Arriva Riva: poi Mittal fa l’indiano

È un coro unanime: i mali dell’acciaieria di Taranto sono antichi! Ma tutti si
riferiscono all’ultimo decennio di mancate bonifiche, di mancate assunzioni di
responsabilità, di conflitto permanente tra lavoro e salute, di assenza di un vero piano industriale, di deperimento degli impianti senza un’adeguata manutenzione ed un  necessario rinnovamento degli stessi. Nessuno indaga sull’origine del disastro, sul peccato originale che lo ha generato.
In principio fu l’Italsider, azienda del groppo IRI , quindi statale. Erano gli anni ’60, in pieno boom economico; la filosofia dominante per la rinascita del sud d’Italia era quella di creare grossi poli industriali che avrebbero consentito di propagare nei territori circostanti un’industrializzazione indotta e di conseguenza un progresso economico. In  realtà, a parte una crescita locale dell’occupazione ed un riverbero nella nascita di aziende di supporto, la sperata dinamizzazione dell’economie del mezzogiorno non si verificò e questi enormi investimenti si risolsero in autentiche “cattedrali nel deserto”, quando non rimasero a lungo non ultimati, come nel caso del V° Centro siderurgico di Gioia Tauro, poi convertito in un porto il cui sviluppo è ancora asfittico.
L’economia rurale venne depauperata e la mancanza di opportune vie di comunicazione impedì la diffusione capillare dell’industria.
Erano anche gli anni in cui il bagliore dello sviluppo, offuscava i problemi ambientali che si venivano a creare.
Soprattutto lo sviluppo di grandi poli petrolchimici (Marghera, Porto Torres, Priolo, Livorno), trasformò l’Italia nella raffineria d’Europa con danni incalcolabili alle zone circostanti e drenando immensi capitali in un’industria famelica di
energia e a basso contenuto occupazionale. Nel caso di Taranto si sviluppò la più grande acciaieria europea a ridosso della città, senza alcun riguardo alla tutela di coloro che vi lavoravano (pochi relativamente alla massa di investimenti fatti) ed a coloro che vivevano nei dintorni.

