1. La fine della contrapposizione di classe e l’unità nazionale

L’Italia è stato uno dei paesi dell’occide nte europeo più difficile da “normalizzare”, liberandolo dalla speranza di emancipazione attraverso la lotta di classe. La condivisione da parte di larghi strati della popolazione dell’autorganizzazione della classe operaia, con i suoi principi di solidarietà, la sua cultura antagonistica, la sua capacità politica, una diffusa diffidenza per gli istituti della democrazia rappresentativa da sostituire con da forme di autogoverno dei lavoratori ha caratterizzato la lotta di classe in Italia fino a quando il Partito Comunista Italiano non ha conquistato l’egemonia nella sinistra.
La conquista di questa egemonia non è stata né rapida né indolore. Si tratta di un processo lungo che inizia con il massacro delle componenti interne dello stesso Partito Comunista ad opera degli stalinisti e dei servi della Terza Internazionale, Prosegue con lo sterminio degli anarchici durante la guerra di Spagna, prosegue nella Resistenza con l’eliminazione selettiva dei migliori combattenti libertari. Nasce così nel sangue l’egemonia sulla sinistra istituzionale, emarginando gradualmente il Partito Socialista e si conclude con la marcia nelle istituzioni iniziata, con fasi alterne, dopo la sconfitta del fascismo.

La Resistenza, il PCI e Yalta
La Resistenza è nata come lotta di popolo. In essa hanno combattuto comunisti anarchici e marxisti, socialisti, azionisti, cattolici, semplici cittadini. Si formarono numerose formazioni combattenti diversamente composte.
Con la nascita del “Partito nuovo” Togliatti su indicazione del Comintern, provvide all’eliminazione sistematica di numerosi dirigenti e militanti di formazioni partigiane: anarchici, comunisti di organizzazioni comuniste non togliattiane, socialisti, chiunque fosse in grado di contrastare l’egemonia togliattiana sulla sinistra e la stessa resistenza partigiana; si veda per esempio la storia di Facio, nome di battaglia di Dante Castellucci, ricostruita nei volumi di Capogreco, C. S., Il piombo e l’argento, Roma, Donzelli, 2007, e nelle memorie della sua compagna, Seghettini, L., Al vento del Nord. Una donna nella lotta di Liberazione, Roma, Carocci, 2006

Non vi è dubbio che il PCI contribuì alla nascita delle istituzioni repubblicane, ricercando il ruolo di forza costituzionale, destinata perennemente a svolgere un ruolo di cerniera del sistema, condizionato com’è dalla politica dei “blocchi” che lo relega all’opposizione. Malgrado questa scelta il paese conosce fasi di grande conflittualità sociale, negli anni ’50 e ’60 e soprattutto come quella caratterizzato dall’autonomia operaia che, iniziata nel 1968-1969, ha attraversato il ciclo di lotte degli anni Settanta.

Le conquiste del ’68
Il ciclo di lotte che parte nel 1968-1969 permette di conquistare aumenti salariali uguali per tutti, la diminuzione dell’orario, un sistema pensionistico generale, e si lotta per la casa, la salute, i servizi. Il punto di arrivo è costituito dallo Statuto dei lavoratori e dal Sistema Sanitario Nazionale. I contratti nazionali acquistano efficacia e cadono le gabbie salariali, viene conquistato il punto unico di contingenza e si avvicinano le retribuzioni tra operaie e impiegati, si generalizza il diritto di assemblea, si costituiscono i Consigli di Fabbrica e di Zona, forme di partecipazione e contropotere.

