L’Unione Europea, già in crisi per l’evidente fallimento delle politiche ordoliberiste, che ne hanno caratterizzato la politica economica soprattutto dopo la crisi del 2008, rischia di uscire frantumata dalla crisi di ristrutturazione dell’economia che irrimediabilmente si renderà necessaria dopo la fine dell’epidemia. Tanto più perché la crisi in corso impoverirà ulteriormente le classi subalterne già messe in difficoltà dall’attenuazione del livello minimo e universale di protezione sociale accentuata dalla gestione dei rapporti di classe adottati prima dello scoppio della crisi. Già la Brexit aveva ridimensionato l’area di incidenza del dirigismo economico tedesco ed erano palesemente in crisi principi come il fiscal compact, di fatto disapplicato da numerosi Stati. Memori dell’esperienza disastrosa della Grecia e dell’intervento criminale del fondo salva Stati e della Banca Mondiale i diversi paesi erano indotti ad adottare politiche di bilancio in deficit. A ciò si aggiunga la vergognosa politica di dumping fiscale praticata da Lussemburgo, Olanda, Irlanda e Finlandia, paesi per larghi versi parassiti, che hanno fatto della politica delle basse tasse per le imprese che in questi paesi trasferiscono la sede legale, uno strumento di rapina dei proventi fiscali di altri paesi dell’Unione nei quali i profitti vengono maturati, tanto che il Parlamento Europeo stava discutendo di tassazioni delle multinazionali e di interventi regolatori del settore. Ma la fragilità vera del modello di produzione tedesco dipendeva dalla sua struttura basata sul rapporto con i paesi dell’Est, fornitori di manodopera a basso costo, spesso stagionale, che di fatto hanno costituito un’area “protetta” nella quale delocalizzare imprese e lavorazioni, grazie ai costi minori di manodopera, frutto delle legislazioni schiaviste in materia di prestazione di lavoro. Qualche esempio: lo sviluppo polacco pompato attraverso delocalizzazioni in un’area a controllo sociale rigido. alimentata da una emigrazione stagionale di lavoratori prevalentemente ucraini che deprime verso livelli sempre più bassi il costo del lavoro; i decentramenti produttivi in Ungheria dove vige una legislazione sul lavoro schiavista che prevede anche il lavoro gratuito obbligatorio per i datori di lavoro pubblici e privati (sul tipo delle corvée medioevali); gli investimenti nella Repubblica Ceca con costi del mercato del lavoro dove i salari non superano mediamente i 500 € al mese [Lo stipendio medio in Ungheria ammonta ad appena 418,47 € (mese lug. 2018) è più basso che in Repubblica Ceca 458,87 € (a luglio 2018) e in Polonia 480,20 € (a luglio 2018) dove è pagato in Fiorini, poiché il paese non ha adottato l’Euro. A pagare questa politica ha provveduto l’U.E. con finanziamenti enormi verso i suddetti paesi dell’Est Europa, istaurando un meccanismo premiale dove gli Stati europei sopportano i costi e la Germania incassa i profitti. Sono queste caratteristiche di fondo del modello a condizionare e generare le posizioni tedesche di rifiuto di strumenti di condivisione dell’indebitamento resosi necessario come gli Euro Bond o CovidBond che dir si voglia.
