Francia : la lotta continua

La battaglia di Francia tra capitale e lavoro prosegue inarrestabile, a dispetto dell’alluvione che ha colpito il paese, degli attentati terroristici e delle devastazioni messe a segno dalle tifoserie calcistiche. La Francia importa la violenza e i veleni d’Europa, il disaggio di società malate da dalla disoccupazione e dalla crisi, dal disincanto verso il futuro che doveva essere di prosperità e di benessere e che ora si presenta privo di prospettive se non quelle di rifugiarsi in un nazionalismo che trova espressione nelle manifestazioni violente delle tifoserie calcistiche. Eppure basta guardare i giocatori messi in campo dalle diverse squadre che già dal colore della loro pelle fanno trasparire il superamento delle appartenenze etniche e prospettano la necessità di una solidarietà finalmente globalizzata per affrontare con una lotta comune contro il capitale i molti problemi dei singoli paesi.
Intanto anche l’atteso incontro del 17 giugno tra il leader della CGT Philippe Martinez e la Ministra del Lavoro El Khomri – i due si erano incontrati l’ultima volta a marzo – si è concluso con un nulla di fatto. « Abbiamo disaccordi; essi non sono nuovi, non ci sono novità” ha dichiarato Myriam El Khomri. “Non c’è ragione che né il referendum cittadino, né le previste mobilitazioni vengano ritirati”, ha risposto il leader sindacale, annunziando una nuova giornata di mobilitazione per il 23 giugno.
Visto che gli attentati terroristici, i gravi disordini e le devastazioni degli ultras delle varie tifoserie calcistiche non hanno fermato la mobilitazione, la stampa servile e il potere fanno di tutto per accusare i sindacati e i lavoratori di irresponsabilità, mancanza di senso di solidarietà e sensibilità per l’interesse nazionale, di sabotaggio della pace sociale.
Eppure è il terrorismo ha tenere il paese in stato d’assedio, a seminare morte e distruzione; sono gli ultras a mettere sotto attacco le città e di fronte alle loro devastazioni quelle dei pochi casseurs che agiscono durante le manifestazioni sindacali impallidiscono. Il primo ministro Valls e il Partito socialista sono giunti fino al punto di chiedere alla CGT di non organizzare manifestazioni nazionali a Parigi, attribuendo ai sindacati la responsabilità dei disordini avvenuti a margine della grande manifestazione di martedì 14 giugno. Al tempo stesso il Ministro degli interni scatena la polizia contro i manifestanti, spesso aggrediti da auto lanciate a folle velocità per sfondare i posti di blocco e i picchettaggi organizzati a sostegno della lotta contro la legge sul lavoro.
Ciò che sta avvenendo ci fa dire che è in corso in Francia uno scontro di classe tra capitale e lavoro che ha radici profonde e che investe almeno tutta l’Europa; ma mentre negli altri paesi questo scontro si è da tempo concluso a vantaggio dei padroni la partita non è ancora chiusa in Francia, dove una maggior forza dei lavoratori, l’orgoglio nazionale, la mobilitazione di massa dei lavoratori, ancora permettono di resiste a un attacco concentrico del capitale finanziario, come di quello industriale, dei partiti di destra loro tradizionali alleati e di quelli “sinistri” che si offrono come i nuovi paladini dell’economia liberista come il Partito Socialista. Questa fase dello scontro di classe è segnata dalla drammatica definitiva mutazione del Partito Socialista Francese che segue sempre più le orme del Partito Democratico italiano. La consapevolezza piena di quanto sta avvenendo fa fatica a diffondersi ed è perciò che mentre la mobilitazione continua il dibattito si sposta su un non quesito: la legge del Lavoro francese è frutto delle scelte della classe politica nazionale o è il frutto della politica europea o, per dirle in altre parole, è colpa di Bruxelles se i francesi devono rinunciare ai loro diritti o piuttosto il frutto di una involuzione/degenerazione della sinistra interna che ha abbandonato le posizioni di classe?

