Solidarietà sociale, sfruttamento capitalistico, lotta di classe

La riorganizzazione produttiva

La crisi scatenata dal Covid 19 ha fatto emergere i difetti e le carenze del modello economico attualmente utilizzato, basato sulle piattaforme di distribuzione, i corridoi di comunicazione e lo spostamento costante delle componenti prodotte per essere assemblate alla fine del processo produttivo. Questo modello fatto di delocalizzazioni e distribuzione multinazionale del lavoro aveva come principale obiettivo di produrre dove il costo del lavoro era più basso, spezzando il ciclo produttivo e riducendo al minimo il costo del magazzino, presumendo che la circolazione delle merci sarebbe potuta avvenire con sicurezza e con continuità, con estrema velocità, elemento essenziale del funzionamento del mercato. Il blocco della produzione e la chiusura repentina dei mercati e dei centri di produzione ha spazzato via questa illusione. Al tempo stesso si è capito che non tutte le merci sono uguali: vi sono delle produzioni strategiche sulle quali è bene che ogni sistema conservi un controllo diretto. L’esempio emblematico è quello delle maschere chirurgiche di protezione la cui produzione è stata delegata ad alcuni sistemi produttivi monopolistici, con il risultato di un’alta ricattabilità al salire della domanda. Si è perciò fatta strada la convinzione che ogni sistema produttivo deve individuare i beni e servizi strategici e conservarne le capacità produttive. Conviene perciò da ora in poi che i sistemi paese realizzino dei percorsi di filiera produttiva per alcuni beni sulle quali mantengono la loro capacità produttiva, magari mediante una rapida e prevista possibile riconversione produttiva degli impianti e che si giunga a un livello di coordinamento per grandi aree, perché il sistema produttivo di un singolo Stato dell’U.E., ad esempio, non potrebbe ragionevolmente coprire con le proprie capacità tutti i settori produttivi necessari. Questa necessità crea le condizioni favorevoli per far sviluppare quella che abbiamo definito anche nel numero precedemte di questa rivista economia neocurtense che si collega alla scelta/esigenza di privilegiare le produzioni a chilometro zero e facilitare la conversione verso sistemi ecologici di produzione con energia rinnovabile e sfruttabile in loco, venendo incontro alle strategie ambientaliste e ai progetti di green economy. Da queste scelte discende necessariamente una nuova divisione del lavoro nella quale le quote di produzione vengono individuate non con il criterio precedente del costo della manodopera più basso possibile ma tenendo conto di un insieme di parametri in parte da definire, ma tra i quali vanno certamente compresi il tipo di energia impiegata, l’impatto sull’ambiente e il territorio, le capacità del mercato di prossimità di assorbire il prodotto, garantendo comunque la copertura dei costi di produzione e lasciando a una circolazione più ampia i maggiori profitti. In altre parole la produzione si sposta verso le aree a sviluppo maturo e beneficia delle strutture comunicative e di organizzazione delle popolazioni di quei mercati che sono poi i maggiori consumatori dei beni prodotti e ciò malgrado che in quelle aree il costo del lavoro sia maggiore.

Il telelavoro

La rinuncia alla ricerca dei mercati del lavoro con un costo della manodopera a bassi salari viene compensata in questo nuovo modello dall’ampio ricorso al telelavoro nei paesi maturi, dotati di efficienti reti informatiche, di una diffusa digitalizzazione, di un accesso generalizzato agli strumenti informatici. Attraverso questa scelta si vogliono abbattere i costi di produzione e realizzare risparmi, sia pure parziali, sul capitale fisso. Intendiamo riferirci all’abbattimento del costo dei beni strumentali e soprattutto strutturali che costituiscono l’azienda, a cominciare dalla sede fisica, per finire ai costi dei servizi necessari, da quello energetico a quello degli strumenti tecnologici utilizzati e quant’altro. In questa organizzazione del lavoro l’imprenditore sposta il costo della sede, di parte della strumentazione di produzione e dell’energia sul lavoratore che, svolgendo la propria attività dalla sua abitazione, cede in uso una parte di essa al datore di lavoro; e così dicasi per il costo, appunto, dell’energia, come per il costo delle reti e quello dei computer, dell’ammortamento delle spese relative agli strumenti di produzione che si scaricano sul suo personale bilancio.

