LA DISFIDA DI BURLETTA

Il termine “voto utile”, per quanto la mia modestissima memoria possa aiutarmi, non mi risulta sia stato utilizzato se non dopo il giro di boa degli anni’80 del secolo scorso.
Quando, da parte di classi dirigenti ormai al carro di quelle dominanti, si decise di intraprendere la strada che avrebbe portato dalla partecipazione democratica alla “governance”, termine che, assieme a “divisivo”, “bipartisan”, “memoria condivisa” (per tacere delle parole di Veltroni al Lingotto in cui esplicitò in maniera chiarissima il concetto) indicava una strada per cui il conflitto aperto, la diversità di interessi, il ruolo centrale di un luogo di mediazione (“il parlamento”) erano da considerarsi elementi perturbatori di un “interesse generale”.
Interesse generale non più legato, quindi, alla sintesi (con le inevitabili egemonie date dai rapporti di forza oggettivi e congiunturali) delle diverse opzioni di cui le classi sociali sono il perno, ma un presunto “interesse generale” al di fuori di ogni considerazione storica e politica.
Una specie di patriottismo vuoto che, è evidente, stante l’oggettiva esistenza di egemonie reali e rapporti di forza reali, si era prontamente riempito dei valori del soggetto dominante.
È ovvio che, quindi, il vocabolario cambiò mettendo al centro “l’imprenditore” e in periferia “l’operaio” (alla cui presunta scomparsa, ovvero alla teorizzazione della sua insignificanza nella famosa e fumosa era del “terziario”, la “sinistra” fornì un amplissimo bagaglio teorico ed empirico).
In questo contesto, per cui il capitale usciva dalla storia per entrare nella teologia, gli ostacoli a tale “pilota automatico” (per dirla con Draghi), dove alla politica spetta la messa in opera e non più un progetto (in quanto il progetto è già dato una volta per sempre), anche le parole che indicavano l’esistenza di un oggettivo conflitto sociale (ovvero la base della democrazia parlamentare dal secondo dopoguerra) vennero ritenute fuori contesto, disturbatrici del manovratore, deus ex machina eletto magari dopo un plebiscito (le elezioni come la scelta del capo e non come espressione della rappresentanza del paese e quindi elemento indispensabile per la mediazione parlamentare) a volte rinforzato da un plebiscito interno.
In questo contesto ogni elezione diventa un redde rationem, per cui, paradossalmente (ma non troppo) la politica uscita dalla finestra nel suo aspetto più alto e nobile (ovvero la elaborazione di progetti politici di ampio respiro data dalla presenza di partiti di massa, certificati da un’ampia partecipazione popolare, non solo limitata al voto, da discutere e mediare nel luogo deputato della democrazia), rientra dalla porta nel suo aspetto più deleterio e “tifoso” non più legata ad un qualche progetto ma riempita solo di fazioso odio per l’avversario, apoliticamente motivato.
Si crea così una torsione enorme della Costituzione, non riconoscendo all’avversario neppure la dignità di esistere, in un percorso di radicalizzazione linguistica estranea al linguaggio politico di appena un quarantennio fa.
Una radicalizzazione linguistica continuamente frustrata dall’impossibilità di modificare alcunché nella famosa e nenniana “stanza dei bottoni” (che pare oggi davvero esistere e non all’epoca del segretario socialista) in quanto i “comandi” sono situati ormai al di fuori dall’universo della contendibilità (lasciamo stare le briciole – che tanto briciole
non sono in senso assoluto ma non in senso relativo – che cadono dalla tavola apparecchiata e che vanno a miracolare i diversi soggetti fisici intercambiabili).
Sotto questo aspetto, è ovvio, anche la minima deviazione rispetto alla guerra totale venga considerata un cedimento al nemico. È vero che anche negli anni ‘70 ricorreva la frase “chi li paga?” ma quel contesto era diverso, perché, comunque, la legge elettorale proporzionale, permetteva anche a piccoli soggetti politici di poter rappresentare una fetta d’Italia in Parlamento.
È quindi lampante che lo smantellamento sia cominciato dalla legge elettorale. Il Parlamento non doveva essere l’ostacolo al dispiegamento delle scelte decisionali dell’esecutivo.
Creando una narrazione per cui le elezioni sono il momento in cui i cittadini eleggono il governo e non il parlamento, che, per l’appunto, nelle democrazie parlamentari, servono a controllare l’esecutivo.
Infatti la fregola per il presidenzialismo, o semi-tale nasce e si sviluppa in quel contesto. Quello dove Craxi dileggiava le assemblee dove si legiferava sull’“eviscerazione delle sardine”, dando una rappresentazione caricaturale del luogo deputato alla vita democratica, attraverso i riflettori accesi sulle singole – e fisiologiche – distorsioni.
In quel clima si consumano le varie distruzioni anche in altri luoghi della democrazia: Comuni e Province. Rimane da pensare che ormai la vera partecipazione democratica avvenga nei CDA delle Multinazionali e nelle assemblee dei condomini, dove i soggetti che vi partecipano, essendo interessati in prima persona nelle decisioni dei rispettivi consessi, stanno bene attenti a quello di cui discutono e alle decisioni che prendono.
Il “voto utile” è il tassello finale della chiamata alle armi per la finta guerra politica totale. O con noi o contro di noi. Voto “A” perché vince “B”.
Date queste premesse e questo contesto c’è davvero da meravigliarsi che ancora oggi milioni di cittadini si rechino alle urne, per deporre una scheda ormai svalutata ma che, quasi sempre, rappresenta l’unica occasione per “fare politica”.
Ma davvero questa strada ha portato ad una qualche efficacia ed efficienza legislativa? Se guardiamo le leggi approvate nell’ultimo ventennio, molte di esse sono, soprattutto, orientate ideologicamente (perché “morte le ideologie” ne è rimasta una sola), spesso scritte coi piedi, incomprensibili e, altrettanto spesso, distrutte dalle varie decisioni della Corte Costituzionale.
Lampante il caso delle leggi elettorali, approvate a maggioranza come “arma contro l’avversario” (cioè l’esecutivo si fa le regole di volta in volta), demolite dalla massima Corte.
Poi, il cedimento alle “leggi del mercato” (inscritte sulla pietra come nelle tavole della verità), con i vari smantellamenti delle leggi a tutela dei lavoratori, alla ristrutturazione ideologica della scuola, alle devastanti modifiche della Costituzione.
Davvero un caso esemplare di quell’ordoliberismo che non usa meno Stato ma che, anzi, lo torce completamente verso il mercato (che non è appunto stato di natura).
Il termine “voto utile” è quindi indispensabile non affinché si rafforzi un qualche partito di massa, ma proprio affinché sia chiaro che nella guerra totale chi non fa parte del gioco è un nemico.
Viene da pensare che sarebbe anche giusto, se ci fosse da conquistare il Palazzo d’Inverno, ma che venga richiesto di farlo per pura fede, assomiglia a chiedere alla Rana nella pentola se ha un cerino.