Un falso problema

E’ certamente vero che a livello europeo vengono predisposte le politiche e le strategie in campo economico sociale. L’imposizione del limite del 3% allo sforamento del bilancio (peraltro più volte superato), che addirittura alcuni paesi come l’Italia hanno introdotto in Costituzione, obbliga al coordinamento delle politiche economiche e quindi anche a quelle relative al mercato del lavoro e alle sue regole di funzionamento. Da allora i diversi paesi d’Europa si danno il turno nel modificare la struttura del mercato del lavoro e le norme che lo regolano, con provvedimenti che seguono uno schema predisposto a Bruxelles e poi applicato nei vari Stati con una tempistica che differisce dai rapporti di forza esistenti nello specifico. Per molte ragioni la Francia è fino ad ora riuscita a posticipare nel tempo l’intervento nel settore; la struttura forte della contrattazione sindacale, l’orgoglio nazionale, la “diversità” supposta del paese hanno giocato un ruolo fondamentale. Ma ora i nodi sono giunti al pettine e la riforma va attuata.
Le riunioni della Commissione europea sull’omogeneizzazione delle politiche attuate dai paesi aderenti, l’approvazione delle Direttive, non sono il frutto di una congiura contro la democrazia francese, come denuncia Jean-Luc Mélenchon, leader del Fronte di Sinistra che è giunto a parlare di un presunto “sequestro della democrazia francese da parte dell’Unione europea”. La legge El Khomri non è colpa dell’Europa, ne una risposta agli ordini provenienti da Bruxelles, ma il frutto malato di scelte complessive che non sono superabili nemmeno con operazioni del tipo della brexit tentata dall’Inghilterra tra mille contraddizioni e qualche omicidio politico come quello della Cox. La Francia semplicemente non può tirarsi fuori dall’Europa ; può solo sperare di riuscire a riorientarne la politica, mettendo alle corde la dirigenza tedesca ma questo obiettivo è decisamente velleitario senza il sostegno di alleati forti. E gli altri paesi come l’Italia e la Spagna sono deboli, debolissimi mentre i paesi del nord Europa gli sono avversi.
Questa è l’impressione che si ricava quando si legge la “Raccomandazione del Consiglio sulla riforma e sul Programma nazionale della Francia” del 2015 e il parere del Consiglio d’Europa sul “Programma di stabilità della Francia per il 2015 “, proposto dalla Commissione il 13 maggio 2015. Questi due documenti contengono le linee di quello che sarebbe diventato un paio di mesi più tardi il disegno di legge sul lavoro, in particolare l’articolo 2 necessario per una profonda mutazione del quadro giuridico in materia di contratti di lavoro, che permette alle aziende di derogare dagli accordi nazionali di categoria e adattare salari e orari di lavoro alla loro situazione economica.
In realtà non è la Commissione a decidere da sola, ma sono gli Stati membri che propongono riforme volte a far convergere le loro economie al fine evitare che la situazione congiunturale di un paese divenga un problema per tutti gli altri, come abbiamo visto durante la crisi della zona euro. La tendenza a rendere sempre più forte la “governance economica” della zona euro è stata assunta come obiettivo prioritario a livello collettivo nel 2010 ed è una conseguenza diretta del Trattato Maastricht e che ha adottato una gestione semestrale del sistema di coordinamento economico europeo (conosciuto come “six pack”). Alla base di questa scelta sta’ l’idea che le economie dei diversi paesi europei sono tra loro interdipendenti e quindi necessitano di un sempre maggiore coordinamento.
Questa scelta comporta il rispetto di scadenze precise: ogni anno, nel mese di novembre, i rapporti redatti della Commissione europea esaminano le politiche economiche e di bilancio degli Stati nell’anno precedente, indicando gli squilibri macroeconomici di una particolare area (questo documento prende il nome di “Relazione annuale della crescita”). Sulla base di questi testi, il Consiglio europeo dei capi di Stato e di governo adotta entro il mese di marzo le cosiddette “Raccomandazioni Politiche” all’interno delle quali vengono incorporati i “programmi nazionali di riforma” inseriti poi a giugno nelle decisioni adottate dal Consiglio europeo dei capi di Stato e di governo. Nel mese di luglio il Consiglio dei Ministri delle finanze a maggioranza qualificata approva definitivamente i programmi. Questo processo è parallelo alla sorveglianza di bilancio (il famoso obiettivo del 3% del PIL), mentre vengono definiti riforme strutturali gli obiettivi credibili degli Stati in termini di spesa e di entrate.
La stampa francese ricorda che il 29 maggio 2013, François Hollande aveva dichiarato: “La Commissione non deve dettare ciò che dobbiamo fare.” “I paesi vogliono restare padroni del loro programma di riforma e non vogliono in nessun caso essere oggetto delle decisioni di una Commissione la cui legittimità su questi casi è un po’ fragile “.

