“Ecologia” è una parola che per me ha sempre avuto un sapore dolciastro. Non perché di per sé sia irrilevante il problema che essa porta implicitamente, l’ambiente e la sua salvaguardia, ma per il fatto che lo isola, lo ossifica, lo innalza al di sopra di tutti gli altri, impedendo di contestualizzarlo nella vita degli esseri umani, distaccandolo dalla ricerca del benessere che a quella vita, quella vita di tutti, è necessario ed irrinunciabile. Conciliare la necessità di standard di vita dignitosi, qui ed ora per ognuno, con il diritto a standard di vita ancora più dignitosi per le future generazioni dovrebbe essere l’obiettivo, mentre troppo spesso l’accento prevalente posto sul secondo dei due traguardi, mette in ombra il primo; si lancia un ammonimento agli/lle attuali inquilini/e del globo a rivedere i propri stili di vita per non compromettere le possibilità di sopravvivenza di coloro che verranno. Il che francamente è per lo meno ingeneroso nei confronti di miliardi di persone che, vivendo in condizioni di estrema indigenza, di risorse ne consumano ben poche.
Calibrare i termini, indagando le vere cause del dissesto ambientale, è quindi sempre opportuno.
Il club di Roma
Una rinfrescata alla memoria non può certo fare male! Il primo a parlare del problema ambientale in Italia fu agli inizi degli anni settanta dello scorso secolo Amintore Fanfani, non certo un campione delle sorti progressiva dell’umanità.
E proprio a quegli anni risale la prima visione catastrofica del prossimo futuro: I limiti dello sviluppo, che il Club di Roma aveva commissionato al MIT. Il lavoro ha subito periodici aggiornamenti, questi erano necessari in quanto l’accento era allora posto sul consumo delle risorse energetiche e basato su modelli matematici che tenevano conto delle riserve conosciute delle fonti energetiche e sui tassi di crescita del loro consumo. Nel frattempo nuovi giacimenti sono stati rinvenuti, nuove fonti sono state poste sotto sfruttamento, tipi di lavorazioni meno energivore sono stati messi a punto e tutto ciò ha allontanato il paventato imminente esaurimento delle risorse, evidenziando l’impostazione neomalthusiana del volume. D’altronde tutte queste previsioni del futuro prossimo a venire si basano su modelli matematici opinabili e che proiettano in avanti i dati attuali così come sono; non tengono, ovviamente, conto delle nuove scoperte scientifiche e tecnologiche.
Il “Global Warming”
Al cambio di millennio l’ansia dei cittadini è stata spostata dalle risorse energetiche al riscaldamento globale, o come si ama dire in inglese “Global Warming”. Che il pianeta si stia riscaldando è un dato incontrovertibile, ma poiché la Terra ha avuto nel corso di decine di millenni della sua vita periodi caldi e periodi glaciali, quello che occorre stabilire è se il riscaldamento che oggi osserviamo sia dentro le naturali oscillazioni (certo comunque pernicioso per lo scioglimento dei ghiacciai e la conseguente elevazione del livello degli oceani e carenza di acqua potabile), oppure sia anomalo. Perché nel secondo caso l’intervento correttivo dell’uomo è indispensabile, ma nel primo possiamo solo cercare di scongiurare tecnologicamente le funeste conseguenze. Già nove anni orsono abbiamo denunciato gli errori emersi fin nel momento in cui il problema è stato sollevato e come un’intera schiera di scienziati abbia legato le proprie fortune accademiche allo studio del presunto fenomeno, cui ad esempio Margherita Hack non ha mai accreditato grande fiducia. [1]
