La Trumpata

Il primo Presidente nero degli Stati Uniti d’America era stato appena eletto e insediato, in un coro che entusiasticamente inneggiava alla grandiosa novità, che noi proponevamo una lettura meno encomiastica e speranzosa (Antipodi, numero 9 seconda serie, marzo 2009, Crescita Politica Editrice, Firenze, pp. 2-4). Poco dopo Obama veniva prematuramente insignito del premio Nobel per la pace, con una mossa preventiva, tutta politica, che il tempo ha provveduto inesorabilmente a demistificare.
Sostenevamo allora che l’intensa riverniciatura apportata all’immagine degli States, operata in un momento di massima difficoltà sia all’interno che all’estero, avrebbe portato poche sostanziali modifiche, tali da non rappresentare né una reale inversione di tendenza nel progetto egemonico degli Usa, né una significativa fuoriuscita dalla crisi economica: Obama ereditava un paese in preda a profonde convulsioni economiche e molto screditato in molte aree del mondo.
Erano queste le sfide che era chiamato ad affrontare.
Al termine del suo secondo ed ultimo mandato è ora possibile tentare un bilancio, per analizzare le prospettive che la nuova inattesa Amministrazione intende percorrere.

La congiuntura nazionale

Sul piano interno, quello della crisi economica, i risultati sono invero modesti. La Fed ha sfornato dollari a profusione e molti sono stati investiti per risollevare aziende in forte difficoltà. Questo ha consentito di tamponare le falle più vistose dell’apparato industriale e di sorreggere il ciclo; ma non è possibile sostenere che la crisi sia stata risolta e il buon andamento dell’occupazione è frutto, come ovunque, del dilagare di rapporti di
lavoro più che precari e di bassa qualità e di una robusta riduzione dei salari. Da qui la necessità di intraprendere guerre commerciali per stemperare l’aggressività dei concorrenti sul mercato internazionale.
La ricerca dell’autonomia energetica, perseguita tramite lo sfruttamento degli scisti bituminosi, ha indotto l’Arabia Saudita a spingere per un continuo calo del prezzo del greggio aumentandone la produzione: così l’olio combustibile ricavato dagli scisti e l’estrazione del petrolio nella lontana Alaska divenivano non competitivi; questa manovra di dumping si è svolta per circa un anno e mezzo, fino alla metà del 2016, ma se i Saud avevano ampie riserve monetarie per affrontare un lungo periodo di profitti ridotti, gli altri paesi dell’Opec hanno cominciato a soffrire di asfissia; a ciò si aggiunga che lo sdoganamento, operato dall’Amministrazione statunitense, dell’Iran, con la sua fame di profitti da petrolio a lungo sospirata, e le pressioni della Russia cui il petrolio serviva ad affrontare le sanzione impostele da Ue e Usa in reazione alla guerra ucraina. Il prezzo è quindi un po’ risalito, grazie ad un contingentamento condiviso delle quote di
produzione.
Se la concorrenza europea è stata contenuta (e su questo sarà opportuno ritornare in seguito), quella cinese non ha trovato soluzione; anzi le insidie avanzate dalla rinata economia orientale sono sempre più pericolose: la Cina possiede una parte considerevole del debito pubblico statunitense, tesse accordi energetici con la Russia, invade i mercati africani, offrendo prodotti a basso costo, infrastrutture e strumentazioni.
In buona sostanza, sotto l’Amministrazione Obama le conseguenze della crisi sono state mitigate, ma essa non è superata. Soprattutto sono state stemperate le ricadute più devastanti sul tessuto sociale, grazie in particolare al varo della riforma sanitaria, che ha fortemente danneggiato le compagnie assicuratrici, ma ha garantito l’assistenza a vasti strati di popolazione che ne erano prima escluse. Una prima risposta di Trump è stata un ordine esecutivo per ostacolarne l’applicazione in attesa di smantellarla con la motivazione che questa riforma costa alle classi medie più di quanto a loro da. In effetti i suoi costi poco hanno gravato sui redditi apicali che non sono stati colpiti durante il mandato Obama.