Il tramonto della grandeur della Francia

Benché la crisi greca e l’andamento delle economie europee abbiano dimostrato il fallimento totale delle politiche neoliberiste, le burocrazie comunitarie e il Fondo Monetario internazionale incalzano la Francia.
Il Governo redige il “Programma nazionale di riforma”, presentato 15 aprile 2015; un documento di 171 pagine. Nel capitolo intitolato “lotta contro le rigidità del mercato del lavoro,” il governo dichiara di volere allineare le indennità di licenziamento a quelle degli altri paesi europei e di voler valorizzare gli accordi aziendali rispetto a quelli nazionali e di categoria; in pratica il contenuto dell’attuale art. 2 della legge sul lavoro, ricalcando quando imposto all’Italia con la famosa lettera di Draghi (vedi newsletter 85). Il fine dichiarato del provvedimento è di “modernizzare” completamente il sistema di relazioni, sociali, introducendo una estrema mobilità e una totale flessibilità nell’utilizzo della manodopera, disarticolando definitivamente ogni possibilità di difesa dei lavoratori, annullando il ruolo delle loro organizzazioni sindacali.
Dopo discussioni con il Governo francese la Commissione, con l’accordo di Parigi, adotta all’unanimità i contenuti della raccomandazione contenente le direttive per il mutamento delle regole del mercato del lavoro in Francia, decisione che il Consiglio europeo nel giugno 2015 e il Consiglio dei Ministri delle Finanze europee del mese di luglio 2015, confermano alla fine del 2015.
Così, Myriam El Khomri, divenuta Ministro del lavoro 2 settembre, si reca a Bruxelles per incontrare Pierre Moscovici, il commissario per gli affari economici e finanziari, e Marianne Thiessen, il suo collega responsabile del lavoro, per spiegare i dettagli della riforma prima della sua presentazione al Consiglio dei Ministri a Parigi. A gennaio del 2016 Valls e Hollande si arrendono definitivamente all’ineluttabile, accettando le richieste di Ecofin, vittime della proposta di sempre della Francia di istituire un posto di Ministro delle Finanze per l’area dell’euro, per vincolare ulteriormente ogni Stato a rispettare le politiche decise in comune e dar vita alla cosiddetta” Governance ecomomica” dell’area dell’EUR.
La domanda che sorge spontanea è come faccia la politica francese a non rendersi conto che una tale strutturazione della governante europea in questo momento sanzionerebbe, anche sotto il profilo istituzionale, la dominanza tedesca, supportata da una maggiore solidità dell’economia di quel paese. Il confronto in atto in Gran Bretagna sulla brexit certo non aiuta in questo momento la formalizzazione dei poteri delle istituzioni dell’Unione rispetto a quelli nazionali ed anzi imporrebbe un ripensamento dei Trattati e soprattutto una ridiscussione della ristrutturazione economica e sociale dei paesi dell’unione secondo le linee di trazione tedesche.

La carta delle “nuove sinistre”

Il problema dell’alternativa di classe si pone oggi in Europa secondo schemi e modalità nuove.
E’ del tutto evidente che solo una risposta che venga dai diversi paesi europei in termini di mobilitazione di massa e di rifiuto delle politiche neoliberiste può mutare la situazione. Certamente a cambiare i rapporti di forza serve una vittoria sul terreno della lotta di classe che dia il segnale che almeno la resistenza è possibile e questo risultato può venire dalla battaglia di Francia che, sfidando le avversità atmosferiche e la grande alluvione che ha colpito il paese, malgrado i saccheggi e le devastazioni della società dello spettacolo offerti dai campionati europei di calcio, forzando le catene poste alla lotta di classe dal terrorismo, può innescare la rinascita di una nuova solidarietà di classe che come un vento impetuoso scuota tutta l’Europa.
Un segnale in questa direzione può venire anche dalle elezioni spagnole e dalla probabile vittoria dell’alleanza tra Podemos e Izquierda Unida che si pensa possa relegare il Partito Socialista spagnolo in terza posizione tra i partiti del paese. In Gran Bretagna la gestione di Jeremy Corbyn sta imprimendo al Partito laburista un orientamento che lo allontana dai partiti socialisti continentali mentre la stessa candidatura Sanders negli Stati Uniti, benché soccombente di misura alla Clinton fa pensare che un’altra sinistra e possibile a livello istituzionale.
Vista in questa prospettiva la sconfitta elettorale alle amministrative da subita dal PDR (Partito Democatico di Renzi) va collocata in un contesto più generale di crisi dei partiti socialisteggianti ad alto tasso di trasformismo centrista come il Partito Socialista Francese quello tedesco e spagnolo che fanno buona compagnia al Pd italiano e che vengono sistematicamente battuti dalle destre come dai partiti populisti e insidiati dalle formazioni di sinistra.
Tuttavia se queste forze di rinnovamento della sinistra sul piano istituzionale vogliono avere la possibilità di crescere e rafforzarsi devono e possono farlo solo grazie a un ciclo di lotte che lei sostenga e in questa caso ancora una volta la battaglia di Francia ha una importanza strategica notevole e non mancherà di influenzare la sinistra di classe in Europa. Seppellire Renzi, le sue donnine, i suoi sodali è uno dei modi per difendere sul piano globale gli interessi dei lavoratori e delle classi subalterne. Si tratta di dimostrare che non c’è spazio politico per i servi delle multi nazionali, delle banche, del capitale finanziario e per i sostenitori della dittatura maggioritaria quale teoria politica di gestione dell’accumulazione capitalistica, che non c’è spazio per i cosiddetti governi del fare, degli esecutivi onnipotenti, per la dittatura istituzionalizzata di una componente politica che governa con meno di un terzo del consenso elettorale globale, ovvero con le tecniche di cartello tipiche della gestione delle azioni utilizzate dai soci di minoranza nelle società ad alta frammentazione azionaria.
E’ per questo motivo che un filo rosso lega le lotte in Francia, le prossime scadenze elettorali in Europa e i risultati del referendum istituzionale in Italia che si carica di ulteriori motivi di importanza e perciò richiede tutto il nostro impegno per il NO.

Gianni Cimbalo