Errare e perseverare

Puntuali come le foglie d’autunno sono arrivati i dati internazionali sui livelli di istruzione risultanti dalla ormai ben nota indagine OCSE-PISA. Altrettanto puntuali sono giunti i commenti, tutti tesi alla lamentazioni sulle deplorevole situazione della scuola italiana, anche se questa volta un po’ mitigati rispetto alla norma. Ad essi, i risultati, dedica ad esempio una pagina “Il sole 24 ore”: a. 149, n° 327, 8 dicembre 2013, p. 12. L’analisi
riguarda i risultati sulle competenze scientifiche, per le quali “l’Italia rimane sotto la media Ocse per le scienze ma migliora la qualità” (citazione testuale).
Partiamo dall’articolo L’importante nelle aule è decidere gli obiettivi di Flavia Forandini. L’articolista riporta l’opinione degli estensori del rapporto che ritengono che le strutture scolastiche e gli investimenti nel settore istruzione siano una base indispensabile del successo di un sistema formativo. Giustamente viene rilevato che queste sono condizioni necessarie, ma anche non sufficienti in quanto sistemi scolastici con ottime
attrezzature ed edilizia d’eccezione non producono sempre risultati altrettanto soddisfacenti. Viene anche notato che “paesi che pagano di più i docenti hanno mediamente anche risultati migliori per gli studenti”, ma “oltre un certo livello di spesa pro capite, l’eccellenza necessita di qualcosa di più che di mero denaro”. I ragionamento è corretto, ma viziato nelle conclusioni: se l’investimento non è di per sé garanzia di successo, senza di esso è ben difficile che i risultati positivi ci siano. È quindi stupefacente che l’Italia abbia ancora un sistema che, come vedremo, se la batte con la concorrenza estera nonostante il fatto che “si è visto diminuire i fondi per l’8% nell’ultimo decennio”.
Ancora più curioso risulta il suggerimento che l’articolo propone per quel quid in più che certifica il successo di un sistema formativo: l’informatica; e la colpa è dei dirigenti scolastici che vi credono poco. Ora la diffusione dei mezzi informatici nella scuola italiana è una delle fissazioni ministeriali, accelerata dai ministri Profumo e Carrozza, tanto che oramai le risorse erogate alle scuole sono quasi totalmente assorbite dal wireless (cfr anche http://www.ucadi.org/scuola-universita/338-una-carrozza-chiamata-desiderio). Ovviamente tutte le innovazioni sono proficue e ben vengano, ma che non si pensi anche alla formazione dei docenti, all’assetto delle discipline, ai curricoli, al tempo scuola, all’impegno dei discenti è per lo meno curioso. Infine è ben noto che le giovani generazioni sono digitali per il contesto ambientale in cui sono cresciute; quindi la scuola non è il luogo dove queste competenze devono essere “trasmesse” da coloro che ne hanno meno dimestichezza, ma il luogo della riflessione sul loro utilizzo; quindi l’inserimento delle LIM (Lavagna Interattiva Multimediale) è un perfetto strumento per ottimizzare l’attenzione degli studenti, per potenziare le possibilità della trasmissione del
sapere, ma non sono di per sé la soluzione alle carenze dell’apprendimento.
L’impressione viene confermata dall’articolo Se lo studente sale in cattedra e insegna l’ebook ai docenti, di Pierangelo Soldavini. Vi si racconta la meravigliosa esperienza del Patronato San Vincenzo di Bergamo in cui gli studenti di quinta hanno insegnato ai propri docenti a costruire un e-book per un manuale di carrozzeria per le classi prime. “Non sapevano neanche usare un semplice Powerpoint”, hanno detto gli studenti dei docenti. Alcune brevi riflessioni. Che una lettura digitale possa essere allettante ed accattivante può risultare vero; che essa sia foriera di studio e meditazione forse un po’ meno vero. Che sia così sconvolgente e difficoltoso apprendere, ad esempio, Powerpoint è per lo meno dubbio. Che i docenti siano in media così privi di cultura informatica è poco credibile, se si escludono alcuni, pochi, di quelli prossimi alla pensione e che vengono trattenuti in servizio grazie alle “moderne” leggi sui trattamenti previdenziali.
