OSSERVATORIO ECONOMICO

serie II, n. 27, maggio 2014

Precariato – La legge Poletti vorrebbe rendere più dinamico il mercato del lavoro al grido di “meglio un lavoro per un po’ di tempo che nessun lavoro” Certo che se i lavoratori non hanno tutele, non hanno peso contrattuale, qualsiasi ricatto da parte dei datori di lavoro è possibile. È ben noto che l’occupazione precaria non solo genera insicurezza sul futuro e quindi non è una buona leva economica, ma soprattutto non sfocia quasi mai in un impiego fisso. Tant’è che, per esempio dal 2010, a fronte di una flessione complessiva dell’occupazione in Italia, i contratti a tempo determinato sono
cresciuti, mentre sono calate le assunzioni a tempo indeterminato.

Il numero dei contratti a tempo determinato in Italia è un po’ più basso che nella Francia nella Germania; molto più basso dell’Olanda e soprattutto della Spagna, più alto di quanto non sia in Danimarca e nel Regno Unito. Per ciò che concerne la normativa è vero che in Germania non esiste l’obbligo di specificare la causale che rende opportuna l’assunzione a tempo determinato (obbligo che esiste in Francia ed anche in Spagna, ma più edulcorato), ma il contratto non può durare più di due anni e non e ripetibile tra le stesse parti. Il mercato del lavoro precario in Italia ora vanta (ci si passi il termine) la legislazione più liberale d’Europa.
Innovazione – Esiste il GII (Global Innovation Index), compilato annualmente. L’Italia risulta ventinovesima, ma rispetto allo scorso anno ha guadagnato sette posizioni, più di qualsiasi altro paese europeo. È interessante notare che tra i primi dieci paesi al mondo non troviamo né la Germania né la Francia (che pure guadagna quattro posizioni). La Finlandia che è sesta, l’anno scorso era quarta. Il paese a più alto tasso di innovazione risulta essere la Svizzera, seguita dalla Svezia, dal Regno Unito e dagli Stati Uniti d’America. In fondo alla graduatoria troviamo paesi africani e del medio oriente. (Il
Sole 24 ore, a.149, n° 128, 11 maggio 2014, p. 15). Lascia perplessi che produttori che detengono quote considerevoli di marcato internazionale, quali la Germania e Cina, non figurino in questa classifica in posti di rilievo e che vi figurino Stati Uniti e Regno Unito ne siano ai vertici, paesi dalla grande presenza nella finanza internazionale, ma declinanti in quanto produttori di merci; e questa impressione risulta fortificata dal primato della Svizzera. Sorge spontanea la considerazione che forse la pretesa innovazione non sia salutare per l’economia reale.
Subsahara – La Duetsche Bank fiuta l’affare. Le potenzialità dell’area subsahariana in fatto di produzione di prodotti alimentari sono enormi (Il Sole 24 ore, a.149, n° 110, 22 aprile 2014, p. 14). Già ora dall’Africa australe proviene circa il 65% del cacao di tutto il mondo; il 45% dei semi di sesamo; il 29% dell’anacardio; il 15% del Tè: ed il 10% del tabacco. Ma solo il 5% di frutta e verdura. Cosa manca, a detta della DB, all’area per decollare definitivamente? Molte cose. Vie di comunicazione prima di tutto; di poi meccanizzazione, irrigazione e fertilizzanti. Certo , si dice nel rapporto, che la
rivoluzione agraria dovrebbe avvenire senza che l’uso di fertilizzanti “provochi distorsioni”; infatti l’esperienza dimostra che “sussidi e politiche di prezzo dei fattori di produzione agricoli portano in genere a un uso eccessivo di pesticidi, fertilizzanti, acqua e carburante o incoraggiano il degrado del territorio”. L’analisi è corretta, come le esperienze passate dimostrano, ma quali siano i correttivi da apportare perché ciò non si verifichi non è detto. C’è poi un fattore molto preoccupante. Viene messo in luce che l’80% della produzione avviene da parte delle “small holders”, o microimprese; in altre
parole la grande massa dei contadini detentori di un loro piccolo appezzamento di terreno. Non si pensi certo che la DB, nel suo notorio altruismi e con la sua ben nota sensibilità ai problemi sociali, voglia eliminare questo tessuto produttivo: esso, nei suoi piani, deve restare, ma potenziato da una partnership a tre: oltre ai produttori locali, grandi imprese multinazionali e forze politiche. È una prospettiva che fa venire i brividi. Quello che si profila è la distruzione di un’economia di sussistenza per far posto ai
profitti internazionali.
Governo – Vale la pena di leggere l’articolo di GIORGIO SANTILLI , Cantieri, solo 244 milioni alle scuole, in Il Sole 24 ore, a.149, n° 114, 26 aprile 2014, p. 6, dedicato al decreto Irpef del Governo Renzi.
Evidenziamo solo i dati principali. “Di concreto ci sono soltanto 244 milioni […] liberato nel biennio 2014-2015 per i comuni […] rispetto ai 3,5 miliardi di svincolo del patto di stabilità annunciati da Matteo Renzi”. Nei fatti, i lavori pubblici continueranno a cadere il Documento di Economia e Finanza prevede infatti per il 2014 un’ulteriore drastica riduzione degli investimenti pubblici: altri 1.400 milioni persi quest’anno (siamo a 27.132 milioni) e altri 900 nel 2015, dopo i 4,8 miliardi persi dal 2011 al 2013.” Rispetto al PIL questi sono i dati degli investimenti pubblici: 2011 il 2%; nel 2013 1,7%; nel 2014 1,6% e nel 2015 1,5%. Anche il pagamento dei debiti della pubblica amministrazione esclude
quelli in conto capitale, cui è interessato il settore delle costruzioni, per “concentrasi, in sostanza, sui beni e servizi del settore sanitario.”
Guerra – Cosa ben risaputa è che la guerra rianima le economia capitalistiche agonizzanti, come è altrettanto ben noto che dalla crisi del 1929 gli Stati Uniti d’America ne uscirono solo grazie alla seconda guerra mondiale. Comunque, la lettura dei dati fa sempre una certa impressione (Il Sole 24 ore, a.149, n° 141, 25 maggio 2014, p. 14). Fatto 100 il PIL degli USA nel 1929 era stabile sotto il 100 ancora nel 1939, volava oltre i 200 nel 1944, verso i 250 n3l 1954 e a circa 300 nel 1959; non c’è male come crescita. Ma anche i perdenti non se la sono vista poi così brutta. Ancora una volta fatto il PIL dell’Italia nel 1929, ancora una volta esso si manteneva abbastanza stazionario per il decennio successivo, e la congiuntura era un po’ meno grave, sostenuta dall’interventismo statale del regime fascista, ma nulla di veramente rilevante; le tare restavano sotto superficie. Ovviamente la guerra, combattuta in Italia e non negli USA piegava l’economia nazionale anche al di sotto del 50% del 1939, ma nel 1945, terminato il conflitto la congiuntura prendeva a risalire per raggiungere quota 200 (cioè
oltre il doppio dell’inizio della crisi) nel 1959; in altri termini se nel decennio prebellico l’economia era rimasta stagnante, nel decennio postbellico il PIL nazionale raddoppiava. Come sempre detto le guerre le perdono i popoli e le vincono sempre i padroni.

chiuso il 25 maggio 2014

Saverio