L’analisi di Mario Draghi
In un suo intervento sul Financial Times l’ex presidente della BCE, ha dichiarato che i costi economici conseguenti alle scelte adottate dai governi per contenere la pandemia ed i suoi effetti economici vanno sostenuti intervenendo a favore delle tante persone che rischiano di perdere le loro fonti di sostentamento e delle aziende di tutti i settori che si trovano ad affrontare un crollo degli introiti, e sono indotte a licenziare, producendo una profonda recessione che rischia di durare a lungo. Bisogna perciò reagire con forza e velocità, provvedendo a un significativo aumento del debito pubblico.” La perdita di reddito nel settore privato e tutti i debiti che saranno contratti per compensarla, devono essere assorbiti, totalmente o in parte, dai bilanci pubblici. Livelli di debito pubblico molto più elevati diventeranno una caratteristica permanente delle nostre economie e andranno di pari passo con misure di cancellazione del debito privato Il ruolo dello Stato è proprio quello di usare il bilancio per proteggere i cittadini e l’economia dagli shock di cui il settore privato non è responsabile e che non può assorbire”. Draghi ricorda che gli Stati lo hanno sempre fatto durante emergenze nazionali come in occasione di guerre, aumentando il debito pubblico. Ma importanti sono gli obiettivi: fornire un reddito di base a chi perde il lavoro, combattere il rischio di perdere il lavoro in modo da non danneggiare ka struttura sociale e permettere a famiglie ed aziende di riassestare i bilanci e ricostruire il patrimonio netto. Oltre all’erogazione di sussidi di occupazione e di disoccupazione e a rinviare le scadenze per imposte e mutui occorre proteggere l’occupazione e la capacità produttiva con sostegni immediati in termini di liquidità, per coprire le spese di gestione, delle aziende grandi piccole e medie, per i lavoratori e imprenditori autonomi; questi interventi devono essere adottati nell’ambito di un approccio globale. Per realizzare questi obiettivi i paesi europei hanno un solo modo efficace: mobilitare immediatamente “la totalità dei loro sistemi finanziari: i mercati obbligazionari, principalmente per le grandi aziende, i sistemi bancari e, in alcuni Paesi, anche i sistemi postali”. Spetta alle banche, presenti in ogni angolo del sistema economico creare denaro istantaneamente, consentendo lo scoperto o aprendo linee di credito, prestando fondi a costo zero alle aziende disposte a salvare posti di lavoro, poiché in questo modo diventano di fatto un veicolo di politiche pubbliche. Alle banche i governi devono fornire i capitali sotto forma di garanzie statali di linee di credito o di prestiti. Nei bilanci delle banche va previsto tutto lo spazio necessario a coprire queste operazioni. Il costo delle garanzie per attuare questi interventi dovrebbe essere pari a zero indipendentemente dal costo di finanziamento sopportato dal paese garante e che le emette. In alcuni casi il debito potrà essere ripagato, ma in altri probabilmente ciò non sarà possibile; ma queste politiche vanno comunque attuate con l’obiettivo di consentire alle imprese di investire in futuro. Inoltre, se l’epidemia di virus e i relativi blocchi dovessero perdurare più a lungo, realisticamente perdurando il blocco della produzione, il debito accumulato dalle aziende per mantenere i dipendenti al lavoro dovrebbe pertanto essere cancellato. I governi dovranno compensare direttamente le spese di chi si indebita, oppure fornire garanzie agli insolventi. Se si vogliono proteggere i posti di lavoro e la capacità produttiva, i governi dovranno assorbire gran parte della perdita di reddito causata dalla chiusura dei paesi. Non vi è dubbio che “I debiti pubblici cresceranno, ma l’alternativa – la distruzione permanente della capacità produttiva e quindi della base fiscale – sarebbe molto più dannosa per l’economia e, in ultima analisi, per la credibilità dei governi”. Inoltre alla luce dei livelli attuali e dei probabili livelli futuri dei tassi d’interesse, l’aumento del debito pubblico non comporterà costi di servizio. Ad avviso di Mario Draghi “Sotto un certo punto di vista l’Europa è ben attrezzata per affrontare questa crisi straordinaria: ha una struttura finanziaria granulare, in grado di incanalare fondi verso ogni ramo dell’economia che ne avesse bisogno. Il settore pubblico è forte e in grado di dare una risposta politica rapida. E la rapidità è essenziale per essere efficaci”. È necessario un cambiamento di mentalità poiché la crisi che stiamo affrontando non è ciclica, la perdita di guadagni non è colpa di nessuno; la chiusura di molti paesi deve essere affrontata con rapidità, impiegando le finanze pubbliche, mobilitando le banche e nel sostenerci l’un l’altro, come europei, per affrontare una causa comune. La strategia suggerita è senza dubbio di impostazione Keynesiana e nasce dalla consapevolezza che se i salari e i redditi sono depressi le merci non trovano acquirenti e quindi il profitto si interrompe, con conseguente depauperamento delle entrate fiscali, e così la crisi si avvita su se stessa.
