Trompe oeil

Il primo mese

È passato poco più di un mese dall’insediamento di Trump alla Casa Bianca e già è possibile fare qualche primo commento. La fretta del finanziere, abituato a spostare destini e capitali con un colpo di telefono, gioca dei brutti scherzi ed il Presidente si scontra con le regole che vincolano anche lui. A questo si aggiunga la sua totale impreparazione sia per ciò che riguarda le modalità di gestione di un organo di
amministrazione pubblica, sia per quanto concerne i delicati equilibri della diplomazia internazionale. Su questo secondo versante i primi errori risalgono già a prima del 20 gennaio (telefonata inopportuna alla Presidente di Taiwan) e si sono recentemente conclusi con l’annuncio di un attentato terroristico in Svezia, mai avvenuto. Nel mezzo i rapporti difficili con l’Unione Europea, lo scompiglio creato con l’annuncio sull’inutilità attuale della NATO, l’altalenante interesse per la Federazione Russa, gli allontanamenti e gli avvicinamenti con la Cina e via discorrendo. Ognuna di queste vicende segnala una profonda incomprensione dello scacchiere internazionale, l’assenza di una qualche strategia diplomatica e l’abitudine di fare annunci senza la necessaria preventiva ponderazione.
Sul fronte interno le cose non vanno meglio! L’uomo abituato ad impartire ordini, aspettandosi che essi vengano senza indugi eseguiti, ha scoperto che vi sono delle procedure da seguire e che gli Stati Uniti conoscono nel loro sistema di comando una serie di contrappesi che rendono inagibile le strada del “faccio come credo meglio”; non ultime le elezioni di mezzo termine, che fra due anni rischiano di cambiare la maggioranza al Congresso a favore dei democratici, mettendo Trump difronte alla necessità di mediare con loro le proprie politiche.
Incapace di governare realmente, in difficoltà per i collaboratori che sta precocemente perdendo, il nostro ha scelto di proseguire la campagna elettorale, attaccando frontalmente la stampa colpevole, a suo dire, di deformare le sue azioni. Una strategia, che al di là delle minore o maggiore correttezza dei giornali, ha le gambe molto, troppo corte. Così il neo-presidente conosce un minimo nella sua popolarità che costituisce un
record assoluto, anche se va ricordato che egli non ha vinto nel voto popolare; ma anche se partito in svantaggio, generalmente la novità gioca a favore del nuovo inquilino di Washington almeno per un po’ (così fu dopo la prima elezione di George Bush, che scese nei consensi a ridosso dell’estate), ma il multimiliardario è colato subito a picco in modo del tutto imprevedibile ed ascrivibile solo al pressapochismo disarmante del suo operare.

L’elettorato

Si è già detto che il voto popolare non ha incoronato Trump: 65.979.879 voti contro i 68.844.954 di Hillary Clinton, quasi 3 milioni di voti in meno; colpa del sistema elettorale risalente alla fine del XVIII secolo, ed al fatto che è stata Hillary a perdere, per la sua incapacità caratteriale di attrarre e per i suoi evidenti legami con il mondo finanziario, cui giustamente l’elettore medio ascrive lo scatenamento della crisi in cui si dibatte.
Ma nell’arco di un mese il vincitore ha disperso già circa il 20% del proprio consenso. Gli sono rimasti fedeli le destre estreme e razziste, i conservatori più radicali, coloro che temono gli immigrati messicani e quelli che vedono in ogni musulmano un più che potenziale nemico. Lo hanno abbandonato i ceti medi che non vedono nella sua conduzione la possibilità di risalire dalla china in cui sono finiti, ma anche alcuni poteri forti spaventati dall’isolazionismo che viene prospettato. Non è un caso che il New York Times (Nyt, per gli amici) sia schierato contro di lui, dato che il giornale è il tempio dei neoliberisti che hanno fatto del mercato globale il proprio credo.

L’economia

Qui sta il punto dirimente, nella convinzione che le due proposte che si fronteggiano siano entrambe ben lungi da poter risollevare le sorti dell’economia statunitense e mondiale. Le ricette monetariste sono ormai alle corde e sempre minor consenso riscuotono (negli Usa, in Europa etc.) come atte a portare l’economia internazionale fuori dalle secche in cui l’hanno colpevolmente precipitata. È ovvio che in questo quadro, nel rifiuto delle politiche di bilancio e nel timore che il lavoro vada perduto a favore di località dove esso costa meno, le parole d’ordine trumpiane, quali “l’America agli americani” o “dazi per le merci prodotte all’estero” o “incentivi per chi riporta le produzioni in patria”, abbiano favorevole accoglienza. Ma esse risultano a lungo
andare ancora più perniciose, perché rinchiudendo in se stessi i mercati, finiscono per indebolire ulteriormente le possibilità della ripresa. È ovvio, tra l’altro, che le merci autoctone costeranno di più ai consumatori, rendendo necessario rivitalizzare i mercati interni alzando i salari in un circolo vizioso a tutto scapito dei lavoratori.

Mille Trump crescono

L’ondata del trumpismo ha investito tutti i paesi europei, fornendo benzina ai motori delle destre nazionaliste e xenofobe. Nasce un nuovo filone di pensiero, quello del cosiddetto “sovranismo”, ovverosia di chi ritiene che ogni gruppo si debba autoregolare “in casa propria”; così mentre dilagano gli slogan quali “la Francia ai francesi” o “l’Italia agli italiani”, nelle recenti manifestazioni dei tassisti è comparso anche un improbabile “Roma ai romani”, da cui si evince che il localismo non ha limiti: e perché no allora “Trastevere ai trasteverini” o “via Cisterna ai cisterniani” o “il condominio del n° 12 di via Cisterna ai dodiciani” e così fino al singolo appartamento? La prospettiva dell’autarchia, non si sa fino a qual punto spinta, comporta sicuramente un impoverimento maggiore di quello generato dalla globalizzazione, perché se è indubbio che i mercati non si
autoregolano e vanno quindi imbrigliati in regole stringenti, la loro abolizione è puro oscurantismo.
Per i comunisti anarchici le comunità della società libertaria si devono sì autoregolare, ma in stretta relazione con le altre comunità, nessuna di essa essendo autonoma in tutto e per tutto, ma necessitando degli scambi con tutte le altre, anche se non mediati dall’economia monetaria. Le comunità che immaginiamo non sono chiuse come monadi leibniziane, ma aperte agli influssi esterni, accoglienti con chiunque arrivi, purché
voglia contribuire al bene comune, nella convinzione che sulla terra vi siano uomini e donne con uguali diritti, bisogni, aspirazioni, desideri e che la paura del diverso sia solo frutto dell’insicurezza che un sistema precario e competitivo genera su coloro che meno si sentono talmente forti di fronte alle sfide loro poste e che si rifugiano dentro muri fortificati che dovrebbero difenderli dall’orda barbarica che preme; e non si accorgono che all’interno di quei muri vivono e prosperano anche coloro che quella insicurezza coltivano a loro esclusivo vantaggio. Il nemico, come sempre, non è davanti a noi, ma dietro di noi e ci colpisce alle spalle.

Saverio Craparo