La maledizione operaia

Ovviamente non tutte le lavorazioni sono trasferibili al domicilio del lavoratore; quelle che restano fuori da questa possibilità sono, guarda caso, quelle più nocive, quelle che si svolgono negli ambienti più inquinati e rumorosi. Una quota del lavoro manuale, almeno fino alla completa robotizzazione del processo produttivo, è al momento ineliminabile; il lavoro non è finito, la classe operaia esiste ancora. Tutto ciò rappresenta un problema; se delocalizzare le lavorazioni in luoghi a basso costo del lavoro significava, di conseguenza, impiegare manodopera non sindacalizzata e la cui concentrazione non comportava forme di aggregazioni potenzialmente ostili (ZES in Cina), il “reshoring” riattiva classe lavoratrice di antica sindacalizzazione, la cui concentrazione può in prospettiva creare problemi. Anche in questo caso è pronta la contromossa, già sperimentata in vecchia data. Se il ciclo produttivo non è più dilatato su vasta scala, può comunque essere disseminato su di un territorio abbastanza vasto da impedire pericolose intersezioni, ma, nel contempo, abbastanza ristretto da costituire una zona circoscritta e controllabile. La rivoluzione informatica rende sempre più facile il coordinamento complessivo di un ciclo così frantumato, in modo da poter gestire le varie fasi e le relative corrispondenze, poter raggiungere il prodotto finito. Ciò offre un ulteriore vantaggio. Non solo i lavoratori sono confinati in piccole aziende in cui le relazioni sono ridotte al minimo, dove spesso il “padrone” non è riconoscibile perché il proprietario dello stabilimento spesso lavora fianco a fianco con loro ed è sfruttato anch’egli, solo un po’ meno. In questo microimprese le tutele sindacali non esistono, perché non vi entrano nemmeno i sindacati, ma per di più le condizioni di lavoro conoscono il minimo di tutele per la sicurezza ed il massimo di nocività dell’ambiente. La frammentazione della produzione può giungere a comprendere anche le botteghe artigiane per alcune lavorazioni. La reviviscenza dell’artigianato, in parte legata al recupero di lavori tradizionali e decaduti per l’ottenimento di prodotti di qualità e non massificati, si presta alla delocalizzazione di produzioni non troppo sofisticate, con i vantaggi di utilizzare manodopera apprendista, e quindi sottopagata, riversando ulteriore quota di costi fissi sul lavoratore; in questo caso è l’artigiano che si accolla tutti i rischi delle eventuali mancate commesse. Il padrone vero, quello che dirige il complesso del ciclo produttivo, è distante ed invisibile e gode del vantaggio di decentrare altri costi fissi, compresi quelli delle strutture fisiche della fabbrica e quella dei macchinari spesso complessi e costosi. È una conseguenza della nuova struttura la necessita di ricostituire delle scorte da adoperare in caso che una delle parti del sistema abbia dei ritardi che potrebbero rallentare l’intero ciclo e quindi ricreare un magazzino, quello che i Benetton negli anni ‘80 avevano eliminato grazie ad una rete in grado di dare ai terminali produttivi in tempo reale gli ordinativi che venivano evidenziati dai negozi di vendita; ma in quel caso la produzione era fatta di pochi passaggi (distribuzione dei filati, tessitura e colorazione centralizzata), ora si tratta di gestire un ciclo più articolato, non comandabile da commesse del momento.

Occorre studiare nuove forme di aggregazione

Molti anni fa, in presenza delle prime avvisaglie della frantumazione del ciclo produttivo nel territorio e delle prime esternalizzazione dei reparti della fabbrica, avevamo pensato alle forme necessarie perché la classe operaia potesse recuperare strutture organizzative in grado di ricostruire al proprio interno la conoscenza dell’intera filiera produttiva; allora questa struttura fu individuata nel Consiglio di Zona, ma questo strumento in realtà non è mai nato per la miopia sindacale ed oggi che il sindacato è molto più debole non è più ipotizzabile. Forse è possibile, invece, ribaltare la tecnologia a favore della riaggregazione dei lavoratori, come prospetta in questi giorni in un’intervista Noam Chomsky. Utilizzare cioè internet invece che per scambiarsi futili informazioni sui propri gusti o sulle proprie abitudini su facebook per ottenere improbabili amicizie, o messaggiare opinioni affrettate e disinformate su Tweet, creare gruppi dedicati allo scambio di informazioni reali e opinioni argomentate, in grado di ricostruire un sapere delle classi subalterne antagonista al mainstream. Per fare questo occorre anche che l’organizzazione sindacale si evolva offrendo un dialogo costante ai lavoratori, rispondendo con immediatezza ai problemi posti e offrendo soluzioni. Occorre che sia capace di organizzare discussioni virtuali, proporre forme di regolamentazione e contingentamento dei tempi di lavoro, che vanno contingentati rigorosamente. Occorre aprire una vertenza per costringere il datore di lavoro a accollarsi i costi degli strumenti di lavoro, delle reti dell’energia, a restituire un’indennità compensativa del diritto alla mensa. Questa rivista vuol essere un luogo di discussione e elaborazione per dare su questo versante un modesto contributo.

La Redazione