La Germania ha perso il timone e fa solo resistenza
Sono circa quarant’anni che la Germania insegue l’obiettivo di asservire gli altri paesi europei grazie all’ordine economico che riuscì ad imporre a Maastricht e fidando sull’alleanza con la Francia. Ovviamente quegli assurdi parametri sono divenuti un cappio per le economie subalterne costrette a drenare capitali per il risanamento del debito pubblico accumulato, intralciando ed impedendo il loro sviluppo concorrenziale. Due sono i fatti che occorre ricordare. Prima di tutto quegli stessi parametri così vincolanti per gli altri non lo sono stati altrettanto per la Germania (e per la verità neppure per la Francia che ha così beneficiato della propria subalternità): infatti essi prevedevano un limite al surplus commerciale che i tedeschi non hanno mai rispettato, ma anche il famoso limite del 3% sul deficit è stato bellamente ignorato al momento del bisogno, quando le due Germanie si sono unificate. La seconda circostanza è quella del debito di guerra contratto nel 1945 che mai è stato pagato, ma che la generosità degli altri ha annullato in due tranche: la prima subito dopo la fine delle ostilità per consentire la ricostruzione del paese distrutto e una seconda ancora all’atto della riunificazione per ammortizzare i costi da essa derivanti. Dimentica di questi benefici la Germania ha fatto perno sui paesi satelliti e sulla Francia per imporre il proprio passo di marcia, cumulando profitti su profitti. Che l’U. E. fosse incentrata sugli interessi tedeschi è sempre stato evidente; ora anche gli occhi meno acuti ne hanno la riprova, a fronte dell’opposizione che essa coordina contro le garanzie richieste dalla crisi pandemica. Ma i tempi sono cambiati! Per troppo tempo l’opulenza della nazione ha reso miopi le sue classi dirigenti, ma soprattutto gran parte della popolazione, che si sente la formica che vede le altre cicale dibattersi nelle ristrettezze. La compressione dei mercati nazionali, spolpati dalle politiche di austerità ordoliberista, ha ristretto la loro capacità di assorbire merci. A questo si aggiunga che la trappola di Obama ha trascinato la Germania a decretare sanzioni verso la Russia, inaridendo così un altro florido mercato; mentre la strettissima relazione con la Cina più che un’occasione, come poteva apparire inizialmente, si è rivelata l’allevamento di un concorrente temibile. La crisi del 2007, da cui l’economia mondiale non è mai uscita, ha fatto il resto; sono ormai due anni, ben prima dell’emergere del Covid-19, che l’economia tedesca batte in testa: uno dei settori di punta, anche per le esportazioni in Oriente, quello automobilistico versa in una profonda crisi di vendite e con esso l’indotto (anche italiano) ed altri settori centrali nella produzione. Si aggiunga che le banche tedesche (Deutsche Bank in primis) sono le più esposte per i cosiddetti “titoli tossici” e non possono più contare sui ricavi della crisi greca, da cui recuperavano gli stanziamenti concessi dall’U. E. La Francia se ne accorta è sta abbandonando il suo tradizionale alleato. Ora alla Germania si aprono due prospettive. Fare quadrato con i paesi nordici e con quei simpaticoni dell’est europeo (il “democratico” Orban, così caro a Salvini, e la sua banda) perdendo gli sbocchi essenziali per le sue merci costituiti dai paesi del sud Europa, Francia per prima. Oppure piegarsi alle richieste di questi ultimi, mantenendo unita la U. E., ma dandole un volto diverso e non più germanocentrico. Questa seconda prospettiva impone una profonda revisione dei vecchi trattati, con i loro assurdi parametri, e non il semplice abbandono del pareggio di bilancio e qualche altro ritocchino di poca portata; ma le ripercussioni su l’elettorato, abituato alla propria opulenza, potrebbero essere devastanti per il partito CDU-CSU (la seconda in particolare) a tutto vantaggio della destra estrema, come evidenziato dalle più recenti tornate elettorali. La prima non sarà indolore per l’economia tedesca, come già detto, molto provata, e comporta un forte ridimensionamento del potere acquisito negli ultimi decenni.