Vi è anche un distillato di saggio del prof. Roberto Maragliano Un sapere che nasce dal saper aggregare, in difesa dell’e-learning. L’esimio cattedratico mi è noto personalmente in quanto negli anni ottanta ho avuto l’illuminante occasione di ascoltarlo in una difesa spassionata della Nintendo, quale autentica ed unica fucina di sapere innovativo: sì, la Nintendo, quella dei videogiochi. Orbene nel succo di sapienza profuso in una breve colonna del giornale egli sostiene che “a una tecnologia di tipo analitico (il libro di testo, ndr) che mira a dividere e scomporre gli oggetti del conoscere sì da poterli meglio dominare starebbe subentrando una tecnologia (quella digitale, ndr) che punta invece ad associare, aggregare, integrare (le virgole lasciano a desiderare, ndr). Occorre, prosegue l’estensore, unirle. Quello che è decisamente poco chiaro è in base a quale ragionamento l’insegnamento a distanza consenta la facoltà di sintesi, di ricomposizione delle conoscenze successiva alla loro analisi. Forse il prossimo minisaggio sarà più chiaro!
Ma veniamo ai dati, quelli che vengono analizzati nell’articolo principale La scuola vince se condivide di Andrea Bonaccorsi. Si parla degli apprendimenti scientifici e “l’Italia è in 32ima posizione, con un indice di 485, di poco inferiore alla media Ocse di 494”. Ora tutti sanno che una rilevazione statistica è soggetta ad una incertezza sul risultato e quindi un 1,8% di differenza sta ben dentro l’indeterminazione ineluttabile ed è quindi
scorretto presentare quelle cifre come valori assoluti. Se poi si guarda il grafico allegato si può constatare che l’Italia è pressoché appaiata alla Gran Bretagna, alla Francia ed alla Spagna, paesi in cui la spesa per l’istruzione si colloca ben al di sopra della nostra (dati 2011): Italia 4,2% del PIL (era il 4,7% nel 2000); Gran Bretagna 6,5% (nel 2000 5,0%); Francia 6,0% (nel 2000 5,9%); Spagna 4,7% (4,4% nel 2000). Si noti che, tra
l’altro, mentre la spesa per l’istruzione è aumentata in tutti i paesi nel nostro è calata. Ma oltre ai dati un’altra considerazione merita attenzione. I risultati di un indagine non sono mai del tutto oggettive, ma dipendono anche dalle domande poste e dalla loro formulazione. Se qualcuno ponesse attenzione a questo fatto ed analizzasse il questionario e le risposte considerate correte col relativo punteggio farebbe scoperte interessanti.
Partiamo dalla parte scientifica. Le domande e le relative risposte sono formulate con un ottica ben lontana dall’impostazione didattica vigente nel nostro paese e di converso ben confacente ad un discente anglosassone. La richiesta di ragionamento è sempre formulata in modo da adattarsi ad un ragionamento euristico e pratico, conseguente ad un insegnamento che dal particolare sale al generale; questo è un metodo tipico della scuola di stampo inglese e non della nostra che tende ad impostare da sempre a far discendere il particolare dal generale. Senza entrare nel merito di quale dei due sistemi sia più proficuo, è chiaro che prima di fare raffronti sarebbe necessario uniformare i metodi o come minimo porre dei quesiti adatti ai diversi metodi di insegnamento. Questo perché spesso essi sono posti in modo da favorire più una conoscenza pratica, legata all’esperienza, che una conoscenza astratta. Non solo ma talvolta le risposte sono considerate corrette se rispondono ai criteri posti dall’estensore del quesito e non quelle che sono altrettanto giustificate partendo da un altro punto di vista.
Quella, però, che suscita maggiori perplessità è la metodologia della rilevazione delle competenze relative alla comprensione del testo. Anche qui l’Italia risulta carente, ma che dire dell’importanza data alla decrittazione delle etichette degli alimenti e dei manuali di utilizzo degli elettrodomestici. L’assetto classicistico della scuola italiana ne esce senza dubbio penalizzato. Ma siamo proprio sicuri che queste “competenze”
servano davvero a formare il “cittadino consapevole” e non siano invece utili a creare il consumatore compulsivo? E questo in un momento in cui, per giunta, la società dei consumi è devastata dalla crisi economica più lunga e profonda della storia del capitalismo, per cui si orienta il discente verso la soddisfazione di bisogni che non sarà in grado di soddisfare.

Saverio Craparo