio degli anni settanta.
L’obiettivo da ottenere era quello di riportare il salario a costo di produzione, invece che continuare a considerarlo un fattore di crescita del mercato, un volano della congiuntura. Era la struttura stessa dell’assetto sociale che andava sotto il nome di “regolazione fordista” che doveva essere smantellata. Necessitava una vittoria politica, che ripristinasse il comando padronale in fabbrica e nella società. Per raggiungere questo risultato la borghesia disponeva di tutti gli strumenti ideologici e strutturali di cui abbisognava; nuove tecnologie, un movimento sindacale stanco e disposto al compromesso al ribasso, la fine del mito socialista, il rifluire della spinta antagonista ed il rientro di una generazione nell’alveo delle forme politiche tradizionali.
Il neoliberismo era uno dei fattori ideologici che hanno reso possibile la svolta. Esso però, a lungo andare, ha consentito il prevalere dell’investimento finanziario sul capitale di rischio. La fine delle protezioni sociali, la compressione della massa salariale, l’assottigliamento della classe media si sono riverberate sulla consistenza del mercato. Si è reso necessario [20] sostenerlo drogandolo con immissioni valutarie non convenzionali, tali da non incidere sull’andamento dell’inflazione. La catena di sant’Antonio dei mutui, dei derivati, Cdo, Cds, e così via, nel 2007 è crollata come un castello di carta.

[1] https://partitodemocraticobientina.files.wordpress.com/2009/11/storico-saldo-bilancia-commerciale-stati-uniti.gif.
[2] AA.VV, Ai compagni su: crisi ristrutturazione elotta di classe, CP Editrice, Firenze 1973.
[3] http://www.proteo.rdbcub.it/stampa.php3?id_article=28.
[4] https://www.movisol.org/mito.htm.
[5] http://www.tgvallesusa.it/2017/01/trump-populista-parla-delleconomia-reale-degli-stati-uniti/.
[6] developmnethttp://www.academia.edu/612485/Il_crollo_dell_Unione_Sovietica._Fattori_di_crisi_e_interpretazioni.
[7] Ivi.
[8] https://bresciaanticapitalista.com/2017/02/05/la-classifica-dellinfamia-le-spese-militari-nel-mondo/.
[9] http://www.historialudens.it/geostoria-e-cittadinanza/89-la-crisi-che-ruppe-il-novecento-1973-1979-il-racconto-e-i-modelli.html.
[10] P. SRAFFA, Produzione di merci a mezzo di merci, Einaudi, Torino , 1999.
[11] https://www.sinistrainrete.info/crisi-mondiale/8750-.
[12] Il rapporto tra profitto ed investimento manca di un fattore moltiplicativo che randa conto del variare del plusvalore all’aumentare della tecnologia impiegata, che
se incrementa il capitale fisso, in pari tempo incrementa lo sfruttamento e quindi l’estrazione di plusvalore
[13] http://www.paginemarxiste.it/modules.php?name=Archivio&pa=showpage&pid=296.
[14] https://www.sinistrainrete.info/marxismo/2419-riccardo-achilli-il-declino-tendenziale-del-saggio-di-profitto.html.
[15] Cfr. nota 13.
[16] VOLPI, FRANCO, Note per la lettura della crisi degli anni ‘70, in AA.VV., Una crisi di sistema, Franco Angeli Editore, Milano 1980, pp. 11-58.
[17] http://www.chicago86.org/archivio-storico/lotte-operaie-anni-60-70/miscellanea-lotte-operaie/67-lotte-operaie-nel-settore-auto-1973-74.html.
[18] http://goofynomics.blogspot.it/2013/11/produttivita-salari-crisi-logaritmi.html.
[19] http://goofynomics.blogspot.it/2014/07/e-la-flessibilita-bellezza-mmt-vs.html.
[20] GALLINO, LUCIANO, Il colpo di Stato di banche e governi. Einaudi Torino 2013.

saverio