Uomini donne e idee
La crisi in atto ha fatto riscoprire a tutti l’importanza delle competenze; è perciò legittimo domandarsi se gli attuali dirigenti apicali degli organismi preposti ad affrontare i problemi economici posti dalla crisi sono i più adatti a svolgere i loro compiti. In particolare ci si chiede se l’organismo principale del quale l’Europa dispone – la BCE – è in grado di adottare interventi idonei. Chi la dirige è come è noto Christine Madeleine Odette Lagarde. algida burocrate. già direttrice del Fondo Monetario Internazionale, nominata nel 2011 dopo le forzate dimissioni di Dominique Gaston André Strauss-Kahn, economista keinesyano, coinvolto in uno scandalo e costretto a dimettersi, si dice ad opera dei servizi segreti francesi manovrati da Sarközy. La signora è stata riconfermata per altri cinque anni nel 2016 e chiamata a succedere a Mario Draghi perché ligia alle politiche rigoriste ordoliberiste tedesche. Non stupiscono perciè le sue dichiarazioni improvvide, prontamente punite dal default delle borse e dagli orientamenti dei mercati che l’hanno indotta a recedere sui suoi passi. In quanto a Ursula von der Leyen la presidente della Commissione la signora oscilla tra un desiderio di affrancamento dalla Merkel e subisce in realtà le pressioni del suo partito di provenienza, convinto che siamo di fronte a uno stato d’eccezione per cui passata la tempesta le regole di funzionamento dell’Unione riprenderanno a operare. Perciò bisogna lasciare in piedi limiti e paletti come la capital key, gli acquisti di titoli sovrani in base alle quote di capitale della Banca che ogni Stato possiede. È cresciuto nel frattempo il rifiuto verso il Fondo salva-Stati (Mes) ritenuto uno strumento di disciplina che gli Stati egemoni vogliono usare per imporre il loro dominio su quelli in difficoltà (Grecia docet).
Le prospettive
Mai il futuro dell’Unione è parso più incerto. Se da un lato le condizioni nuove generate dalla pandemia spingono alcuni paesi ed anche alcuni eurocrati verso una radicale riforma delle regole fin qui seguite, perseguendo abbastanza scopertamente un approccio keynesiano per la soluzione crisi, per altri tale prospettiva è inaccettabile e continuano a fidare che passata l’ondata tutto rientrerà nell’alveo consueto. Questa fiducia non si basa solo sull’abitudine o sulla incapacità di pensare ad un paradigma economico diverso da quello appreso e mai messo in discussione; il vero problema è che su questo assetto di politica economica Germania e paesi del nord (i paesi dell’ex blocco orientale hanno fino ad ora solo lucrato dalla propria adesione) hanno costruito la propria fortuna a scapito degli altri. Il gioco fino ad ora condotto li ha grandemente favoriti; un cambio di passo non garantirebbe loro i medesimi vantaggi. Di fatto la loro ostinazione rischia d’altra parte di rompere il giocattolo, favorendo i programmi statunitensi e russi di dissoluzione dell’Unione. Le due strade che si aprono sono entrambe gravide di conseguenze negative.
La Redazione