Ancora una volta il PCI riesce a utilizzare la forza espressa dal movimento di classe per aprirsi la strada all’ingresso nell’area di Governo. Il suo segretario Enrico Berlinguer teorizza la politica di unità nazionale, sostenendo l’esistenza di un comune interesse tra capitale e lavoro, e perciò decide il sostegno al quadro politico esistente, in cambio di un definitivo inserimento del suo partito nell’area di governo. Ma per rendere credibile la sua proposta il leader del PCI doveva dare in cambio il controllo del movimento operaio e porre fine al ciclo di lotte iniziato nel 68- ’68.
Per raggiungere questo obiettivo viene indetto il congresso sindacale unitario (CGIL-CISL-UIL) dell’EUR del febbraio 1978, il quale, sia pure tra molti contrasti, approva una piattaforma con la quale si propone lo scambio tra moderazione salariale e riforme sociali. Il sindacato, fino ad allora motore dell’autonomia operaia, soprattutto nelle fabbriche e sui luoghi di lavoro, sarebbe diventato, insieme alla sua controparte padronale, soggetto di una trattativa continua e di una mediazione degli interessi dalla quale dovevano scaturire accordi capaci di disinnescare il conflitto di classe. Questo metodo, di soppressione quando non di prevenzione del conflitto, prese il nome di concertazione ed ebbe l’effetto di mutare geneticamente il sindacato da strumento di lotta in componente istituzionale del sistema di governo.
Berlinguer, l’artefice di questa strategia non ne vide gli effetti perché morì improvvisamente nel giugno del 1978, compianto da molti dei suoi e da una sapiente campagna di valorizzazione del suo operato. Aveva ormai piantato i semi della sconfitta che altri avrebbero raccolto.
Nel 1975 un accordo tra Confindustria CGIL e altri sindacati introdusse l’indennità di contingenza (detta scala mobile) per consentire l’adeguamento automatico, se pur parziale all’inflazione. Lo strumento era necessario per porre un freno alla costante conflittualità sul salario.

L’indennità di contingenza o scala mobile
Era un sistema di rivalutazione automatica delle retribuzioni dei lavoratori dipendenti introdotto in Italia già nel 1945 a seguito di un accordo tra la Confederazione generale dell’industria italiana e la Confederazione generale del lavoro allora unitaria. Il “meccanismo d’indicizzazione” delle retribuzioni consentiva di adeguare il salario alla crescita dei prezzi al consumo e aveva lo scopo di proteggere il potere d’acquisto dei salari, adeguandolo automaticamente a quello dell’inflazione sulla base di aumenti che, a livello provinciale, erano uguali per tutti i lavoratori, indipendentemente dalla categoria di appartenenza, ma diversificati per età e genere.
Nel 1951 si stabilì che alle variazioni dell’indice dei prezzi (determinati con un “paniere” che contenevano i prodotti supposti fondamentali per la vita delle famiglie), scattavano corrispondenti aumenti delle retribuzioni. Il punto di contingenza era uguale per l’intero Paese e per tutti i comparti dell’economia nazionale, ma con valori diversi a seconda della categoria, della qualifica, dell’età e del genere.
L’accordo confederale del 1975, nel rispetto dell’egualitarismo salariale sostenuto dalle lotte, stabilì l’unificazione del valore nominale del punto di contingenza (con punto unico e pesante per le retribuzioni più basse) che divenne gradualmente l’elemento preponderante dell’intero incremento retributivo.

All’inizio la classe operaia e i movimenti sociali opposero una strenua resistenza (movimento del 1977) sia all’accordo di solidarietà nazionale, sia alle nuove relazioni sindacali, ma la controparti – Governo- Confindustra e sindacati – utilizzarono il rapimento (marzo 1978) e l’uccisione di Aldo Moro per sostenere la bontà della loro linea e per criminalizzare la lotta di classe in tutte le occasioni nelle quali essa assumeva come punto di riferimento gli interessi dei lavoratori. Il terrorismo divenne strumento di autoconservazione del sistema politico, istituzionale, di sfruttamento e arma per spegnere il conflitto sociale.
Così la politica dell’EUR potette dispiegare i suoi effetti, smantellare l’autonomia dei lavoratori conquistata con dure lotte, eliminare progressivamente il potere dell’assemblea nella direzione delle lotte, nella gestione e nel giudizio sulla conclusione delle vertenze e dei contratti. Da allora i lavoratori e il movimento sindacale stesso passarono di sconfitta in sconfitta. La sanzione della vittoria delle forze padronali e di governo si ebbe con l’abolizione (a partire dal referendum abrogativo) della scala mobile del 1984, avvenuta progressivamente che segnò l’attacco al salario dei lavoratori, avviando la fine di quel ciclo di lotte.