Oggi milioni di giovanissimi si mobilitano per chiedere ai governi di tutto il mondo di intraprendere azioni concrete per impedire il riscaldamento globale, anche se tali azioni non sono sempre molto chiare. La presa di coscienza dei problemi è il primo stadio per acquisire una coscienza politica e quindi queste imponenti manifestazione delle generazioni più recenti sono senza dubbio un buon segnale, ma il passo avanti decisivo è quello di collocare i problemi nel loro reale contesto. Alfiere di questo vasto movimento è un’adolescente svedese, divenuta un fenomeno mediatico; e già questo morboso interesse dei media di tutto il mondo, la risonanza che essi concedono alle pur minime azioni di Greta, dovrebbe suscitare una puntina di diffidenza grazie alla consapevolezza che i detti media appartengono alle stesse industrie che inquinano e agli stessi governi che le proteggono.[2]
Quelle rilevate più sopra sono, a mio avviso, autentiche cadute di stile, ma necessarie a creare il personaggio da proporre all’attenzione dei cittadini. È la filosofia sottostante che desta maggiori preoccupazioni. Prima di tutto l’idea trasmessa che è il nostro “stile di vita” ad essere messo sotto accusa, come se esso fosse frutto delle nostre propensioni e non del modello sociale in cui siamo immersi e di cui non siamo i creatori e come se l’inquinamento non fosse determinato dal sistema della produzione, dalle scelte di lavorazioni divoratrici di energia, dalla mancanza di filtri adeguati, ma costosi, per abbattere fumi nocivi, polveri sottili, cascami dannosi all’ambiente ed alle acque, dagli imballaggi che costituiscono la maggior parte dei rifiuti prodotti.
[1]. Nel numero 4 del febbraio 2010 della nostra rivista “Crescita Politica” si diceva: “Quello che emerge in questi giorni è che un rilevante gruppo di scienziati ha legato la propria carriera alla scommessa sul disastro climatico. Il rapporto 2007 dell’Ipcc (il comitato scientifico dell’ONU sui cambiamenti climatici, cui partecipano 2.500 scienziati di tutto il mondo) è sotto accusa per errori e falsificazioni. Gli errori, si sa, li fanno tutti; ma quando un rapporto ufficiale tra i più citati del mondo e su cui si costruiscono carriere accademiche e successi politici pronostica la fine dei ghiacci in Himalya entro il 2035 sulla base di una tesi di laurea, che citava un giornale, che a sua volta citata a sproposito uno scienziato (che poi ha smentito) la cosa si fa inquietante. Ma quello che
più allarma e che è stato dimostrato che alcuni dati del dipartimento di climatica dell’Università dell’East Anglia sono stati scientemente manipolati in modo da rendere più drammatici le conseguenze negative dell’effetto-serra (Il sole 24 ore, n°40, mer. 16 febb. 2010, p. 14).” [2] Alcune aporie saltano agli occhi. La nostra paladina del clima opera sotto un’attenta regia, con scelte che appaiono ecologiche solo apparentemente: si reca negli Stati Uniti d’America attraversando l’oceano in barca a vela, ma viene da chiedersi quanti materiali tecnologicamente avanzati e quanto legni pregiati siano stati utilizzati per costruire quella barca e quali tessuti speciali siano stati utilizzati per confezionare la splendida tutina che indossava; senza considerare che il mezzo utilizzato non è alla portata delle tasche dei più e richiede un lasso di tempo che non tutti possono permettersi. Poi si trasferisce in Canada usufruendo dell’auto elettrica di Schwarzenegger, inconsapevole dei guasti ecologici che sottostanno alla produzione delle batterie al litio (Sui problemi relativi alle batterie al litio vedi: Illusione elettrica, in “Crescita Politica” n° 105 del 1 febbraio 2019.) ed alla produzione dell’energia elettrica.
Questo secondo particolare mi servirà tra poco per chiudere il cerchio del ragionamento.