Privato è bello

Venne poi il periodo delle privatizzazioni, il grande abbaglio delle sinistre riformiste, che sposarono la logica del mercato senza alcuna riflessione sulla provenienza dello slogan “meno Stato, più privato”. Dal foraggiare imprenditori
privati, come nel caso della SIR di Nino Rovelli, si passò a vendere i gioielli di famiglia, o meglio a svenderli. Ad esempio, “Il Pignone”, storica fabbrica metallurgica fiorentina nel 1953 era sull’orlo del fallimento, perché la produzione
di telai per tessitura non era decollata; fu acquistata dall’ENI , azienda pubblica, divenne il “Nuovo Pignone”, fu convertita alla produzione di turbine, sviluppando una tecnologia d’avanguardia grazie alla quale divenne leader mondiale nel
settore e divenendo fonte di grandi profitti (350 miliardi di lire dal 1985 al 1993). Appunto nel 1993 la fabbrica viene venduta alla General Electric per 1.100 miliardi, a fronte di un portafoglio di ordini di 5.000 miliardi; con l’acquisto
l’azienda statunitense acquista un complesso che produce manufatti strategici per il proprio commercio, ma si appropria di un preziosissimo know-how sviluppato negli anni all’interno del Nuovo Pignone con investimenti pubblici.
Nel 1995 l’acciaieria di Taranto viene acquistata dal gruppo Riva. Ancora una volta il prezzo pagato supera di poco la metà del vero valore: nasce così l’Ilva. Già lo Stato ha perso grandi investimenti nel petrolchimico: Nino Rovelli
un ventennio prima è stato coinvolto in uno scandalo ed è fuggito in Svizzera “col malloppo”; ma il privato è per definizione virtuoso e il pubblico è, sempre per definizione, inefficiente. È questo, comunque, il momento in cui iniziano i
guai per la fabbrica tarantina. In un ventennio i Riva spremeranno l’azienda, accumulando ingenti profitti. Non faranno investimenti nell’innovazione tecnologica, lasciando invecchiare inesorabilmente gli impianti. Ovviamente, nonostante il problema ambientale sia ormai drammaticamente emerso e i casi di cancro nel rione Tamburi superino di gran lunga la media degli altri territori (si calcola che in un settennio siano morte circa 12.000 persone), i Riva non investirono nulla neppure nell’abbattimento delle emissioni nocive. Il bubbone scoppia nel 2012 ed Emilio Riva finisce sotto inchiesta con il fratello ed i figli. L’Ilva passa sotto controllo di commissari governativi, la produzione continua, ma della riduzione dell’inquinamento nessuno si cura: si avvia una lotta tra gestione aziendale e magistratura, con i governi che privilegiano la salvaguardia dei posti di lavoro alla salute dei lavoratori e dei cittadini.
Nel 2018 si fa avanti per l’acquisto delle acciaierie il colosso mondiale del settore: ArcelorMittal franco-indiana, che con oltre 96 milioni di tonnellate annue è il più grosso produttore di acciaio, seguito a distanza da un’azienda cinese.
L’accordo siglato sembra la soluzione definitiva per i problemi di Taranto sia occupazionali che ambientali. L’illusione dura poco. Dopo poco più di un anno ArcelorMittal annuncia di volersi ritirare; la scusa è la classica foglia di fico: dalla
legge è stato tolto il cosiddetto “scudo penale”. L’affare è pasticciato in quanto la norma entra ed esce dalla legislazione e per di più è mal scritta, perché invece che prevedere una ragionevole esenzione per chi subentra nella gestione di
un’azienda dalle colpe di chi l’ha preceduto, viene impostata proprio e solamente per il caso Taranto. Ma il vero problema è un altro: ancora una volta i nostri solerti politici si sono fatti abbindolare, dimostrando di non avere il minimo sentore del modo di agire delle multinazionali. Un gruppo delle dimensioni di ArcelorMittal, con centri di produzione in tutto il mondo perché dovrebbe investire per acquisire un nuovo centro industriale? La crisi fa ristagnare la domanda di acciaio ed i prezzi sul mercato restano freddi a fronte di un volume di produzione nel mondo crescente. ArcelorMittal non è venuta in Italia per produrre, ma per chiudere Taranto: il suo investimento aveva lo scopo di impedire che la concorrenza cinese si rafforzasse dopo il suo l’ingresso in British Steel con un ulteriore acquisizione. D’altronde la Cina è il maggior
consumatore di acciaio e persegue lo scopo dell’autosufficienza. Lo ha reso evidente la decisione del gruppo franco-indiano di accingersi allo spegnimento degli altoforni, operazione che renderebbe impossibile far ripartire in un qualsiasi
futuro la produzione. Anche se al momento sospesa in attesa della pronunzia del Tribunale di Milano, la minaccia non solo svela la vera intenzione dell’azienda franco-indiana di distruggere lo stabilimento, ma risulta inaccettabile perché essa è tenuta a consegnare la fabbrica di Taranto dalla cui gestione ha deciso di recedere e consegnarla intatta a chi subentrerà.
Privato non vuol dire altruismo o soccorso nelle difficoltà, ma solo massimizzazione del profitto con qualsiasi mezzo, anche a costo di distruggere l’intera economia di un territorio. I governi che dalle multinazionali sono eterodiretti non garantiscono alcuna soluzione ed è l’ora che i lavoratori ne prendano coscienza. La prima cosa da fare è prendere possesso della fabbrica, estromettendo la dirigenza che ha lo scopo dichiarato di danneggiarla e presidiare gli altoforni affinché non vengano spenti, avviare immediatamente la bonifica e la de carbonizzazione dell’impianto, investendo sul futuro.

Saverio Craparo