I primi frutti della concertazione: l’abolizione della contingenza

In realtà la politica dell’EUR produsse i suoi primi effetti con l’intesa tripartita del 1981 tra Confindustria, Federazione Sindacale Unitaria e Governo, per il contenimento dell’inflazione entro tassi programmati e, quindi di contenimento della dinamica salariale e del costo del lavoro, (protocollo Scotti del 22 gennaio 1983) stabilendo un nuovo valore del punto di contingenza, ovvero dell’incremento periodico dei salari. Un ulteriore contenimento del meccanismo venne predisposto dal Governo Craxi nel 1984, inutilmente avversato da un referendum abrogativo.
L’accordo intercompartimentale del 18 dicembre 1985, attuando una riforma della scala mobile., previde tra l’altro, per i dipendenti pubblici, un nuovo sistema d’indicizzazione a cadenza semestrale a partire dal 1° maggio 1986. Tale accordo, accettato dalla Confindustria, fu esteso anche al settore privato con la l. 38/1986, che ne decretò la vigenza sino al 31 marzo 1989.
Dal 1992 il funzionamento della scala mobile è cessato.

Dalla contrattazione alla politica dei redditi

Con la modifica della scala mobile del 1984 bisognava mettere a punto un nuovo sistema di relazioni che inglobasse i sindacati nelle istituzioni. La soluzione venne individuata nella politica dei redditi che presupponeva l’esistenza di un interesse comune tra capitale e lavoro al contenimento dell’inflazione attraverso il controllo delle variabili costituite dai salari e dai margini di profitto. Ciò nel presupposto che perché non vi sia inflazione il salario nominale può variare nella stessa misura della produttività, così che il margine di profitto non si modifichi. In questa ottica, l’inflazione è il risultato di un ‘gioco’ non cooperativo tra le parti sociali per accrescere la propria quota di reddito. La politica dei redditi agisce, quindi, modificando la distribuzione delle risorse prodotte rispetto a quella che emergerebbe spontaneamente sul mercato.

La politica dei redditi
Per politica dei redditi si intende uno strumento di regolazione dei rapporti tra salari e prezzi. Essa si serve della concertazione tra imprenditori e sindacati che condiziona la crescita dei salari in relazione all’aumento della produzione e degli utili d’impresa. Questo elemento è contenuto in un accordo confederale siglato il 23 luglio 1993 da CGIL,CISL e UIL Confindustria e Governo. Forti opposizioni all’accordo sono venute dalla FIOM e dalla rete del “28 aprile”, costituita da Giorgio Cremaschi e dai sindacati di base perché l’accordo annulla le possibilità di lotta e di mobilitazione del sindacato, portando al progressivo smantellamento delle organizzazioni di classe e alla sempre maggiore perdita del potere d’acquisto dei salari.

Partendo da questi presupposti con il protocollo sulla politica dei redditi del 1993 sull’occupazione, gli assetti contrattuali, le politiche del lavoro e il sostegno al sistema produttivo, imprese, sindacati e governo sottoscrissero un accordo in più punti che rappresentò il primo sistematico intervento di politica dei redditi a livello istituzionale.
A partire da questo, in tutti gli accordi di concertazione dell’ultimo decennio del secolo. (l’Accordo per il lavoro, del 1996; il Patto sociale per lo sviluppo e l’occupazione, del 1998, il cosiddetto Patto di Natale; il Patto per l’Italia – Contratto per il lavoro, del 2002) temi cruciali come la politica dei redditi e di contenimento dell’inflazione si intrecciano con nuovi obiettivi e priorità, quali la politica della spesa pubblica e dell’occupazione, la riforma del mercato del lavoro, la modifica degli assetti della contrattazione collettiva e la formalizzazione delle procedure della stessa concertazione.
Il colpo finale alla politica dei redditi venne dato dal Governo Berlusconi che, mentre pretese e impose moderazione salariale, non attuò nessuna politica di intervento a sostegno dello sviluppo e dell’occupazione e preferì partire dal blocco sostanziale dei rinnovi contrattuali per passare poi all’attacco ai diritti dei lavoratori.
La miope politica sindacale del continuo compromesso e della concertazione a tutti i costi aveva creato le condizioni di debolezza strutturale che servivano a portare fino in fondo la sconfitta dei lavoratori.
Può quindi partire l’attacco ai diritti cominciare dalla richiesta di abolizione dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, contrastato da grandi mobilitazioni.