Paesi ricchi paesi poveri, ricchezza e povertà
L’indice poi viene puntato sui paesi che maggiormente ignorano la tutela ambientale, e non tanto gli Stati Uniti di Trump, fieramente insofferenti per protervia ad ogni limitazione dei propri diritti, o presunti tali, di spargere nell’aria e nelle falde quanto di peggio è possibile immaginare, ma Trump passerà e forse un nuovo presidente sarà maggiormente sensibile al rispetto dei trattati internazionali. Sotto accusa sono i colossi dell’Asia: India e Cina; i paesi occidentali, che per anni hanno consumato e inquinato raggiungendo livelli di consumo elevatissimi ed un benessere diffuso, ora pretendono che gli altri si fermino prima di raggiungere lo stesso benessere per le proprie popolazioni. Così una ragazzina svedese, cresciuta in uno dei paesi più ricchi e che ha consumato risorse quanto altri mai, chiede agli indiani di fermarsi ai livelli di mera sussistenza, od anche in molti casi ben al di sotto di essa, per preservare il proprio futuro , mentre molti di loro muoiono oggi di fame e di stenti.
È mia profonda convinzione che una così intensa campagna scatenata dai messi di comunicazione di massa, che rispondono ai propri padroni che sono poi i padroni dell’economia, un interesse talmente spasmodico per le sorti del pianeta, non sia un atto di coscienza rinascente, un puro impeto di altruismo per i “nostri figli”. Timeo Danaos et dona ferentes! Cosa nasconde questa melassa comunicativa? Perché i governi si piegano così solerti alle spinte di alcune manifestazioni? Eppure è evidente che quando il loro potere, i loro interessi sono veramente posti in discussione non
hanno mani leggere; Honk Kong docet.
L’economia a chilometro zero contro la delocalizzazione
La Germania vara un grande piano per la “green economy” e molti paesi si avviano nella stessa direzione. Mi è difficile credere che ciò vada contro i loro scopi di profitto, che sacrifichino parte di ciò che credono spetti loro di diritto.
Il modello di sviluppo fino ad ora perseguito è giunto ad un collo di bottiglia e la crisi ormai più che decennale in cui navighiamo e da cui non si riesce a riemergere ne è un sintomo evidente. La frantumazione geografica delle filiere produttive, che comportava decentramento delle aziende, delocalizzazione delle lavorazioni, spostamento di merci, ha generato la nascita dei cosiddetti corridoi, con lo sviluppo della logistica e l’ipertrofia del sistema dei trasporti, ha comportato il trasferimento a grandi distanze delle risorse energetiche con metanodotti, oleodotti, tralicci. Questo riguardava anche le produzioni alimentari, il cui spostamento prima in India e poi in Africa, ha devastato le loro economie locali di sussistenza. Tutto ciò è divenuto troppo costoso e danneggia le aree di più antica industrializzazione e sviluppo.
Ecco che fioriscono le energie alternativa che si consumano dove vengono prodotte, il reshoring (ovverosia il ritorno nei paesi di origine delle aziende un tempo delocalizzate), le filiere dei prodotti tipici locali consumati a chilometri zero: in altre parole la “green economy”. Ma ciò non comporta la ricostituzione dei giganteschi centri produttivi di un tempo, con le conseguenti pericolose concentrazioni operaie. La rivoluzione digitale permette un controllo centralizzato di una miriade di microaziende disseminate sul territorio; è la grande distribuzione a tenere sotto controllo il sistema produttivo polverizzato. E’ il capitalismo che si trasforma!
Per una economia ecologica e compatibile
Nuove ondate migratorie ci aspettano se le produzioni alimentari a suo tempo spostate in Africa, depauperando il territorio ed espellendo gli autoctoni, verranno dismesse creando nuova disoccupazione. Bisogna invece che esse continuino a svilupparsi e a dirigersi verso il mercato interno elevando gli standard di vita delle popolazioni locali.
Per dirla in parole povere occorre che la produzione agricola etiope venga messa a disposizione delle popolazioni locali invece che essere interamente esportata, occorre che in Burkina Faso possano essere consumati i fagiolini che le multinazionali esportano per le industrie della conservazione agro alimentare e che invadono i nostri supermercati e mille altri esempi potremmo fare.
Certo bisogna evitare la deforestazione per produrre di più, bisogna promuovere uno sviluppo compatibile con l’assetto del territorio e del clima. Ma questo e un altro discorso. Un discorso più complesso e di critica al sistema di produzione capitalistico che non piacerebbe a molti degli sponsor di Greta.
Saverio Craparo