Il fronte internazionale

Mai premio Nobel per la pace fu meno meritato di quello attribuito al presidente nero, se si esclude, forse, quello a suo tempo ricevuto da Henry Kissinger. I due mandati di Obama, infatti, non hanno visto calare i conflitti in cui gli USA sono coinvolti, o che li vedono come poco occulti ispiratori. E neppure nei diritti civili si sono visti significativi passi in avanti tenuto conto che Guantanamo è ancora in piedi.
Il problema è che l’Amministrazione statunitense in questi otto anni ha perseguito tenacemente l’obiettivo di emarginare la Federazione Russa, allontanandola dalle aree che essa riteneva geopoliticamente rilevanti, e perseguendo il suo indebolimento; è ciò è stato fatto contro ogni logica di rispetto per i popoli di quelle aree. Enumerare i conflitti che si sono aperti, le zone destabilizzate permanentemente, le centinaia di
migliaia di vittime civili che ne sono state il prodotto inevitabile, è cosa lunga. Basti citarne alcuni. Complici Francia e Gran Bretagna la Libia ha perso un feroce dittatore, ma per finire in una guerra civile che vede formazioni tribali contendersi pezzi di territorio. L’allontanamento di Mubarak ha consegnato l’Egitto prima ai Fratelli Musulmani, il cui Presidente ha per prima cosa cambiato la Costituzione per conferirsi
poteri dittatoriali, per ricadere poi sotto un regime più vessatorio di quello precedente. Nel tentativo di ridurre l’influenza russa nell’area strategica mediorientale, gli Usa hanno pensato bene di far cadere il siriano Assad, non certo un personaggio molto presentabile; in questo modo si sarebbe isolato l’Iran ed il suo rapporto con Putin; ma, nel perseguire questo fine, sono stati finanziati ed armati gruppi di ribelli per lo più fondamentalisti che molto hanno contribuito alla nascita del Califfato. Per di più, la soluzione trovata dall’Amministrazione democratica per riordinare il caos irakeno, susseguente alla caduta di Saddam Hussein, è stata quella di conferire il potere ad un esponente della maggioranza sciita, senza alcuna mediazione con la minoranza sunnita, nerbo del regime baatista, così gran parte dei militari del vecchio regime sono confluiti armi e bagagli in Daesh.
E comunque nessuno dei promessi disimpegni dai teatri di guerra in cui gli Usa erano impegnati è stato realmente effettuato.
Il capolavoro, però, della strategia di Obama si è realizzato in Europa. L’Unione Europea si è fatta trascinare nell’avventura ucraina; strappare quei territori all’influenza russa era una forte aspirazione statunitense su cui gli europei si sono gettati, pensando di trarne vantaggi nell’allargamento dei mercati e nella gestione delle materie prime. Ne è scaturita l’ennesima guerra civile, che sarebbe apparsa inevitabile a chi avesse un minimo di conoscenza della storia e della stratificazione etnica della regione: chi, infatti, poteva pensare che la Russia consentisse a privarsi della Crimea, da sempre territorio russo, abitato da russi, annesso all’Ucraina in epoca sovietica (1954) ad opera di Krusciěv (tanto allora era tutt’uno) e base della flotta russa nel Mar Nero? Quale mente sconsiderata poteva immaginare che la Russia cedesse di buon grado la zona orientale
del paese, abitata per la maggioranza da russi e a suo tempo sede delle industrie militari ivi dislocate dai sovietici. Da questa improvvida impresa sono scaturite le sanzioni economiche decretate contro la Russia che tanto hanno danneggiato la produzione industriale europea.

L’irruzione

Dopo quanto detto, non è difficile capire perché l’elettorato statunitense si sia riversato su di un personaggio che rompeva con la continuità, rappresentata per di più da una candidata legata apertamente ai poteri finanziari. Trump il barbaro, principe del political uncorrect, sta sparigliando tutte le carte messe in tavola dal suo predecessore. La dichiarata intenzione di cercare un accordo col nemico numero uno di Obama, il leader russo Putin, risponde a più obiettivi. Primo fra tutti disimpegnarsi dai molti teatri di guerra accesi in funzione antirussa, per concentrarsi sulla politica interna, come tradizionalmente si sono comportate le amministrazioni repubblicane, se si esclude la parentesi del giovane Bush. Ciò, tra l’altro, lascia all’Unione Europea il cerino in mano della scottante situazione in Ucraina, sulla quale non sembra che i nani politici che
guidano l’Europa abbiano elaborato la minima idea di come fuoriuscirne. Altro effetto inevitabile è che Assad, o chi per lui, pur sempre alleato della Russia, permanga al potere in Siria, con la conseguenza che le prospettive di sopravvivenza dello Stato Islamico, già in stato avanzato di dissoluzione, si riducono fortemente.
Sul fronte interno, la cancellazione della riforma sanitaria, voluta da Obama, comporterà non pochi problemi ai ceti meno abbienti. In generale pochi dei provvedimenti che vengono per ora annunciati miglioreranno l’iniqua distribuzione della ricchezza, anzi. Si intravede una linea di politica economica che riporta l’orologio della congiuntura al liberismo precedente al temperamento operato dall’Amministrazione democratica. Nel complesso non sembra che per il momento l’orientamento economico della nuova dirigenza sia ben delineato, ma nel complesso, al di là delle fatue promesse di riportare all’interno del paese le produzioni soprattutto manifatturiere o di limitare gli ingressi degli immigrati, quello che ci si può ragionevolmente aspettare è una drastica stretta sulle garanzie sociali, già molto deboli, con effetti di accelerazione della crisi, che si riverbereranno inevitabilmente nel contesto dei mercati internazionali.

Saverio Craparo